ORDINANZA N. 263
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di M. C. con ordinanza del 30 settembre 2009, iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che, con ordinanza del 30 settembre 2009, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza al fine di utilizzare le intercettazioni «occasionali» di conversazioni o comunicazioni di un membro del Parlamento, anche quando si tratti di utilizzazione nei confronti dello stesso parlamentare interessato;
che il giudice a quo premette che il pubblico ministero, esercitata l’azione penale nei confronti di numerosi imputati, tra i quali M. C., membro, all’epoca dei fatti, del Senato della Repubblica, cui erano contestati alcuni reati contro la pubblica amministrazione (artt. 317, 323 e 326 del codice penale), aveva depositato la documentazione relativa a intercettazioni telefoniche concernenti il citato M. C., chiedendo che fosse inoltrata al Senato l’istanza di autorizzazione alla loro utilizzazione prevista dall’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003;
che, in conformità a tale disposizione, era stata fissata udienza camerale, nel corso della quale era stata sollevata la questione di costituzionalità;
che, in punto di rilevanza, il rimettente evidenzia come ricorrano, nella specie, i presupposti d’insorgenza dell’obbligo di richiedere l’autorizzazione prescritta dal citato art. 6, comma 2: le intercettazioni in discussione non costituirebbero, difatti, il frutto di captazioni «dirette» delle comunicazioni del parlamentare, ma dell’occasionale interlocuzione del medesimo con altri imputati, le cui utenze erano state sottoposte legittimamente a controllo, ai sensi degli artt. 266 e seguenti del codice di procedura penale;
che la richiesta del pubblico ministero, d’altro canto, non riguarda la posizione degli imputati non parlamentari – rispetto ai quali, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 390 del 2007, non è più necessaria alcuna autorizzazione della Camera di appartenenza – ma unicamente quella del membro del Parlamento coinvolto;
che l’utilizzazione, nel processo in corso, delle conversazioni intercettate sarebbe, inoltre, «assolutamente “necessaria” (rectius: rilevante)»: i colloqui intercettati, infatti, non solo sarebbero attinenti ai fatti contestati, ma soprattutto rappresenterebbero «un fondamentale strumento per svelare il legame che intercorre tra le condotte attribuite al parlamentare e quelle contestate agli altri imputati», risultando così influenti sui provvedimenti adottandi a conclusione dell’udienza preliminare o del rito alternativo, eventualmente richiesto dall’imputato;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che l’autorizzazione della Camera di appartenenza per l’utilizzazione delle comunicazioni del parlamentare occasionalmente intercettate non è prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., che contempla esclusivamente un’autorizzazione «preventiva» «per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni»;
che il meccanismo di controllo previsto dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 si porrebbe, pertanto, in contrasto con l’art. 3 Cost., non potendosi ritenere che il diritto alla riservatezza del parlamentare, tutelato dalla norma censurata, assuma, nella gerarchia dei valori costituzionalmente protetti, un peso maggiore rispetto al principio d’eguaglianza dei cittadini davanti alla giurisdizione;
che il contrasto con l’art. 3 Cost. emergerebbe anche sotto altro profilo, atteso che la norma impugnata, a seguito della citata sentenza n. 390 del 2007, consente di utilizzare le intercettazioni di cui si discute nei confronti dei terzi, indipendentemente da ogni autorizzazione, determinando, con ciò, un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’utilizzazione nei confronti del parlamentare coinvolto, subordinata, viceversa, all’autorizzazione;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza o, comunque, manifestamente infondata nel merito.
