Sentenza n. 114 del 2010

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SENTENZA N. 114

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-        Francesco               AMIRANTE                           Presidente

-        Ugo                       DE SIERVO                           Giudice

-        Paolo                     MADDALENA                                  ”

-        Alfio                     FINOCCHIARO                                ”

-        Franco                   GALLO                                            ”

-        Luigi                     MAZZELLA                                     ”

-        Gaetano                 SILVESTRI                                      ”

-        Sabino                   CASSESE                                         ”

-        Maria Rita              SAULLE                                           ”

-        Giuseppe                TESAURO                                        ”

-        Paolo Maria           NAPOLITANO                                 ”

-        Giuseppe                FRIGO                                              ”

-        Alessandro            CRISCUOLO                                    ”

-        Paolo                     GROSSI                                            ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promossi dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli con ordinanza del 19 novembre 2008 e dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli con ordinanza del 26 gennaio 2009, iscritte ai nn. 108 e 215 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 16 e 35, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 19 novembre 2008 (r.o. n. 108 del 2009), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli ha sollevato:

         a) in via principale, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 68, terzo comma, 102 e 104, primo comma, della Costituzione, dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato);

         b) in via subordinata, questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 24, secondo comma, Cost., dell’art. 6, comma 2, della citata legge n. 140 del 2003, nella parte in cui non subordina «l’attivazione della procedura ivi prevista […] al previo consenso/nulla osta del Parlamentare interessato».

         Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di numerosi imputati, tra i quali un membro della Camera dei deputati, al quale erano stati contestati, in particolare, i reati previsti dagli artt. 110, 319, 321, 640, secondo comma, 378 del codice penale e 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203.

         Nel corso dell’udienza preliminare, il pubblico ministero aveva depositato i supporti di conversazioni telefoniche intercettate concernenti il citato parlamentare, chiedendo che, previa trascrizione, fosse inoltrata alla Camera dei deputati istanza di autorizzazione alla loro utilizzazione, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003. Eseguita la trascrizione, era stata quindi fissata udienza camerale in conformità a quanto previsto da tale disposizione, all’esito della quale il giudice a quo ha sollevato la questione.

         In punto di rilevanza, il rimettente osserva come ricorrano, nella specie, i presupposti di insorgenza dell’obbligo di richiedere l’autorizzazione prevista dal citato art. 6, comma 2. Le intercettazioni in discussione non costituirebbero, difatti, il frutto di captazioni «dirette» delle comunicazioni del parlamentare – ipotesi nella quale sarebbero state soggette ad autorizzazione preventiva, ai sensi dell’art. 4 della stessa legge n. 140 del 2003 (nel caso in esame non richiesta) – ma dell’occasionale interlocuzione del parlamentare medesimo con altri imputati, le cui utenze erano state sottoposte legittimamente a controllo. Il pubblico ministero aveva chiesto, d’altro canto, di utilizzare dette intercettazioni non nei confronti di terzi – evenienza nella quale, a seguito della declaratoria di incostituzionalità recata dalla sentenza n. 390 del 2007, non è più necessaria alcuna autorizzazione – ma proprio nei confronti dei membri del Parlamento. Sussisterebbe effettivamente, infine, la necessità di utilizzare le intercettazioni ai fini dell’adozione dei provvedimenti conclusivi dell’udienza preliminare, per la loro pertinenza alle imputazioni formulate nei confronti del parlamentare.

Sotto diverso profilo, il rimettente rileva come la propria legittimazione a sollevare la questione non possa essere contestata per il solo fatto che la norma censurata individua nel giudice per le indagini preliminari il soggetto tenuto a formulare la richiesta di autorizzazione. In una lettura sistematica, tale riferimento dovrebbe essere difatti inteso come relativo al «giudice che procede» e, dunque, ove il procedimento si trovi nella fase dell’udienza preliminare, al giudice della stessa: non essendo ipotizzabile che, in questo caso, la valutazione sulla necessità di utilizzare un mezzo di prova sia rimessa ad un organo che ha già esaurito la propria competenza.

Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che il sindacato parlamentare previsto dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 non incide sull’esecuzione delle intercettazioni, ma sull’utilizzabilità di intercettazioni già legittimamente eseguite, proprio perché «occasionali» e quindi non bisognevoli dell’autorizzazione preventiva di cui all’art. 68, terzo comma, Cost. Escluso, con ciò, che la disciplina censurata sia «costituzionalmente imposta», il problema nodale – come rilevato dalla citata sentenza n. 390 del 2007 – consisterebbe nello stabilire se essa possa ritenersi almeno «costituzionalmente consentita»: interrogativo rimasto «impregiudicato» a seguito di detta sentenza, quanto al profilo relativo all’utilizzabilità delle intercettazioni casuali nei confronti dello stesso parlamentare intercettato.

