ORDINANZA N. 203
ANNO 2009REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 37 del codice penale militare di pace, promosso dalla Corte militare d’appello di Roma nel procedimento penale militare a carico di P.A. con ordinanza del 21 luglio 2008, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 maggio 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.
Ritenuto che, con ordinanza del 21 luglio 2008, la Corte militare d’appello di Roma ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede, come reato militare, il reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323 del codice penale, qualora commesso dall’appartenente alle Forze armate con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato militare;
che, riferisce la Corte rimettente, la questione viene in rilievo in seguito all’appello proposto dal difensore contro la sentenza pronunciata, all’esito di giudizio abbreviato, dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale militare della Spezia, nei confronti di P.A., quale detto militare era stato dichiarato responsabile di quattro episodi di peculato militare (art. 215 del codice penale militare di pace) per essersi appropriato, tra il 25 maggio ed il 29 giugno 2004, delle energie lavorative di militari in servizio presso il suo reparto, utilizzandoli per effettuare taluni lavori di pulizia nell’alloggio avuto in concessione dall’amministrazione militare;
che il rimettente, condividendo la tesi dell’appellante, in adesione a un diffuso orientamento giurisprudenziale fondato sull’impossibilità di concepire, sotto il profilo civilistico, la ‘‘detenzione” della persona umana e, conseguentemente, la sottrazione delle relative ‘‘energie lavorative”, ritiene non sussumibile tale condotta nella fattispecie del peculato e ravvisa in tale condotta gli estremi del reato di abuso di ufficio;
che, pertanto, la Corte rimettente dovrebbe, coerentemente, dichiarare la propria carenza di giurisdizione ed ordinare la trasmissione degli atti al competente ufficio dell’autorità giudiziaria ordinaria, dal momento che, in forza dell’attuale formulazione dell’art. 37 del codice penale militare di pace, costituisce reato militare solo ogni violazione del codice penale militare di pace e nella parte speciale del predetto codice è previsto il reato di peculato militare, ma non quello di abuso di ufficio;
che la Corte rimettente, tuttavia, dubita, della legittimità costituzionale del citato art. 37 del codice penale militare di pace proprio nella parte in cui non qualifica come reato militare la fattispecie di abuso di ufficio previsto dall’art. 323 cod. pen., se commessa dall’appartenente alle Forze armate con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato di militare;
che, prosegue il rimettente, se da un lato è vero che, con la sentenza n. 298 del 1995, la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, primo comma, del codice penale militare di pace, rilevava che, in forza del principio di stretta legalità, «spetta al legislatore sia la creazione di nuove figure di reato, sia la sottrazione di alcune fattispecie alla disciplina comune per ricondurle in una disciplina speciale che tuteli più congruamente gli interessi coinvolti», d’altro canto, a suo giudizio, le sopravvenute modifiche al quadro legislativo ordinario e costituzionale consentirebbero oggi di dubitare della costituzionalità dell’art. 37, primo comma, del codice penale militare di pace, in relazione agli artt. 3 e 111 della Costituzione, nella parte in cui detta norma non contempla come reato militare l’abuso di ufficio previsto dall’art. 323 cod. pen.;
che, invero, riferisce il rimettente, l’art 2, lettere c) e i), del decreto-legge 1° dicembre 2001, n. 421 (Disposizioni urgenti per la partecipazione di personale militare all’operazione multinazionale denominata Enduring Freedom), convertito dalla legge 31 gennaio 2002, n. 6, ha modificato l’art. 47 del codice penale militare di guerra, integrando la rubrica con le parole «Reato militare ai fini del codice penale militare di guerra», ed ha individuato diverse categorie di reati, divisi in base al bene giuridico protetto, attribuendo ai Tribunali militari in tempo di guerra la cognizione di tali categorie di reato, nonché di «ogni altra violazione della legge penale commessa dall’appartenente alle Forze armate in luogo militare o a causa del servizio militare, in offesa del servizio militare o dell’amministrazione militare o di altro militare o di appartenente alla popolazione civile che si trova nei territori di operazioni all’estero» e di «ogni altra violazione della legge penale, prevista quale delitto in materia di controlli delle armi, munizioni ed esplosivi e di produzione, uso e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, commessa dall’appartenente alle Forze armate in luogo militare»;
