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SENTENZA N. 260
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Marta CARTABIA Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, promosso dalla Corte d’appello di Firenze nel procedimento vertente tra la Fondazione Teatro Maggio Musicale Fiorentino e M.M.G. con ordinanza del 18 settembre 2014, iscritta al n. 234 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 giugno 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 18 settembre 2014, iscritta al n. 234 del registro ordinanze 2014, la Corte d’appello di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, prospettando la violazione degli artt. 3, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
La norma impugnata prevede che «L’articolo 3, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 giugno 2010, n. 100, si interpreta nel senso che alle fondazioni, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine, di proroga o di rinnovo dei medesimi contratti».
La Corte d’appello fiorentina espone di dover decidere sul gravame che la Fondazione Teatro Maggio Musicale Fiorentino ha proposto contro la sentenza pronunciata dal Tribunale ordinario di Firenze, in funzione di giudice del lavoro, nella controversia che ha contrapposto l’appellante a M.M.G., «tersicorea di fila con obbligo di solista», lavoratrice della fondazione in virtù di «34 contratti temporanei a partire dal 3.6.1997 e poi reiterati negli anni, (altri 7) anche nel corso del giudizio stesso».
Il giudice di primo grado, con la sentenza impugnata, ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto del 9 gennaio 2001, ha accertato che tra le parti si era instaurato, dal 9 gennaio 2001, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con inquadramento della ricorrente nel sesto e poi nel quinto livello del contratto collettivo nazionale, e ha condannato la fondazione, in base all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), al pagamento dell’indennità onnicomprensiva di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale, con rivalutazione monetaria e interessi legali.
Tale decisione si fonda sull’illegittimità dell’apposizione del termine a un contratto carente di una «reale, coerente e dimostrata esigenza di temporaneità».
La Corte d’appello, investita del gravame della fondazione, afferma, in primo luogo, la natura privatistica dei rapporti di lavoro intercorsi tra le parti.
Da tale affermazione discende l’infondatezza del richiamo al divieto di stabilizzazione vigente nell’àmbito del lavoro pubblico (art. 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»).
Sulla scorta di tale rilievo e della giurisprudenza di legittimità in tema di contratti a termine delle fondazioni lirico-sinfoniche (fra le molte, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 marzo 2014, n. 5748), la Corte rimettente conclude che le statuizioni del Tribunale resistono alle doglianze dell’appellante.
Il giudice d’appello, nel condividere l’apprezzamento del giudice di prime cure, ribadisce che la ricorrente è stata assunta allo scopo di «assicurare l’espletamento della ordinaria programmazione del Teatro senza riferimento a specifici spettacoli e anche al di fuori dell’impegno originariamente preventivato».
Alla conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato si frappone l’ostacolo della norma impugnata, che, sotto la parvenza interpretativa, interviene – con valenza retroattiva – a privare del diritto alla stabilizzazione del rapporto di lavoro quei soggetti che già avevano conseguito una pronuncia favorevole.
Tali considerazioni, ad avviso della Corte rimettente, confermano la rilevanza della questione.
In punto di non manifesta infondatezza, la Corte d’appello argomenta che la disciplina censurata si indirizza a un numero ristretto di lavoratori «ben individuabili nominativamente», discriminati senza alcuna giustificazione rispetto alla generalità dei lavoratori del settore privato, che beneficiano della tutela più ampia prevista, in materia di contratti a termine, dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES).
La norma impugnata non attribuisce alla legge che intende interpretare (decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, recante «Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività culturali» e convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100) un senso riconducibile alle possibili letture del testo originario e vanifica l’affidamento ragionevole dei consociati, avvalorato dall’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità.
Tali caratteristiche pongono la norma in antitesi con i princípi di eguaglianza e di ragionevolezza e concorrono a configurare un’ingerenza indebita del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, in mancanza di motivi imperativi d’interesse generale, incompatibili con il carattere privato delle fondazioni.
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di respingere, in quanto infondata, la questione di legittimità costituzionale.
