Sentenza n. 206 del 2009

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SENTENZA N. 207

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Francesco        AMIRANTE                   Presidente

- Ugo                DE SIERVO                     Giudice

- Paolo              MADDALENA                        "

- Alfio              FINOCCHIARO                      "

- Alfonso          QUARANTA                           "

- Franco            GALLO                                   "

- Luigi              MAZZELLA                            "

- Gaetano          SILVESTRI                             "

- Sabino            CASSESE                                "

- Maria Rita       SAULLE                                 "

- Giuseppe         TESAURO                               "

- Paolo Maria     NAPOLITANO                        "

- Giuseppe         FRIGO                                    "

- Alessandro      CRISCUOLO                          "

- Paolo              GROSSI                                  "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 391-bis, primo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall'art. 16 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento vertente tra Matera Alfredo ed altra e l'Immobiliare Nuvolera di Cottarelli & C. s.a.s. in liquidazione ed altri, con ordinanza del 14 agosto 2008, iscritta al n. 420 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 54, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visto l'atto di costituzione di Matera Alfredo ed altra;

    udito nell'udienza pubblica del 9 giugno 2009 il Giudice relatore Paolo Grossi;

    udito l'avvocato Michele Bonetti per Matera Alfredo ed altra.

 

Ritenuto in fatto

    1. – Con ordinanza del 7 luglio 2008, la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 391-bis del codice di procedura civile, nella parte in cui, prevedendo l'esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto ai sensi dell'art. 395, n. 4), del medesimo codice, per le sole ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione ai sensi dell'art. 375, n. 4) e n. 5), lo esclude per le ordinanze pronunciate ai sensi dell'art. 375, n. 1), cod. proc. civ.

    Premette la Corte rimettente di essere stata investita dal ricorso per revocazione proposto da Matera Alfredo e Vitale Maria Felicita in riferimento alla ordinanza pronunciata dalla stessa Corte il 29 gennaio 2007, con la quale, in esito al procedimento camerale di cui all'art. 375 cod. proc. civ., era stato dichiarato inammissibile, per inosservanza dell'ordine di integrazione del contraddittorio, il ricorso per cassazione dai medesimi proposto avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Roma il 9 gennaio 2001. Nel primo motivo del ricorso per revocazione – puntualizzano i giudici a quibus – i ricorrenti lamentano che l'ordinanza impugnata risulterebbe affetta da errore di fatto, in quanto il ricorso per cassazione sarebbe stato dichiarato inammissibile «per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del “Fall. Soro Salvatore”, soggetto del tutto estraneo al giudizio, mentre la medesima Corte aveva ordinato, all'udienza del 17.11.2005, di integrare il contraddittorio nei confronti del Fallimento Donghi Giovanni”». Nel secondo motivo, i ricorrenti deducono che l'ordinanza impugnata troverebbe causa «nell'errore di fatto compiuto dalla Corte nel momento in cui ha ordinato l'integrazione del contraddittorio nei confronti del “Fallimento Donghi Giovanni”, trattandosi questo di soggetto inesistente, atteso che come risultava dalla certificazione della Cancelleria della Sezione fallimentare del Tribunale di Monza del 5.8.1998, depositata nel corso del giudizio di appello all'udienza del 21.12.1998 e nuovamente allegata alla memoria depositata dai ricorrenti dinanzi alla Corte di cassazione, tale fallimento era stato dichiarato chiuso con decreto dell'11.11.1997, sicché, da un lato, l'ordine disposto dalla Corte non poteva essere osservato dalla parte onerata, dall'altro il contraddittorio doveva considerarsi integro, essendo stato il ricorso per cassazione notificato personalmente, a cura dei ricorrenti, a Donghi Giovanni fin dalla introduzione del giudizio di cassazione».