che, secondo la Corte rimettente, con la modifica dell’art. 47 del codice penale militare di guerra, il legislatore avrebbe espressamente qualificato «reati militari» le violazioni della legge penale comune e di talune leggi penali speciali qualora le stesse siano, in concreto, direttamente lesive di interessi militari;
che, rispetto all’abrogato art. 264 del codice penale militare di pace, che nella sua formulazione originaria prevedeva un meccanismo di attribuzione della giurisdizione esclusivamente formale, la novella dell’art. 47 del codice penale militare di guerra, avrebbe creato «ai fini del codice penale militare di guerra» tante nuove ed autonome figure di reato militare quante sono le singole fattispecie oggetto di richiamo, tipizzandole con quegli elementi oggettivi o soggettivi che, nella valutazione del legislatore, connotano la lesività di interessi militari;
che, ai fini del codice penale militare di guerra, dunque, il reato di abuso di ufficio, contemplato dall’art. 323 c.p. è reato militare, se commesso dall’appartenente alle Forze armate con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato di militare;
che, tuttavia, secondo il rimettente, la nuova formulazione dell’art. 47 del codice penale militare di guerra non sarebbe stata introdotta per estendere la giurisdizione militare in tempo di guerra, bensì per ampliare la giurisdizione dei tribunali militari in tempo di pace nel caso di corpi di spedizione per operazioni militari all’estero;
che questi ultimi, ai sensi dell’art. 9 del codice penale militare di guerra, sarebbero soggetti alla legge penale militare di guerra «ancorché in tempo di pace», al punto che occorrerebbe un’espressa deroga normativa per escludere nei loro confronti l’applicazione del codice penale militare di guerra;
che, dunque, secondo il rimettente, i tribunali militari avrebbero, in tempo di pace, cognizione sul reato militare di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen. commesso, con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato di militare, dall’appartenente ai corpi di spedizione all’estero cui sia applicabile il codice penale militare di guerra, e ciò determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle fattispecie di abuso di ufficio realizzate, con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato di militare, da appartenenti alle Forze armate non destinati a missioni o spedizioni all’estero;
che, per contro, nella parte speciale del codice penale militare di pace sarebbero già previsti reati militari il cui fatto tipico, in quanto coinvolgente la violazione di doveri di correttezza e di imparzialità del militare avente funzioni amministrative, potrebbe anche integrare il reato di abuso di ufficio;
che, secondo il rimettente, ciò potrebbe riscontrarsi, per esempio, nel reato di abuso nel lavoro delle officine o di altri laboratori militari (art. 136 del codice penale militare di pace) oppure nell’abuso nell’imbarco di merci o passeggeri (art. 135 del codice penale militare di pace), nella minaccia a un inferiore per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri (art. 146 del codice penale militare di pace) e finanche nella stessa violata consegna aggravata (art. 120, comma secondo, del codice penale militare di pace);
che, a parere del rimettente, ciò determinerebbe una totale irragionevolezza della ripartizione di giurisdizione in esame, ma anche la violazione dell’art. 111, secondo comma, della Costituzione, laddove detta norma costituzionale, in evidente collegamento con il principio stabilito dall’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, stabilisce che la legge «assicura» la ragionevole durata del processo;
che, invero, la lamentata mancanza comporterebbe che il giudice militare, competente, in tempo di pace, a giudicare del fatto «abusivo» che abbia caratteristiche aggiuntive e specializzanti rispetto a quello tipizzato dall’art. 323 c.p. (nel caso in esame, per esempio, il fatto è contestato all’imputato a titolo di peculato militare), non possa procedere, ai sensi dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., alla diversa definizione giuridica del fatto nell’ambito della residuale norma incriminatrice di abuso di ufficio qualora, come nella fattispecie, si ritenga che difettino gli elementi specializzanti ipotizzati dall’accusa;
che l’irragionevolezza appare al rimettente accentuata dalla circostanza che, per quanto detto in precedenza, in virtù dell’art. 47 del codice penale militare di guerra il giudice militare potrebbe effettuare la diversa qualificazione, quand’anche in tempo di pace, se il fatto abusivo da derubricare fosse contestato ad un militare appartenente ad un corpo di spedizione all’estero cui fosse applicabile il codice penale militare di guerra;