Ad avviso del rimettente, peraltro, dalla pronuncia della Corte emergerebbe chiaramente l’esigenza di estendere la declaratoria di incostituzionalità anche al caso considerato: ricavandosi, da essa, come in rapporto al principio di eguaglianza, nel suo aspetto di «parità di trattamento davanti alla giurisdizione», le immunità dei membri del Parlamento possano valere solo come eccezione ed unicamente nei casi espressamente previsti dalla Costituzione o, quantomeno, forniti di «copertura costituzionale». Anche a non voler ritenere, cioè, che le deroghe al predetto principio possano essere stabilite solo da fonti di rango costituzionale, esse dovrebbero risultare comunque riconducibili «allo spirito e alla ratio» di norme costituzionali, ovvero volte a tutelare un valore sovraordinato, o almeno equiordinato, rispetto a quello sancito dall’art. 3, primo comma, Cost.

Per contro, l’autorizzazione ad utilizzare le intercettazioni «occasionali» di comunicazioni del parlamentare, oltre a non essere espressamente prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., non sarebbe neppure riconducibile alla sua ratio, connessa al «fumus persecutionis»; né, d’altra parte, il valore tutelato – ossia la riservatezza del parlamentare – potrebbe ritenersi sovraordinato, o almeno equiordinato, rispetto al principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione, posto che il pericolo di una indebita diffusione delle comunicazioni intercettate da parte dei mass media rappresenterebbe «il portato di un fenomeno patologico» che interessa la generalità dei cittadini.

Di conseguenza, la previsione di un trattamento differenziato dei membri del Parlamento si risolverebbe in un «“privilegio” irrazionale», nonché nell’implicita abdicazione, da parte dello Stato, «al dovere di garantire il rispetto delle leggi già vigenti, poste a tutela della riservatezza di tutte le persone coinvolte in procedimenti penali», con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.

La disciplina censurata lederebbe, inoltre, gli artt. 102 e 104, primo comma, Cost., giacché, in contrasto con il principio di separazione dei poteri, attribuirebbe alle Camere un potere di sindacato sulla gestione processuale di una prova già legittimamente formata.

Sulla base delle esposte considerazioni, il rimettente chiede quindi, in via principale, che la Corte dichiari l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge n. 140 del 2003.

In via subordinata, il giudice a quo insta affinché venga dichiarata l’illegittimità costituzionale del solo comma 2 dell’art. 6, nella parte in cui non subordina «l’attivazione della procedura ivi prevista […] al previo consenso/nulla osta del Parlamentare interessato».

La norma impugnata inciderebbe, infatti, anche sul diritto di difesa del parlamentare, il quale – nel caso in cui le intercettazioni «occasionali» risultassero utili, o addirittura decisive, per la propria difesa – vedrebbe condizionata la possibilità di utilizzarle da una decisione della Camera di appartenenza: decisione che potrebbe essere strumentalizzata per fini di ritorsione politica.

2. – Analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge n. 140 del 2003, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 68, terzo comma, 102 e 104, primo comma, Cost., è sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli con ordinanza del 26 gennaio 2009 (r.o. n. 215 del 2009).

Il giudice a quo premette di doversi pronunciare sull’istanza del pubblico ministero di inoltro della richiesta di autorizzazione ad utilizzare le conversazioni telefoniche intercettate nei confronti di due membri della Camera dei deputati, sottoposti ad indagini, il primo, per i reati previsti dagli artt. 416, 353 e 326 cod. pen., e, il secondo, per il reato previsto dall’art. 416 cod. pen.: istanza formulata dalla pubblica accusa contestualmente a quella di adozione di misure coercitive tanto nei confronti dei due parlamentari che di altri diciotto indagati.

A parere del rimettente, la questione sarebbe rilevante, sussistendo la necessità di utilizzare le intercettazioni di cui si discute, in quanto pertinenti ai fatti contestati.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, si sarebbe altresì di fronte ad intercettazioni «casuali», e non già ad intercettazioni «dirette», soggette al regime di autorizzazione preventiva previsto dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003. Le conversazioni dei parlamentari sarebbero state, infatti, captate occasionalmente sulle utenze – legittimamente sottoposte a controllo – del principale indagato nel procedimento a quo, e non su utenze in uso al parlamentare o a suoi interlocutori abituali, onde non potrebbe ritenersi che le operazioni fossero direttamente finalizzate ad invadere la sfera di riservatezza del membro del Parlamento: circostanza confermata anche dall’esiguo numero delle conversazioni che vedono come interlocutori i parlamentari, rispetto alla mole complessiva di quelle intercettate.

Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente svolge argomenti analoghi, in parte qua, a quelli dell’ordinanza di rimessione r.o. n. 108 del 2009.