    La Corte rimettente ritiene di dover aderire alla relazione predisposta, a norma dell'art. 380-bis cod. proc. civ., in merito alla inammissibilità del ricorso per revocazione, considerato che l'art. 391-bis cod. proc. civ. espressamente limita la revocazione per errore di fatto alle sole ordinanze pronunciate a norma dell'art. 375, primo comma, numeri 4) e 5) cod. proc. civ. – come novellato ad opera dell'art. 16, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80) – con ciò evidentemente escludendo (avuto riguardo al carattere tassativo della elencazione) i restanti numeri dello stesso articolo, fra i quali rientra l'ordinanza di inammissibilità del ricorso principale, adottata – a norma del n. 1) del medesimo art. 375 cod. proc. civ. – in applicazione dell'art. 331, secondo comma, dello stesso codice.

    Nell'escludere la possibilità di una interpretazione adeguatrice del dettato normativo, stante la univoca scelta operata dal legislatore di limitare a quelli espressamente previsti i casi di revocazione avverso i provvedimenti della Corte di cassazione, la Corte rimettente reputa la disciplina anzidetta in contrasto con il principio di uguaglianza e del diritto di difesa. Se, infatti, lo scopo della revocazione per errore di fatto è quello di eliminare una decisione fondata su un accertamento smentito dalle risultanze di causa, appare priva di ragionevolezza la scelta del legislatore di limitare tale rimedio alle sole ordinanze che accolgono o respingono il ricorso nel merito o che lo dichiarano inammissibile per mancanza dei motivi o per difetto dei requisiti di cui all'art. 366-bis cod proc. civ. (art. 375 n. 5), escludendolo, invece, per le ordinanze che dichiarino la inammissibilità del ricorso per altre cause, posto che l'errore revocatorio può riscontrarsi anche in queste ultime ipotesi. Né, d'altra parte, può essere dirimente la circostanza che l'errore cada su una pronuncia sul processo, piuttosto che su una pronuncia di merito, posto che, proprio la inammissibilità per il difetto dei requisiti di cui all'art. 366-bis, testimonia come la disciplina della revocazione non sia fondata su quel tipo di distinzione.

    La Corte rimettente reputa la norma impugnata in contrasto anche con l'art. 77 Cost., per eccesso di delega. L'art. 1, comma 3, lettera a), in fine, della legge delega 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge, 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), aveva stabilito la direttiva, in tema di revocazione, di «Prevedere la revocazione straordinaria e l'opposizione di terzo contro le sentenze di merito della Corte di cassazione, disciplinandone la competenza»: direttiva che veniva attuata dall'art. 17 del d.lgs. n. 40 del 2006, mediante l'inserimento dell'art. 391-ter del codice di procedura civile. La legge di delegazione non prevedeva invece nulla in merito alla revocazione di pronunce della Corte che non decidessero il merito della causa; sicché la novellazione dell'art. 391-bis – operata dall'art. 16 del richiamato d.lgs. n. 40 del 2006 – risulterebbe, in parte qua, in contrasto con i limiti della delega, determinando effetti addirittura modificativi dello stesso “diritto vivente”, posto che le «Sezioni Unite, avevano affermato in più occasioni (ordinanza n. 9287 del 25 giugno 2002, cui è seguita la sentenza n. 24170 del 30 dicembre 2004) che, benché non espressamente previsto, anche le ordinanze della Corte adottate ai sensi dell'art. 375 sono assoggettabili, senza distinzioni, al rimedio della revocazione per errore di fatto».

    Nella specie, la questione sarebbe rilevante, in quanto l'errore denunciato si configura come errore di tipo meramente percettivo, stante la presenza in atti della certificazione di chiusura del fallimento nel 1998; sicché, non apparendo coinvolta alcuna attività valutativa della Corte, l'istanza di revocazione deve ritenersi sotto questo profilo ammissibile, e tale da rendere dunque pregiudiziale la soluzione del quesito di legittimità costituzionale.

    2. – Nel giudizio davanti a questa Corte si sono costituiti Matera Alfredo e Vitale Maria Felicita, depositando memoria nella quale, riproponendo nella sostanza le considerazioni già poste a fondamento della ordinanza di rimessione, hanno concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

 

Considerato in diritto

    1.– La Corte di cassazione – adìta a seguito di ricorso per revocazione proposto in relazione alla ordinanza pronunciata dalla medesima Corte ai sensi dell'art. 375 cod. proc. civ., con la quale era stato dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione – ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 391-bis del codice di procedura civile, nella parte in cui, prevedendo la possibilità di esperire il rimedio della revocazione per errore di fatto, ai sensi dell'art. 395, primo comma, numero 4), dello stesso codice, per le sole ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione ai sensi dell'art. 375, primo comma, numeri 4) e 5), cod. proc. civ., lo esclude  per le ordinanze pronunciate in camera di consiglio a norma dell'art. 375, primo comma, numero 1), del medesimo codice, con le quali venga dichiarata la inammissibilità del ricorso per cassazione.