che, in data 11 febbraio 2009, è intervenuto nell’incidente di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, con il ministero dell’Avvocatura generale dello Stato, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile, perché attinente a una materia rientrante nella discrezionalità del legislatore;
che, nel merito, secondo il Presidente del Consiglio, sarebbe insussistente la pretesa omogeneità delle situazioni, dato che la presenza di militari in missioni di pace all’estero sarebbe circostanza assolutamente eccezionale e di durata limitata nel tempo, tale quindi da giustificare un regime, per l’appunto, che faccia “eccezione” alla regola insita nel codice militare di pace, che esclude la natura militare del reato in esame;
che la portata eccezionale della norma si giustificherebbe proprio in ragione del suo campo di applicazione: il reato commesso da militare all’estero in situazioni assimilabili al “tempo di guerra”, ciò che renderebbe più utile (e semplice) consegnare ad una sola giurisdizione, quella militare, l’accertamento dei reati in tale situazione commessi;
che, quanto alla supposta violazione dell’articolo 111 Cost., l’attribuzione della giurisdizione al tribunale militare non garantirebbe con sicurezza la contrazione dei tempi del processo e comunque varrebbe solo in caso di reato monosoggettivo o commesso in concorso esclusivamente da militari, laddove invece, in caso di concorso di militari e civili nel reato di abuso d’ufficio, prevarrebbe (art. 264 del codice penale militare di pace) la competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria.
Considerato che la Corte militare d’appello di Roma dubita, in relazione agli articoli 3 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 37 del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede, come reato militare, il reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323 del codice penale, qualora commesso dall’appartenente alle Forze armate con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato militare;
che il rimettente reputa irragionevole il criterio di riparto della giurisdizione previsto dall’art. 37 del codice penale militare di pace, in base al quale, per i fatti commessi in tempo di pace, sono devolute alla giurisdizione dei tribunali militari le sole fattispecie incriminatrici autonomamente disciplinate nel codice penale militare di pace e – diversamente da quanto disposto dall’art. 47 del codice penale militare di guerra per i reati commessi in tempo di guerra e per i reati commessi nel corso delle spedizioni militari all’estero – non anche tutti i reati comunque lesivi di interessi militari, ancorché non contemplati nel predetto codice; e reputa, in particolare, irragionevole che l’abuso di ufficio sia devoluto, per effetto del descritto criterio di riparto, alla giurisdizione comune, ancorché il legislatore, per fattispecie incriminatrici analoghe, ad avviso del rimettente, a tale reato, perché connotate da un rapporto di specialità con lo stesso, abbia invece stabilito la giurisdizione dei tribunali militari;
che la Corte rimettente, in sostanza, chiede una pronuncia di tipo manipolatorio, sollecitando la ridefinizione del meccanismo di attribuzione della giurisdizione previsto dal legislatore per i reati commessi in tempo di pace, mediante l’inserimento nella disciplina di un criterio di riparto specificamente dettato, dall’art. 47 del codice penale militare di guerra, per situazioni del tutto eterogenee, di guerra o di particolare esposizione a pericolo (le missioni all’estero), al solo, limitato scopo di ottenere l’attribuzione di una singola fattispecie criminosa (l’abuso d’ufficio) alla giurisdizione penale dei tribunali militari;
che, peraltro, come già chiarito da questa Corte nell’ordinanza n. 402 del 2008, l’intervento invocato, proprio perché destinato ad avere effetto solo su una specifica ipotesi di reato, non determinerebbe affatto il superamento di quella frammentazione della giurisdizione che il rimettente chiede di rimuovere;
che l’intervento richiesto, in ogni caso, è di quelli riservati alla discrezionalità del legislatore, in quanto, per la sua portata sistematica, postula una revisione dell’intero quadro normativo in materia;
che la preclusione, per la Corte, di un tale intervento deriva anche dall’ambito su cui esso inciderebbe, che è quello del riparto di giurisdizione e della composizione degli organi giudicanti, trattandosi di materia rimessa all’ampia discrezionalità del legislatore (ordinanze n. 22 e n. 287 del 2007, n. 301 del 2004, n. 204 del 2001);
che, pertanto, per diversi motivi, la sollevata questione deve considerarsi manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 del codice penale militare di pace, sollevata, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dalla Corte militare d’appello di Roma.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2009.