3. – In entrambi i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.

Secondo la difesa erariale, le questioni sarebbero inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza, avendo i rimettenti omesso qualsiasi ricostruzione dei fatti di causa. In particolare, essi non avrebbero specificato quali imputazioni siano state formulate nei confronti dei parlamentari, quali soggetti siano stati intercettati, quali rapporti essi avessero con i parlamentari e in quali occasioni le intercettazioni siano avvenute: circostanze, queste, fondamentali ai fini di stabilire se si tratti di intercettazioni «indirette» o meramente «occasionali».

Le censure relative agli artt. 24, secondo comma, 102 e 104, primo comma, Cost. risulterebbero, altresì, inammissibili in quanto prospettate in forma ipotetica, non essendo intervenuta alcuna valutazione della Camera di appartenenza in ordine all’autorizzazione, non ancora richiesta.

Nel merito, in ogni caso, la sentenza n. 390 del 2007 non avrebbe affatto indirizzato la risoluzione del dubbio di costituzionalità nella direzione indicata dai rimettenti. Con essa, infatti, la Corte costituzionale ha evidenziato che solo «di regola» l’intercettazione fortuita non incide sul bene tutelato dall’art. 68, terzo comma, Cost.  (l’indipendenza del potere legislativo da quello giudiziario), lasciando così intendere che detta incidenza non può essere esclusa in assoluto. Né, d’altra parte, potrebbe trascurarsi la circostanza che la distinzione – pure teoricamente chiarissima – tra intercettazioni «indirette» e «fortuite», tracciata dalla citata pronuncia, abbia, in concreto, confini estremamente labili.

In tale prospettiva, anche a ritenere che il vaglio successivo delle Camere sulle intercettazioni «occasionali» non sia costituzionalmente imposto, esso sarebbe comunque costituzionalmente consentito, ed anzi perfettamente coerente con il dettato ed i fini della norma costituzionale. Nessuna lesione risulterebbe pertanto ravvisabile, non soltanto in rapporto all’art. 68, terzo comma, Cost., ma neppure in relazione all’art. 3 Cost. – essendo la diversità di regime rispetto al comune cittadino giustificata dalle particolari esigenze di tutela, non tanto del parlamentare, quanto del potere legislativo – e agli altri parametri costituzionali evocati.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli e il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte residuata rispetto alla declaratoria di incostituzionalità recata dalla sentenza n. 390 del 2007: chiedendo, in specie, che sia rimosso l’obbligo di chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza al fine di utilizzare le intercettazioni «casuali» di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento, anche quando si tratti di utilizzazione nei confronti dello stesso parlamentare interessato.

Ad avviso dei rimettenti, la norma impugnata violerebbe gli artt. 3, primo comma, e 68, terzo comma, della Costituzione, introducendo una deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione non espressamente prevista dal citato art. 68, terzo comma, Cost., né riconducibile alla sua ratio (il «periculum persecutionis»), e finalizzata, altresì, alla tutela di un valore – la riservatezza del parlamentare – non sovraordinato o equiordinato rispetto al principio derogato.

La disciplina censurata lederebbe anche gli artt. 102 e 104, primo comma, Cost., giacché, in contrasto con il principio di separazione dei poteri, attribuirebbe alle Camere un potere di sindacato sulla gestione processuale di una prova già legittimamente formata.

Il solo Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli solleva, inoltre, in via subordinata – prospettando un contrasto con l’art. 24, secondo comma, Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, nella parte in cui non stabilisce «che l’attivazione della procedura ivi prevista […] sia subordinata al previo consenso/nulla osta del Parlamentare interessato».

La norma impugnata comprometterebbe, per tale verso, il diritto di difesa del parlamentare, il quale – nel caso in cui le intercettazioni «occasionali» risultassero utili, o addirittura decisive, per la propria difesa – vedrebbe condizionata la possibilità di utilizzarle da una decisione della Camera di appartenenza: decisione che potrebbe essere strumentalizzata per fini di ritorsione politica.

2. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni parzialmente coincidenti, relative alla medesima norma, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3. – L’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato, tesa a far valere il carattere solo ipotetico delle censure relative agli artt. 24, secondo comma, 102 e 104, primo comma, Cost., non è fondata.

A differenza, infatti, che nel caso esaminato da questa Corte nella sentenza n. 390 del 2007, i rimettenti non si dolgono della disciplina degli effetti del diniego di autorizzazione, ma della stessa previsione dell’obbligo di richiederla. Di conseguenza, i giudici a quibus hanno correttamente sollevato la questione prima di proporre la richiesta di autorizzazione: iniziativa, questa, che, presupponendo l’applicazione della norma censurata, avrebbe determinato l’esaurimento del loro potere decisorio sul punto.