    Al riguardo, la Corte rimettente preliminarmente sottolinea come, alla luce dell'univoco tenore testuale della disposizione colpita dal dubbio di costituzionalità, debba escludersi l'ammissibilità del rimedio in questione riguardo alle ordinanze pronunciate dalla stessa Corte di cassazione ai sensi dei primi tre numeri del medesimo art. 375. Ordinanze fra le quali rientra, appunto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso principale, nella specie adottata, in applicazione di quanto disposto dall'art. 331, secondo comma, cod. proc. civ., ai sensi dell'art. 375, primo comma, numero 1), del codice di rito.

    Alla stregua della riferita ricostruzione ermeneutica del quadro normativo coinvolto dal dubbio di legittimità costituzionale, ed avuto riguardo alla conseguente impossibilità di addivenire, a parere della Corte rimettente, ad una soluzione interpretativa in chiave adeguatrice, ne deriva, secondo il giudice a quo, la concorrente violazione tanto dell'art. 3 Cost., sul duplice versante del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, che dell'art. 24 della stessa Carta, sotto il profilo del diritto di azione in giudizio. Ad avviso della Corte rimettente, infatti, risulterebbe priva di ragionevolezza la scelta normativa di circoscrivere l'istituto della revocazione per errore di fatto alle sole ordinanze della Corte di cassazione, le quali, all'esito della procedura camerale di cui all'art. 375 cod. proc. civ., accolgono o respingono il ricorso nel merito o lo dichiarano inammissibile per mancanza dei motivi o difetto dei quesiti, precludendo, invece, la possibilità di adottare il rimedio straordinario – il cui scopo è quello di «eliminare una decisione fondata su un accertamento la cui verità è smentita e contraddetta dalle risultanze di causa» – in riferimento alle altre ordinanze che abbiano dichiarato inammissibile il ricorso per altre ragioni.

    La norma impugnata si porrebbe in contrasto, secondo il giudice  a quo, anche con l'art. 77 Cost., in quanto attuata in assenza di espressa delega legislativa. A parere della Corte rimettente, infatti, la legge delega 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in  materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), non conterrebbe alcuna specifica direttiva circa la possibilità di intervenire sulla disciplina della revocazione delle pronunce della Corte di cassazione e stabilire la «facoltà di ricorrere a tale rimedio per taluni provvedimenti ed escludendolo per altri». La violazione della legge di delega sarebbe tanto più evidente – osserva conclusivamente la Corte rimettente – in considerazione del fatto che la riforma normativa avrebbe inciso in chiave limitativa sullo stesso “diritto vivente”, posto che la giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni unite, aveva in precedenza ammesso il rimedio della revocazione per errore di fatto anche per le ordinanze della Corte di cassazione, senza distinzioni.

    2.- La questione è fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

    Questa Corte ha infatti reiteratamente avuto modo di affermare che il diritto di difesa, garantito in ogni stato e grado del procedimento dall'art. 24, secondo comma, della Carta fondamentale, risulterebbe gravemente offeso se l'errore di fatto, così come descritto dall'art. 395, primo comma, numero 4), cod. proc. civ., non fosse suscettibile di emenda per  essere stato commesso dal giudice cui spetta il potere-dovere della nomofilachia. Né, si è aggiunto, «le peculiarità del magistero della Cassazione svuotano di rilevanza il comandamento di giustizia che di per sé permea la ripetuta disposizione del codice di rito civile, perché l'indagine cognitoria cui dà luogo il n. 4 dell'art. 360 non è diversa da quella condotta da ogni e qualsiasi giudice di merito allorquando scrutina la ritualità degli atti del processo sottoposto al suo esame» (sentenza n. 17 del 1986). Da ciò l'ulteriore assunto secondo il quale i rilievi svolti «per l'errore di fatto – per l'errore cioè, meramente percettivo (svista, puro equivoco) – in cui la Corte di cassazione incorra nel controllo degli atti del processo a quo, ai fini della decisione sulla sussistenza di eventuali nullità dello stesso procedimento o della correlativa sentenza denunciate ai sensi dell'art. 395 c.p.c.», non potesse «non valere (anzi, a fortiori) per l'analogo errore in cui quella Corte incorra nella lettura degli atti interni al suo stesso giudizio» (sentenza n. 36 del 1991).

