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SENTENZA N. 220
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
- Giorgio LATTANZI “
- Aldo CAROSI “
- Marta CARTABIA “
- Sergio MATTARELLA “
- Mario Rosario MORELLI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 2, della legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia nel procedimento vertente tra Collana Carmelo e l’Ufficio Territoriale del Governo di Agrigento ed altri, con ordinanza del 7 aprile 2011, iscritta al n. 168 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di costituzione di Collana Carmelo nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 giugno 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi l’avvocato Paolo Accardo per Collana Carmelo e l’avvocato dello Stato Maria Elena Scaramucci per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 7 aprile 2011, il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 2, della legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale).
Il giudice a quo premette che nel marzo 2005 il Sindaco del Comune di Canicattì aveva chiesto al Prefetto di Agrigento di conferire la qualifica di agente di pubblica sicurezza, ai sensi della norma denunciata, a diciassette dipendenti comunali, assunti da detto Comune con la qualifica di vigile urbano. Con provvedimento del 21 agosto 2006 il prefetto aveva respinto la richiesta in rapporto ad uno di detti dipendenti, sulla base di una duplice valutazione negativa: la prima relativa al suo «ambito parentale» (essendo il padre e lo zio sospettati di appartenenza ad una organizzazione mafiosa ed essendo stato il fratello condannato per spaccio di sostanze stupefacenti, anche se successivamente riabilitato); la seconda concernente la condotta dello stesso interessato (il quale si accompagnerebbe con soggetti dediti al consumo e allo spaccio di sostanze stupefacenti e appartenenti alla criminalità, sia comune che organizzata).
Il provvedimento era stato impugnato innanzi al Tribunale rimettente dal vigile urbano interessato, il quale aveva lamentato – in aggiunta ad altri motivi – che il diniego risultasse fondato su ragioni esorbitanti dall’ambito delle valutazioni rimesse all’autorità prefettizia dalla disposizione censurata.
Ad avviso del giudice a quo, in relazione a tale motivo, il ricorso dovrebbe essere accolto. L’art. 5, comma 2, della legge n. 65 del 1986 prevede, infatti, che il prefetto conferisca, previa comunicazione del sindaco, la qualità di agente di pubblica sicurezza al personale che svolge il servizio di polizia municipale, dopo aver accertato che gli interessati siano in possesso di tre requisiti: «a) godimento dei diritti civili e politici; b) non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione; c) non essere stato espulso dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici». Alla luce di una consolidata interpretazione giurisprudenziale, qualificabile come «diritto vivente», il conferimento della qualità di agente di pubblica sicurezza al personale in questione costituirebbe atto vincolato, privo di qualsiasi margine di discrezionalità, rimanendo subordinato alla sola verifica dei requisiti tassativamente indicati dalla norma, senza alcuna possibilità di estensione del sindacato dell’autorità prefettizia alla «posizione familiare» e al comportamento del soggetto interessato.
Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale assetto, rilevando come esso appaia «largamente distonic[o]» rispetto alla disciplina intesa a contrastare le infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici, contenuta nella legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nel decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 (Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994, n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia nonché disposizioni concernenti i poteri del prefetto in materia di contrasto alla criminalità organizzata) e nel decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia). Del tutto illogico risulterebbe, in specie, che un quadro parentale e comportamentale che, attraverso la cosiddetta «informativa prefettizia atipica», impedisce a un soggetto di divenire parte di un contratto di appalto o di fornitura con una pubblica amministrazione, debba essere ritenuto irrilevante ai fini del conferimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Il dubbio di legittimità costituzionale non sarebbe, d’altra parte, fugato dalla considerazione addotta – secondo il giudice a quo – nelle pronunce giurisprudenziali espressive del «diritto vivente», per spiegare l’avvenuta previsione, da parte della norma denunciata, in assunto chiaramente «troppo ristretta», di una serie di requisiti: e, cioè, che il requisito della «buona condotta», previsto dall’art. 11 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), sarebbe già stato vagliato dall’amministrazione comunale all’atto dell’assunzione del dipendente che aspira all’ottenimento della qualifica di cui si discute.