La difesa dello Stato replica che la disciplina impugnata ha natura interpretativa, in quanto isola una delle varianti di senso (il divieto generale di stabilizzazione dei rapporti irregolari), coerente con la finalità di contenere la spesa pubblica e con le peculiarità di un settore contraddistinto da un’attività stagionale.
A dire dell’Avvocatura generale dello Stato, la norma censurata rinviene la sua ragion d’essere nella spiccata impronta pubblicistica delle fondazioni lirico-sinfoniche, sovvenzionate in misura prevalente dallo Stato e dagli enti locali, qualificabili, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 153 del 2011), come organismi nazionali di diritto pubblico.
Non si potrebbe istituire, pertanto, alcun raffronto tra i rapporti di lavoro instaurati dalle fondazioni e i rapporti di lavoro che intercorrono con gli imprenditori privati.
Inoltre, i ragguardevoli disavanzi di esercizio del settore integrano «razionali e congrue motivazioni di spiccato rilievo pubblicistico», idonee a giustificare l’introduzione di un assoluto divieto di conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Firenze dubita della legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, e denuncia il contrasto della norma impugnata con gli artt. 3, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
La norma censurata, che dichiara di interpretare l’art. 3, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64 (Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività culturali), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100, vieta di convertire i contratti di lavoro a termine delle fondazioni lirico-sinfoniche in contratti a tempo indeterminato, in conseguenza delle violazioni delle norme sulla stipulazione dei contratti, sulle proroghe e sui rinnovi.
Con particolare riguardo alla fattispecie di illegittima apposizione del termine al primo contratto, la Corte rimettente ravvisa una portata retroattiva della disciplina, dietro lo schermo dell’enunciata natura interpretativa, e assume che tale retroattività contravvenga ai princípi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.) e leda il diritto a un processo equo, consacrato anche dalla fonte convenzionale.
La normativa impugnata, carente di motivi imperativi d’interesse generale, frustrerebbe l’affidamento legittimo dei consociati e si tradurrebbe in un’arbitraria ingerenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, discriminando, senza alcuna ragionevole giustificazione, i lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche rispetto agli altri lavoratori del settore privato.
2.– Sul presente giudizio non incide la nuova disciplina in tema di contratti a tempo determinato delle fondazioni di produzione musicale, introdotta dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Per effetto dell’art. 57, tale disciplina (artt. 23, comma 3, e 29, comma 3) si applica soltanto dal 25 giugno 2015, giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, e pertanto non concerne i diritti sorti nel vigore della normativa antecedente.
Le novità normative non dispiegano alcuna influenza sul giudizio in corso, né alterano i termini della questione. La Corte rimettente non deve, dunque, rinnovare la valutazione di rilevanza (sentenza n. 205 del 2015, con riguardo alle novità apportate, con una norma transitoria di identico tenore, dal coevo decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80, recante «Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell'articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183»).
3.– La questione è fondata.
4.– La norma impugnata deve essere esaminata in una prospettiva diacronica, in ragione dei molteplici interventi legislativi che si sono succeduti.
4.1.– Occorre prendere le mosse dall’art. 3, comma 6, del d.l. n. 64 del 2010, come convertito, che al primo periodo così recita: «Alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, continua ad applicarsi l’articolo 3, quarto e quinto comma, della legge 22 luglio 1977, n. 426, e successive modificazioni, anche con riferimento ai rapporti di lavoro instaurati dopo la loro trasformazione in soggetti di diritto privato e al periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368».
L’art. 3 della legge 22 luglio 1977, n. 426 (Provvedimenti straordinari a sostegno delle attività musicali), cui si fa riferimento nel d.l. n. 64 del 2010, vietava «i rinnovi dei rapporti di lavoro che, in base a disposizioni legislative o contrattuali, comporterebbero la trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato» (terzo comma) e sanciva la nullità di diritto delle assunzioni attuate in violazione di tale divieto (quarto comma).