Considerato che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli dubita, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte residuata alla declaratoria di incostituzionalità recata dalla sentenza n. 390 del 2007: chiedendo, in particolare, che sia rimosso l’obbligo di chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza al fine di utilizzare le intercettazioni «occasionali» di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento, anche quando si discuta dell’utilizzazione nei confronti dello stesso parlamentare interessato;
che, conformemente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, l’ordinanza di rimessione presenta carenze in punto di descrizione della fattispecie concreta e di motivazione sulla rilevanza – con particolare riguardo alla natura «casuale» e non «indiretta» delle intercettazioni di cui si discute nel giudizio a quo – tali da precludere lo scrutinio nel merito della questione;
che questa Corte – puntualizzando la distinzione tra le ipotesi considerate dagli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003 – ha rilevato, infatti, che la disciplina dell’autorizzazione preventiva, delineata dal primo dei citati articoli in attuazione dell’art. 68, terzo comma, Cost. – il quale «vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni» – deve trovare applicazione «tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione»: dunque, non soltanto quando siano sottoposti a intercettazione utenze o luoghi appartenenti al soggetto politico o nella sua disponibilità (intercettazioni «dirette»), ma anche quando siano monitorati utenze o luoghi di soggetti diversi, che possono tuttavia «presumersi frequentati dal parlamentare» (intercettazioni «indirette»: sentenza n. 390 del 2007);
che, viceversa, la disciplina dell’autorizzazione successiva, prevista dall’impugnato art. 6, si riferisce unicamente alle intercettazioni «casuali» (o «fortuite»): rispetto alle quali, cioè – «proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare» – «l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza» (sentenza n. 390 del 2007);
che, nella specie, il giudice a quo assume che le intercettazioni di cui si discute nel giudizio principale avrebbero natura «occasionale», con conseguente sussistenza del presupposto di applicabilità della norma censurata, ma lo fa in termini sostanzialmente apodittici, ricollegando detta natura, in pratica, alla sola circostanza che l’attività di captazione è stata disposta su utenze in uso ad altri imputati;
che, come già chiarito da questa Corte, pronunciando su questioni di legittimità costituzionale analoghe a quella odierna, siffatta indicazione non può ritenersi sufficiente;
che, in sede di motivazione sulla rilevanza, è, infatti, necessario che «il giudice mostri di aver tenuto effettivamente conto del complesso di elementi significativi al fine di affermare o escludere la “casualità” dell’intercettazione», alla stregua della distinzione dianzi tracciata: «e così, ad esempio, dei rapporti intercorrenti tra parlamentare e terzo sottoposto a intercettazione, avuto riguardo al tipo di attività criminosa oggetto di indagine; del numero di conversazioni intercorse tra il terzo e il parlamentare; dell’arco di tempo durante il quale tale attività di captazione è avvenuta, anche rispetto a eventuali proroghe delle autorizzazioni e al momento in cui sono sorti indizi a carico del parlamentare» (sentenza n. 114 del 2010);
che l’odierno rimettente – il quale non specifica, tra l’altro, i fatti per cui si procede, limitandosi a un mero riferimento numerico agli articoli di legge che prevedono le astratte ipotesi di reato cui tali fatti dovrebbero corrispondere – non precisa neppure se, nel momento in cui le intercettazioni ebbero luogo, il parlamentare figurasse già nel novero delle persone sottoposte a indagini: ipotesi nella quale «la qualificazione dell’intercettazione come “casuale”» richiederebbe «una verifica particolarmente attenta»;
che in tale eventualità, difatti, pur non potendo ipotizzarsi una presunzione assoluta del carattere «indiretto» dell’intercettazione, tale da fare sorgere sempre l’esigenza dell’autorizzazione preventiva (sentenza n. 390 del 2007), il sospetto dell’elusione della garanzia è comunque più forte (sentenza n. 114 del 2010);
che anche in caso contrario, tuttavia – ove, cioè, gli indizi di reità nei confronti del membro del Parlamento fossero emersi solo nel corso dell’attività di intercettazione – occorrerebbe pur sempre verificare se non sia intervenuto, nell’autorità giudiziaria, «un mutamento di obbiettivi: nel senso che – in ragione anche dell’obbligo di perseguire gli autori del reato – le ulteriori intercettazioni potrebbero risultare finalizzate, nelle strategie investigative dell’organo inquirente, a captare non più (soltanto) le comunicazioni del terzo titolare dell’utenza, ma (anche) quelle del suo interlocutore parlamentare» (sentenza n. 113 del 2010, concernente anch’essa una questione di costituzionalità analoga all’attuale);
che nell’ipotesi ora indicata – tanto più verosimile qualora si fosse di fronte a operazioni protratte nel tempo e il terzo sottoposto a controllo risultasse essere un interlocutore abituale del parlamentare (circostanze esse pure non specificate dal rimettente) – «ogni “casualità” verrebbe evidentemente meno: le successive captazioni delle comunicazioni del membro del Parlamento, lungi dal restare fortuite, diverrebbero “mirate” (e, con ciò, “indirette”), esigendo quindi l’autorizzazione preventiva della Camera, ai sensi dell’art. 4» (sentenza n. 113 del 2010);
che a ciò conseguirebbe un più o meno energico restringimento delle intercettazioni assoggettabili al regime di cui all’art. 6, che imporrebbe – quantomeno – di rivedere la valutazione sulla necessità della loro utilizzazione, presupposta dalla norma impugnata (sentenza n. 113 del 2010): valutazione che – come ad altro fine rimarcato da questa Corte – spetta indubbiamente all’autorità giudiziaria, «la quale peraltro deve, essa per prima, commisurare le proprie scelte anche all’esigenza del sacrificio minimo indispensabile dei valori di libertà e indipendenza della funzione parlamentare» (sentenza n. 188 del 2010);
che, nell’assenza delle verifiche dianzi indicate e di adeguata corrispondente motivazione sul punto, la questione va dichiarata, dunque, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.