    Dai richiamati principii deriva, dunque, che l'errore “percettivo” in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal quale sia derivata, come nella specie, l'indebita declaratoria di inammissibilità del ricorso – con l'ovvia conseguenza di aver determinato l'irrevocabilità della pronuncia oggetto di impugnativa – rappresenta eventualità tutt'altro che priva di conseguenze sul piano del rispetto dei relativi principii costituzionali, nel senso che, ove a quell'errore non risulti possibile porre rimedio attraverso uno specifico istituto processuale, una siffatta lacuna normativa verrebbe a porsi «in automatico e palese contrasto non soltanto con l'art. 3, ma anche con l'art. 24 della Costituzione, per di più sotto uno specifico e significativo aspetto, quale è quello di assicurare la effettività del giudizio di cassazione» (sentenza n. 395 del 2000). Tale garanzia, infatti – ha avuto modo di sottolineare questa Corte – si qualifica ulteriormente in funzione dell'art. 111 Cost., il quale, anche dopo il profondo intervento di novellazione subito ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei princìpi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione), non a caso continua a prevedere, quale nucleo essenziale del «giusto processo regolato dalla legge», il principio secondo il quale contro tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale «è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge». Ciò sta dunque a significare – ha sottolineato, ancora, questa Corte – «non soltanto che il giudizio di cassazione è previsto come rimedio costituzionalmente imposto avverso tale tipo di pronunzie; ma, soprattutto, che il presidio costituzionale – il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l'espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) – contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione» (sentenza n. 395 del 2000).

    Le richiamate affermazioni di questa Corte, d'altra parte, non sono rimaste prive di conseguenze sul versante del “riallineamento” degli istituti processuali, giacché, mentre nel processo penale si è provveduto ad introdurre nel codice di rito, con l'art. 6, comma 5, della legge 23 marzo 2001, n. 128, l'art. 625-bis, destinato, appunto, a prevedere il ricorso straordinario per emendare «l'errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione», nel processo civile l'errore “revocatorio” in cui sia incorsa la Corte di cassazione, è stato esteso dall'art. 391-bis anche alle ordinanze pronunciate con rito camerale ai sensi dell'art. 375 dello stesso codice, ma con la limitazione che costituisce oggetto della presente questione.

     Ne deriva, dunque, che, in presenza di un errore di tipo “percettivo” che abbia determinato la declaratoria di inammissibilità del ricorso, a norma dell'art. 375, primo comma, numero 1), cod. proc. civ., all'interno dello stesso sistema di garanzie previsto dal legislatore, che ha riformato, in parte qua, il richiamato art. 391-bis del medesimo codice, non è previsto rimedio alcuno; con correlativa, evidente compromissione, tanto dell'art. 3, che dell'art. 24 della Costituzione: quest'ultimo riguardato anche, come si è detto, nella prospettiva della garanzia specifica approntata dall'art. 111, settimo comma, della medesima Carta, in tema di controllo di legalità riservato alla Corte di cassazione avverso tutte le sentenze.

    Avuto riguardo, quindi, alla non implausibile ricostruzione interpretativa del quadro normativo offerta dalla Corte rimettente, deriva che l'art. 391-bis cod. proc. civ. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede la esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto, ai sensi dell'art. 395, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., per le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione a norma dell'art. 375, primo comma, n. 1), dello stesso codice. Restano assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 391-bis, primo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall'art. 16 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui non prevede la esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto, ai sensi dell'art. 395, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., per le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione a norma dell'art. 375, primo comma, n. 1), dello stesso codice.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 9 luglio 2009.