         4. – Fondata, per converso, è l’ulteriore eccezione della difesa erariale, di inammissibilità delle questioni per insufficiente descrizione della fattispecie concreta e difetto di motivazione sulla rilevanza, con particolare riguardo alla natura «casuale», e non «indiretta», delle intercettazioni che si intende utilizzare nei giudizi a quibus.

Rappresentando la distinzione tra le ipotesi considerate rispettivamente dall’art. 4 e dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, questa Corte ha infatti rilevato, con la sentenza n. 390 del 2007, che la disciplina dell’autorizzazione preventiva, delineata dal primo dei citati articoli in attuazione dell’art. 68, terzo comma, Cost. – il quale «vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni» – deve trovare applicazione «tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione»: dunque, non soltanto quando siano sottoposti ad intercettazione utenze o luoghi appartenenti al soggetto politico o nella sua disponibilità (intercettazioni «dirette»), ma anche quando lo siano utenze o luoghi di soggetti diversi, che possono tuttavia «presumersi frequentati dal parlamentare» (intercettazioni «indirette»). In altre parole, ciò che rileva «non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza captata, ma la direzione dell’atto di indagine»: «se quest’ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi».

Viceversa, la disciplina dell’autorizzazione successiva, prevista dall’impugnato art. 6, si riferisce unicamente alle intercettazioni «casuali» (o «fortuite»): rispetto alle quali, cioè – «proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare» – «l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza» (sentenza n. 390 del 2007).

5. – Nella specie, i giudici rimettenti – i quali non specificano, tra l’altro, i fatti per cui si procede nei giudizi a quibus, ma fanno un mero riferimento numerico agli articoli di legge che prevedono le astratte ipotesi di reato cui tali fatti dovrebbero corrispondere – affermano la natura «casuale» delle intercettazioni in termini sostanzialmente apodittici, facendola discendere, in pratica, dalla sola circostanza che l’attività di captazione è stata disposta su utenze in uso ad altri indagati.

Tale indicazione risulta insufficiente, tanto più in ragione del fatto che i giudici a quibus non deducono che, nel momento in cui l’intercettazione delle comunicazioni dei parlamentari ebbe luogo, questi ultimi non figurassero ancora nel novero degli indagati. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli afferma, anzi, il contrario, al punto che si pone espressamente – risolvendolo in senso positivo, sulla scorta delle affermazioni della sentenza n. 390 del 2007 – il problema dell’applicabilità dell’art. 6 anche nel caso di intercettazioni effettuate in procedimenti nei quali i parlamentari risultino già sottoposti alle indagini.

In siffatta evenienza, peraltro, è indubbio che la qualificazione dell’intercettazione come «casuale» richieda una verifica particolarmente attenta.

È ben vero, infatti, che – come affermato dalla stessa sentenza n. 390 del 2007 – non può giungersi ad ipotizzare addirittura una presunzione assoluta del carattere «indiretto» dell’intercettazione (tale da far sorgere sempre l’esigenza dell’autorizzazione preventiva), basata sulla «elevata probabilità che le intercettazioni, disposte in un procedimento che riguarda (anche) il parlamentare, finiscano comunque per captarne le comunicazioni, ove pure il controllo venga materialmente effettuato su altri soggetti». Ma è altrettanto vero che, nella fattispecie considerata, il sospetto dell’elusione della garanzia è più forte e che, comunque, l’ingresso del parlamentare – già preventivamente raggiunto da indizi di reità – nell’area di ascolto evoca con maggiore immediatezza, nell’autorità giudiziaria, la prospettiva che la prosecuzione dell’attività di intercettazione su utenze altrui servirà (anche) a captare comunicazioni del membro del Parlamento, suscettibili di impiego a suo carico: ipotesi nella quale la captazione successiva di tali comunicazioni perde ogni «casualità», per divenire mirata.

Da ciò deriva la necessità che, in sede di motivazione sulla rilevanza della questione di costituzionalità, il giudice mostri di aver tenuto effettivamente conto del complesso di elementi significativi al fine di affermare o escludere la «casualità» dell’intercettazione: e così, ad esempio, dei rapporti intercorrenti tra parlamentare e terzo sottoposto a intercettazione, avuto riguardo al tipo di attività criminosa oggetto di indagine; del numero delle conversazioni intercorse tra il terzo e il parlamentare; dell’arco di tempo durante il quale tale attività di captazione è avvenuta, anche rispetto ad eventuali proroghe delle autorizzazioni e al momento in cui sono sorti indizi a carico del parlamentare.

Nell’assenza di tali verifiche e di adeguata corrispondente motivazione sul punto, le questioni devono essere dunque dichiarate inammissibili.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 68, terzo comma, 102 e 104, primo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli e dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 marzo 2010.