ORDINANZA N. 258
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promossi dal Tribunale di Pordenone con ordinanze del 7 febbraio e del 16 ottobre 2008 iscritte ai nn. 308 e 309 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.
Ritenuto che il Tribunale di Pordenone in qualità di giudice d’appello, con due ordinanze di identico tenore, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace per reati puniti con pena alternativa;
che, in entrambi i casi, il rimettente premette in fatto di dover esaminare l’appello proposto dal Procuratore generale avverso sentenze di «proscioglimento per remissione tacita di querela» emesse dal Giudice di pace di Pordenone nei confronti di due imputati nei confronti dei quali si procedeva, rispettivamente, per lesioni, ingiuria e minacce (artt. 582, 594 e 612 cod. pen.) e per diffamazione e minacce (artt. 595 e 612 cod. pen.);
che, in punto di rilevanza, il giudice dell’appello precisa che, in applicazione della disposizione censurata, l’impugnazione dovrebbe essere convertita in ricorso per cassazione alla luce della regola generale di cui all’art. 568 cod. proc. pen. con conseguente trasmissione degli atti alla Corte di cassazione;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, il Tribunale di Pordenone evidenzia che l’art. 37, comma 1, della legge n. 274 del 2000, consente all’imputato di appellare le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena di specie diversa da quella pecuniaria nonché quelle che applicano la pena pecuniaria, se l’impugnazione ha ad oggetto anche la condanna al risarcimento del danno;
che, invece, la norma oggetto di censura nega radicalmente il «correlativo potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento» pronunciate dal giudice di pace;
che tale differente trattamento si porrebbe in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. che sancisce il principio di parità delle parti nel processo.
Considerato che il Tribunale di Pordenone in qualità di giudice d’appello, con due ordinanze di identico tenore, ha sollevato, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace;
che, secondo il rimettente, risulterebbe violato l’art. 111, secondo comma, Cost. sotto il profilo della lesione del principio di parità delle parti nel processo, attesa la differenza di disciplina dell’appello del pubblico ministero, rispetto agli omologhi poteri riconosciuti in capo all’imputato;
che la questione è manifestamente infondata;
che analoga questione, sollevata dalla Corte di cassazione con una precedente ordinanza, è già stata dichiarata infondata da questa Corte con la sentenza n. 298 del 2008;
che, in tale occasione, si è evidenziato come la preesistente disciplina, con specifico riguardo al regime delle impugnazioni, «vedeva l’imputato, per certi versi, sfavorito rispetto al pubblico ministero in quanto in base al previgente art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, […] la parte pubblica era abilitata ad appellare sia le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria; sia le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa. Per contro, ai sensi dell’art. 37 del medesimo decreto legislativo, l’imputato era – ed è – ammesso ad appellare le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria; nonché le sentenze di condanna a quest’ultima pena, ma solo ove venga congiuntamente impugnato il capo di condanna, anche generica, al risarcimento del danno»;
che, dunque, la scelta del legislatore di escludere la proponibilità di censure di merito, da parte del pubblico ministero, avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace non può ritenersi che ecceda i limiti di compatibilità del principio di parità delle parti, trovando «una sufficiente ratio giustificatrice sia nella ritenuta opportunità di evitare un secondo giudizio di merito, ad iniziativa della parte pubblica, nei confronti di soggetti già prosciolti per determinati reati “di fascia bassa”, all’esito di un procedimento improntato a marcata rapidità e semplificazione di forme; sia – almeno in parte – nell’ottica del riequilibrio dei poteri rispetto ad un assetto nel quale ad essere collocato in posizione di svantaggio era, sotto certi aspetti, l’imputato: ossia, proprio la parte il cui diritto d’appello ha una maggiore “forza di resistenza” rispetto a spinte di segno soppressivo»;
che, non risultando addotti profili o argomenti diversi o ulteriori rispetto a quelli già valutati nella precedente pronuncia di infondatezza, la questione, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Pordenone con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2010.