La legge n. 426 del 1977 ha come retroterra l’assetto normativo che attribuiva la personalità giuridica di diritto pubblico agli enti di prioritario interesse nazionale chiamati ad operare nel settore musicale (art. 5, primo comma, della legge 14 agosto 1967, n. 800, in tema di «Nuovo ordinamento degli enti lirici e delle attività musicali»).
Tale diverso assetto dà conto delle deroghe alla disciplina generale, racchiusa nella legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), così come successivamente modificata, e, in particolare, della scelta di sottrarre gli enti lirici all’applicazione dell’art. 2 della legge n. 230 del 1962, in tema di proroghe e rinnovi (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 23 marzo 1998, n. 352).
Nel 2010 il legislatore si muove in un contesto profondamente mutato.
Il decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367 (Disposizioni per la trasformazione degli enti che operano nel settore musicale in fondazioni di diritto privato) ha disposto la trasformazione degli enti di prioritario interesse nazionale, che operano nel settore musicale, in fondazioni di diritto privato (art. 1) e a tali fondazioni ha conferito una «personalità giuridica di diritto privato» (art. 4). La scelta di assoggettare i rapporti di lavoro dei dipendenti delle fondazioni alle disposizioni del codice civile e a una regolamentazione di matrice contrattuale (art. 22, comma 1) è coerente con le nuove previsioni, efficaci a partire dal 23 maggio 1998 (art. 1 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 345, recante «Disposizioni urgenti in tema di fondazioni lirico-sinfoniche», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 gennaio 2001, n. 6).
Il d.l. n. 64 del 2010, in un disegno complessivo improntato all’esigenza di razionalizzare la spesa, ha dettato, per un verso, disposizioni di carattere generale, innovando la disciplina dei contratti a tempo determinato delle fondazioni, e, per altro verso, disposizioni legate alla situazione contingente e alle questioni controverse, insorte nella transizione dal regime di diritto pubblico a quello eminentemente privatistico.
Quanto al primo profilo, il legislatore, pur confermando la necessità di un concreto riferimento dei contratti di scrittura artistica a specifiche attività artistiche espressamente programmate (art. 3, comma 6, secondo periodo), delinea una disciplina derogatoria per i contratti a tempo determinato delle fondazioni lirico-sinfoniche e le dispensa dall’osservare le disposizioni dell’art. 1, commi 01 e 2, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), che individuano nel contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la forma comune di rapporto di lavoro e sanciscono per l’apposizione del termine, a pena di inefficacia, l’obbligo della forma scritta (art. 3, comma 6, terzo periodo).
Per quel che attiene al secondo aspetto, rilevante nel presente giudizio, il legislatore si propone di fugare i dubbi che avevano accompagnato l’approdo delle fondazioni al regime privatistico.
Tali dubbi erano, peraltro, circoscritti entro un arco temporale che, dalla trasformazione degli enti lirici in soggetti di diritto privato (23 maggio 1998), si estendeva fino all’entrata in vigore delle nuove regole sui contratti a tempo determinato, introdotte con il d.lgs. n. 368 del 2001 e finalizzate a evitarne l’abuso, in attuazione della direttiva comunitaria.
La norma ha come orizzonte un periodo delimitato, come si desume dal dettato letterale, che opera un riferimento circostanziato ai rapporti di lavoro, instaurati dopo la trasformazione delle fondazioni in soggetti di diritto privato, e «al periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368».
Per tale periodo, entro cui la transizione delle fondazioni al regime privatistico si è compiuta, ma non ha ancora visto la luce la nuova disciplina dei contratti a tempo determinato (d.lgs. n. 368 del 2001), il legislatore ribadisce la perdurante vigenza delle norme sui rinnovi, dettate dalla legge n. 426 del 1977, funzionali a una regolamentazione pubblicistica, altrimenti superata, senza tale disposizione espressa, dall’applicazione delle regole del codice civile.