La verifica della «buona condotta» si tradurrebbe, infatti, in una valutazione diversa e meno ampia di quella effettuata nel caso di specie dall’autorità prefettizia, in una prospettiva di contrasto della criminalità comune ed organizzata. Per ragioni di «corrispondenza» con la riserva allo Stato della potestà legislativa in materia di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.), la valutazione in questione dovrebbe essere, in ogni caso, demandata alle autorità governative a ciò specificamente preposte, e non già alle autonomie locali.
In questa prospettiva, la norma censurata violerebbe, quindi, l’art. 3 Cost., assegnando al giudizio degli enti locali, non forniti delle necessarie competenze e informazioni, una illogica prevalenza rispetto alle valutazioni operate dagli organi governativi deputati alla tutela della pubblica sicurezza: con correlata lesione anche del riparto di attribuzioni prefigurato dal citato art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.
La disposizione denunciata si porrebbe, altresì, in contrasto con il principio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), rendendo possibile l’assegnazione della qualifica di agente di pubblica sicurezza a soggetti inidonei all’espletamento delle relative funzioni.
L’art. 3 Cost. risulterebbe leso, infine, anche sotto l’ulteriore profilo della «irragionevolezza intrinseca» di un sistema che, da un lato, in rapporto ai contratti pubblici, prevede tutele avanzate rispetto a fenomeni di infiltrazione mafiosa o, comunque, di «vicinanza» del contraente privato alla criminalità comune ed organizzata; e, dall’altro, consente invece l’inserimento nel comparto della pubblica sicurezza di soggetti che le autorità preposte al settore hanno ritenuto privi delle qualità necessarie.
2.? Si è costituito il ricorrente nel giudizio a quo, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
Ad avviso della parte privata, le fattispecie poste a confronto dall’ordinanza di rimessione risulterebbero palesemente eterogenee, con conseguente inidoneità del confronto stesso a dimostrare l’illegittimità costituzionale della disciplina censurata. Mentre, infatti, le disposizioni in materia di infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici sarebbero volte ad assicurare, tramite i poteri demandati all’autorità prefettizia, una rigorosa selezione del contraente nel libero mercato, al fine di impedire che l’impresa collusa con la criminalità organizzata possa avvantaggiarsi economicamente attraverso il rapporto con la pubblica amministrazione; la disposizione oggetto dell’odierno incidente di costituzionalità attiene, invece, all’attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza ad un soggetto già stabilmente inserito nell’organico della pubblica amministrazione, a seguito dell’espletamento di un concorso pubblico.
Al di là di ciò, i motivi sui quali si basa il giudizio negativo formulato, nel caso di specie, dall’autorità prefettizia risulterebbero inidonei a supportare tanto il provvedimento di diniego impugnato che le censure di legittimità costituzionale del Tribunale rimettente.
Quanto, infatti, alla valutazione negativa inerente al «contesto parentale» del ricorrente, si dovrebbe senz’altro escludere che, alla luce dei principi costituzionali, il conferimento di una particolare qualifica nell’ambito del pubblico impiego – e, in specie, quella di agente di pubblica sicurezza – possa rimanere inibita in ragione del mero rapporto di parentela dell’interessato con soggetti condannati per determinati delitti o sospettati di averli commessi, ovvero in qualche modo legati alla criminalità comune od organizzata (o sospettati di esserlo).
Con la sentenza n. 391 del 2000, la Corte costituzionale ha dichiarato, infatti, costituzionalmente illegittime, per contrasto con gli artt. 3 e 51 Cost., le disposizioni che escludevano dai concorsi per l’accesso alla magistratura ordinaria e ai ruoli del personale del Corpo della polizia penitenziaria coloro i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, avessero riportato condanna per determinati delitti non colposi. Nell’occasione, la Corte ha rilevato come sia arbitrario prendere in considerazione condotte criminose di soggetti diversi dal candidato per desumerne incontestabilmente l’inidoneità del medesimo a ricoprire l’ufficio pubblico cui aspira: venendosi, in tal modo, a perpetuare quella presunzione legislativa connessa al requisito dell’«appartenenza a famiglia di estimazione morale indiscussa», già in precedenza previsto ai fini dell’ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria, la cui palese arbitrarietà aveva indotto la Corte stessa a ravvisarvi – con la sentenza n. 108 del 1994 – una irragionevole limitazione all’accesso ai pubblici uffici.
Se tali considerazioni valgono per l’accesso nei ruoli della magistratura o nelle Forze di polizia – alle quali ultime è automaticamente connessa l’attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza – a maggior ragione esse dovrebbero valere per i dipendenti degli Enti locali che, dopo aver regolarmente superato un concorso pubblico, aspirino ad espletare in modo compiuto le funzioni per le quali sono stati selezionati, anche attraverso il conferimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Quanto, poi, all’asserita necessità della valutazione, da parte del prefetto, del comportamento tenuto dallo stesso aspirante, detta valutazione, da un lato, si risolverebbe in una inutile duplicazione del controllo già effettuato in sede di accesso all’impiego pubblico; dall’altro, comporterebbe l’assoggettamento del personale che svolge il servizio di polizia municipale ad una verifica più rigorosa rispetto a quella prevista per gli appartenenti alle Forze di polizia: assetto, questo, del tutto irrazionale, specie ove si consideri che, ai sensi della stessa legge n. 65 del 1986, i vigili urbani che abbiano acquisito la qualifica di agente di pubblica sicurezza sono chiamati a svolgere funzioni di pubblica sicurezza meramente ausiliarie.
3. È intervenuto, altresì, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile, in quanto sollevata, non per dirimere un effettivo dubbio di legittimità costituzionale, ma per conseguire un improprio avallo interpretativo. In base ad un indirizzo, seppure minoritario, della giurisprudenza amministrativa, la sospensione e la revoca della qualità di agente di pubblica sicurezza potrebbero essere, infatti, disposte dal prefetto, non solo nelle ipotesi in cui venga meno uno dei requisiti previsti dalla norma censurata, ma anche nell’esercizio degli ordinari poteri a lui spettanti in materia di provvedimenti autorizzativi ed abilitativi in base al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. In questa prospettiva, il provvedimento impugnato sarebbe legittimo, perché fondato su fatti rilevanti ai fini del requisito di affidabilità soggettiva, desumibile analogicamente dagli artt. 10 e 11 del r.d. n. 773 del 1931.
Il giudice a quo non avrebbe tenuto conto, in ogni caso, del fatto che la qualità di agente di pubblica sicurezza, eventualmente conferita al personale della polizia municipale, è limitata all’esercizio di funzioni ausiliarie (art. 5 della legge n. 65 del 1986) e specificamente di collaborazione con le Forze di polizia dello Stato, «previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità» (art. 3 della medesima legge).
La tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza resterebbe, dunque, riservata allo Stato, dal momento che, nell’esercizio delle funzioni in questione, il personale di polizia municipale dipenderebbe operativamente dalla competente autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza, nel rispetto di eventuali intese con il sindaco.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 2, della legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale).
La disposizione censurata prevede che il prefetto conferisca al personale che svolge il servizio di polizia municipale, previa comunicazione del sindaco, la qualità di agente di pubblica sicurezza, dopo aver accertato che l’interessato goda dei diritti civili e politici, che non abbia subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o che non sia stato sottoposto a misura di prevenzione e, infine, che non sia stato espulso dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici.
Il giudice a quo muove dalla premessa che, alla luce di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualificabile come «diritto vivente», il conferimento della qualità di agente di pubblica sicurezza al personale in questione costituisce atto vincolato, rimanendo subordinato alla sola verifica dei requisiti tassativamente indicati dalla norma, senza, dunque, che il sindacato del prefetto possa estendersi – in una prospettiva di prevenzione di «infiltrazioni mafiose» o di soggetti comunque «vicini» alla criminalità organizzata o comune – anche alla «posizione familiare» e alla più generale condotta dell’interessato. Regime, questo, che – secondo il rimettente – sarebbe stato giustificato dalle pronunce giurisprudenziali espressive del «diritto vivente» con la considerazione che, nell’ipotesi in questione, la «buona condotta» dell’aspirante sarebbe già stata vagliata dall’amministrazione municipale di appartenenza, in occasione della sua assunzione.
Ciò posto, il rimettente ritiene che la norma denunciata si ponga in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), sotto un duplice profilo. In primo luogo, perché attribuirebbe al giudizio dell’ente locale, privo delle necessarie competenze e informazioni, una illogica prevalenza rispetto alle valutazioni degli organi governativi specificamente deputati alla tutela della pubblica sicurezza. In secondo luogo, per l’incongruenza complessiva del sistema, che, da un lato, in materia di contratti pubblici, prevede forme avanzate di tutela rispetto al pericolo di infiltrazioni mafiose o, comunque, di soggetti «vicini» alla criminalità comune od organizzata, e, dall’altro, consente l’ingresso nel comparto della pubblica sicurezza di soggetti che le autorità preposte al settore ritengono privi delle necessarie qualità.