4.2.– L’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge n. 69 del 2013, censurato nel presente giudizio, è stato introdotto nella fase di conversione ed è il frutto di un emendamento delle commissioni riunite in sede referente (emendamento n. 40.3).
La norma, che ricalca la previsione già inserita nell’art. 11, comma 19, ultimo periodo, del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo), nel testo anteriore alla conversione, con modificazioni, disposta dall’art. 1, comma 1, della legge 7 ottobre 2013, n. 112, propone l’interpretazione autentica dell’art. 3, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 64 del 2010.
Il legislatore statuisce, per le fondazioni lirico-sinfoniche, un divieto assoluto di stabilizzazione del rapporto di lavoro «come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine, di proroga o di rinnovo dei medesimi contratti».
Come emerge dai lavori parlamentari e, in particolare, dalla relazione illustrativa del disegno di legge di conversione (A.S. n. 1014, XVII Legislatura) del d.l. n. 91 del 2013, il cui art. 11, comma 19, ultimo periodo, è l’antesignano della norma oggi impugnata, l’esigenza di introdurre una norma interpretativa scaturisce da una «giurisprudenza estesa su tutto il territorio nazionale», che ha inteso in senso restrittivo il divieto di stabilizzazione sancito nel 2010, limitandolo alle ipotesi dei rinnovi. Il legislatore imputa alla giurisprudenza di avere travisato il senso del d.l. n. 64 del 2010, «che intendeva evitare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro».
Confliggerebbe, dunque, con tale ratio legis l’interpretazione restrittiva, che, già prima dell’intervento della norma di interpretazione, aveva ricevuto l’avallo della Corte nomofilattica (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 30 luglio 2013, n. 18263, e 26 maggio 2011, n. 11573, che inaugurano un orientamento conforme, riferito alla norma interpretata ed espresso, fra le molte, pur dopo l’entrata in vigore della norma interpretativa, da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 maggio 2014, n. 10924, 12 maggio 2014, n. 10217, 27 marzo 2014, n. 7243, 20 marzo 2014, n. 6547, 12 marzo 2014, n. 5748).
5.– Nel sancire che il divieto di conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato non è circoscritto alla materia dei rinnovi e a quella connessa delle proroghe, ma investe ogni ipotesi di «violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine», la norma impugnata non enuclea una plausibile variante di senso dell’art. 3, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 64 del 2010 e dell’art. 3, quarto e quinto comma, della legge n. 426 del 1977.
La norma, oggetto di interpretazione, contiene un riferimento specifico ai rinnovi dei contratti a termine. Secondo il significato proprio delle parole, che è canone ermeneutico essenziale (art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale), il vocabolo “rinnovo” evoca un concetto diverso rispetto a quello dell’illegittimità del termine, apposto al primo contratto.
Se il rinnovo attiene alla successione dei contratti e all’aspetto dinamico del rapporto negoziale, la questione scrutinata nel giudizio principale verte su un vizio genetico, che inficia il contratto sin dall’origine.
Non a caso, il legislatore esclude ogni equiparazione tra il rinnovo e l’illegittimità originaria del termine nella disciplina dei contratti a tempo determinato. “Rinnovo” è termine tecnico, riscontrabile in tutta la legislazione sui contratti a tempo determinato, e approda inalterato fino agli sviluppi più recenti.
L’autonomia concettuale dei rinnovi traspare da una trama, variegata e coerente, di disposizioni, i cui fili essenziali legano la legge n. 230 del 1962, che disciplina la materia all’art. 2, al d.lgs. n. 368 del 2001, che al tema delle proroghe e della successione dei contratti dedica gli artt. 4 e 5, e, da ultimo, si allacciano al d.lgs. n. 81 del 2015, che menziona le proroghe e i rinnovi all’art. 21.
Anche la disamina della disciplina di settore conferma tale autonomia concettuale e dimostra che è proprio nella regolamentazione delle proroghe e dei rinnovi che risiede la peculiarità dei contratti a tempo determinato nelle fondazioni lirico-sinfoniche.