Sarebbe violato, inoltre, l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., giacché la riserva allo Stato della potestà legislativa in materia di ordine pubblico e sicurezza implicherebbe che, a livello amministrativo, la valutazione circa l’idoneità all’espletamento delle funzioni di agente di pubblica sicurezza debba rimanere riservata alle autorità governative, senza poter essere demandata alle autonomie locali.
La norma censurata violerebbe, da ultimo, il principio di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), rendendo possibile l’inserimento tra gli agenti di pubblica sicurezza di soggetti da ritenere inidonei.
2.– La questione è inammissibile.
Benché il dispositivo dell’ordinanza di rimessione risulti apparentemente formulato in termini di richiesta di ablazione “secca” della norma denunciata, dal tenore complessivo della motivazione risulta evidente come il Tribunale rimettente miri, in realtà, a conseguire una pronuncia manipolativa che ampli l’ambito del sindacato rimesso al prefetto in sede di attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza al personale che svolge il servizio di polizia municipale, in una prospettiva di contrasto dei pericoli di infiltrazione della «criminalità comune ed organizzata».
Il giudice a quo omette, tuttavia, di individuare in modo puntuale ed univoco quale tipo di intervento dovrebbe essere, in concreto, operato da questa Corte, ai fini del conseguimento dell’indicato obiettivo.
Non è chiaro, in particolare, se il rimettente chieda di estendere alla fattispecie considerata la disciplina intesa a prevenire infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici, alla quale viene fatto preliminare riferimento al fine di dimostrare l’asserita irrazionalità della norma censurata: disciplina che risulta, peraltro, evocata in modo del tutto generico, tramite il richiamo ad interi corpi normativi e senza una specifica indicazione delle disposizioni che dovrebbero formare oggetto dell’ipotetico intervento estensivo. Ciò, a prescindere dall’inidoneità di tale disciplina a fungere da tertium comparationis, per la palese eterogeneità della situazione da essa regolata (attinente alla posizione di imprese operanti nel mercato che intendono intrattenere rapporti economici con le pubbliche amministrazioni) rispetto a quella che qui viene in rilievo (riguardante l’acquisizione della qualifica di agente di pubblica sicurezza da parte di persone fisiche già alle dipendenze di un’amministrazione municipale, in veste di vigili urbani).
Il tenore complessivo delle doglianze non consente, in ogni caso, di comprendere se il giudice a quo abbia avuto di mira altre alternative, in luogo di quella dianzi ipotizzata, quale il riconoscimento al prefetto di un generico potere discrezionale, ovvero di una autonoma potestà di diniego della qualifica, basata – come in fatto è avvenuto nel caso oggetto del giudizio principale – sulla valutazione della condotta dell’interessato e dei suoi rapporti di parentela con soggetti appartenenti o «vicini» alla criminalità organizzata e comune: intervento che, peraltro – per la pluralità delle soluzioni astrattamente praticabili – implicherebbe scelte discrezionali, chiaramente eccedenti i poteri di questa Corte. Tutto ciò, a prescindere dalla considerazione che l’intervento considerato si porrebbe in controtendenza rispetto all’evoluzione normativa, nella parte in cui condizionasse il provvedimento positivo ad un generico apprezzamento della «buona condotta» dell’interessato (legge 29 ottobre 1984, n. 732, recante «Eliminazione del requisito della buona condotta ai fini dell’accesso agli impieghi pubblici»), e colliderebbe con i principi affermati da questa Corte, nella parte in cui facesse derivare l’inidoneità dell’aspirante da condotte ascrivibili a soggetti diversi, ancorché a lui legati da vincoli di parentela (sentenze n. 319 del 2000 e n. 108 del 1994).
3.– Alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, l’indeterminatezza ed ambiguità del petitum comportano l’inammissibilità della questione (ex plurimis, sentenze n. 186 e n. 117 del 2011; ordinanze n. 335 e n. 260 del 2011).
L’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri resta assorbita.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 2, della legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 settembre 2012.