L’intero assetto normativo è attraversato da questi princípi, che caratterizzano il corso della sua complessa evoluzione e trovano significativi elementi di conferma dapprima nell’art. 3, quarto e quinto comma, della legge n. 426 del 1977, tributaria del regime pubblicistico degli enti lirici, nell’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 367 del 1996, che esonera le fondazioni, oramai privatizzate, dall’osservanza delle disposizioni dell’art. 2 della legge n. 230 del 1962 sulle proroghe e sui rinnovi, in seguito nell’art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 368 del 2001, che, su impulso della direttiva comunitaria, riproduce tale disposizione derogatoria nell’innovare la disciplina dei contratti a tempo determinato.
Anche l’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2015, ribadisce, con riguardo alle proroghe e alle successioni dei contratti, la disciplina derogatoria dei contratti a tempo determinato nelle fondazioni lirico-sinfoniche.
Si può dunque affermare che la disciplina censurata attribuisce alla disposizione del d.l. n. 64 del 2010 un contenuto precettivo dissonante rispetto al significato della parola “rinnovi”, accreditato da una costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità.
Non si può ritenere, pertanto, che la norma interpretativa sia servita al legislatore, per emendare un’imperfezione del testo originario, ripristinando il significato autentico della disposizione interpretata, o che abbia risolto contrasti interpretativi, forieri di incertezze rilevanti.
6.– La disposizione impugnata, che non interferisce con il divieto di stabilizzazione nelle ipotesi di proroghe e di rinnovi illegittimi, opera in una latitudine circoscritta e riguarda la sola ipotesi della violazione delle norme sull’illegittima apposizione del termine.
La norma impugnata lede, in pari tempo, l’affidamento dei consociati nella sicurezza giuridica e le attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria (sentenza n. 209 del 2010, per l’indissolubile legame che unisce tali valori dello stato di diritto, posti in risalto anche dall’ordinanza di rimessione della Corte fiorentina).
L’affidamento, nel caso di specie, risultava corroborato da un assetto normativo risalente, imperniato sulla distinzione tra i rinnovi e le fattispecie di illegittimità originaria del contratto a tempo determinato, e da una giurisprudenza che gli stessi lavori parlamentari menzionano e che la legge interpretativa consapevolmente ribalta, ripercuotendosi sui giudizi in corso e su vicende non ancora definite.
La disciplina impugnata, priva di un appiglio semantico con la norma oggetto di interpretazione, lede, inoltre, l’autonomo esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto è suscettibile di definire i giudizi in corso, travolgendo gli effetti delle pronunce già rese.
L’illegittimità costituzionale della norma, in quanto retroattiva, si coglie anche sotto un distinto e non meno cruciale profilo.
Nell’estendere il divieto di conversione del contratto a tempo determinato oltre i confini originariamente tracciati, includendo anche l’ipotesi di un vizio genetico del contratto a tempo determinato, la norma pregiudica un aspetto fondamentale delle tutele accordate dall’ordinamento ai rapporti di lavoro, in un contesto già connotato in senso marcatamente derogatorio rispetto al diritto comune.
Del resto, con riguardo ai lavoratori dello spettacolo, la Corte di giustizia ha valorizzato il ruolo della “ragione obiettiva” come mezzo adeguato a prevenire gli abusi nella stipulazione dei contratti a tempo determinato e come punto di equilibrio tra il diritto dei lavoratori alla stabilità dell’impiego e le irriducibili peculiarità del settore (sentenza 26 febbraio 2015, nella causa C-238/14, Commissione contro Granducato di Lussemburgo, che riprende le affermazioni della sentenza della Corte di giustizia, 26 novembre 2014, nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri).
7.– Restano assorbite le censure di violazione dell’art. 3 Cost., per asserita disparità di trattamento tra i lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche e i lavoratori del settore privato.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, nella parte in cui prevede che l’art. 3, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100, si interpreta nel senso che alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° dicembre 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 dicembre 2015.