ORDINANZA N. 133
ANNO 2009REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-Francesco AMIRANTE Presidente
-Ugo DE SIERVO Giudice
-Paolo MADDALENA "
-Alfio FINOCCHIARO "
-Alfonso QUARANTA "
-Franco GALLO "
-Luigi MAZZELLA "
-Gaetano SILVESTRI "
-Sabino CASSESE "
-Maria Rita SAULLE "
-Giuseppe TESAURO "
-Paolo Maria NAPOLITANO "
-Giuseppe FRIGO "
-Alessandro CRISCUOLO "
-Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, promossi dal Tribunale di Napoli, sezione per il riesame, con tre ordinanze dell’11 luglio 2006, rispettivamente iscritte ai nn. 174, 175 e 176 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 febbraio 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che con tre ordinanze, di analogo tenore, tutte depositate l’11 luglio 2006 (r.o. n. 174, n. 175 e n. 176 del 2007), il Tribunale di Napoli, sezione per il riesame, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione in assunto offertane dalla Corte di cassazione, vincolante per il rimettente in quanto giudice del rinvio – prevede che «la presunzione della sussistenza delle esigenze cautelari e della possibilità di salvaguardarle esclusivamente con la custodia cautelare in carcere», operante in presenza di gravi indizi di colpevolezza per il delitto di associazione di stampo mafioso, «possa venire meno soltanto con la prova dell’avvenuto scioglimento dell’associazione, ovvero dell’avvenuto recesso dalla stessa dell’indagato»;
che, in ciascuna delle ordinanze, il giudice a quo riferisce che, in sede di appello avverso un’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari, il Tribunale di Napoli aveva revocato la misura cautelare della custodia in carcere applicata ad una persona indagata per il delitto di cui all’art. 416-bis del codice penale, «quale imprenditore addetto alla commercializzazione e distribuzione», in uno Stato estero, «di prodotti con marchi contraffatti»;
che – aderendo all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, ai fini del superamento della presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari posta dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., non è necessaria la dimostrazione «di una vera e propria rescissione del vincolo associativo» – il Tribunale aveva valorizzato, in senso favorevole all’appellante, elementi quali il «decorso del tempo», il «ruolo marginale», la «quasi incensuratezza» o il buon comportamento processuale dell’interessato, nonché l’avvenuto sequestro preventivo di tutte le aziende di cui si servivano i coindagati, che avrebbe impedito la reiterazione della condotta criminosa;
che, in accoglimento del ricorso del pubblico ministero, la Corte di cassazione aveva annullato con rinvio il provvedimento di revoca, enunciando – secondo il rimettente – nei casi di cui alle ordinanze r.o. n. 174 e n. 175 del 2007, il principio di diritto in forza del quale, affinché venga meno la presunzione in discorso, è necessaria l’acquisizione di «elementi concreti, atti a far presumere un avvenuto scioglimento del clan camorristico, oppure un avvenuto recesso dallo stesso dell’attuale indagato»; e, nel caso di cui all’ordinanza r.o. n. 176 del 2007, il principio per cui, ai medesimi fini, occorre «la dimostrazione che l’associato ha rescisso i suoi vincoli con l’associazione criminosa, ovvero che sia positivamente accertata la impossibilità per l’indagato di svolgere ancora, in concreto, una attività conforme al proprio ruolo all’interno della organizzazione mafiosa»;
che, tanto premesso, il rimettente osserva che, per costante giurisprudenza costituzionale, è consentito al giudice del rinvio sollevare questioni di costituzionalità aventi ad oggetto l’interpretazione della norma, quale risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, stante la vincolatività di quest’ultimo nell’ambito del giudizio rescissorio ai sensi dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen.;
che, in punto di rilevanza, il giudice a quo assume che, ove non sollevasse la questione, si troverebbe costretto, adeguandosi al principio di diritto, a rigettare l’appello: e ciò in quanto non vi sarebbero «in atti» elementi concreti da cui desumere l’avvenuto scioglimento dell’associazione, il recesso dalla stessa dell’interessato o l’impossibilità, per quest’ultimo, di continuare a svolgere un’attività conforme al proprio ruolo nell’ambito del sodalizio; ma vi sarebbe soltanto la prova che il ruolo dell’appellante «è stato caratterizzato da assoluta specificità e da esclusivo rilievo soggettivo, che rendono impossibile l’ulteriore attività criminosa»;
che quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la regula iuris indicata dalla Corte di cassazione violi l’art. 3 Cost. in rapporto, anzitutto, al principio di ragionevolezza: una interpretazione così rigida della norma finirebbe, difatti, «con lo snaturare la volontà del legislatore», il quale, nel circoscrivere la presunzione ai delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso, avrebbe inteso, bensì, riconoscere a tali illeciti un elevato «coefficiente di pericolosità», ma non anche privare il giudice del merito del potere-dovere di accertare la sussistenza o meno delle esigenze cautelari;
che l’art. 3 Cost. risulterebbe leso anche con riferimento al principio di eguaglianza, avuto riguardo al fatto che, nel medesimo procedimento che vede coinvolto l’appellante, altri coimputati hanno ottenuto la revoca della misura cautelare in applicazione del meno rigido indirizzo interpretativo già fatto proprio dal Tribunale rimettente: indirizzo che, rispetto a detti coimputati, è stato condiviso dalla Corte di cassazione in sede di decisione sui ricorsi proposti dal pubblico ministero;
che l’interpretazione censurata, generando incertezze circa l’applicazione di una norma «decisiva» per il mantenimento o meno della custodia cautelare in carcere, vulnererebbe, inoltre, l’art. 13, secondo comma, Cost., in forza del quale la restrizione della libertà personale è ammessa «nei soli casi e modi previsti dalla legge»: legge che dovrebbe essere necessariamente certa ed uguale per tutti i cittadini;
che, da ultimo, l’interpretazione denunciata – postulando una «prova impossibile a fornirsi» – renderebbe, di fatto, non revocabile la misura cautelare, equiparando così la posizione del giudicabile a quella del condannato e trasformando la misura stessa in una vera e propria anticipazione della pena, in violazione dell’art. 27, primo comma, Cost.;
che nel giudizio di costituzionalità relativo all’ordinanza r.o. n. 174 del 2007 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano identiche questioni, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;
che il Tribunale di Napoli dubita, in riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione in assunto offerta dalla Corte di cassazione, vincolante per il rimettente in quanto giudice del rinvio – prevede che la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, nei confronti di chi sia raggiunto da gravi indizi di colpevolezza per il delitto di associazione di stampo mafioso, «possa venire meno soltanto con la prova dell’avvenuto scioglimento dell’associazione, ovvero dell’avvenuto recesso dalla stessa dell’indagato»;
che, successivamente alle ordinanze di rimessione, la norma denunciata è stata modificata dall’art. 2, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38: tale modifica risulta tuttavia ininfluente sull’odierno giudizio di costituzionalità, essendo rimasta ferma – per effetto del rinvio della norma novellata all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. – l’applicabilità della presunzione censurata in rapporto al delitto di cui all’art. 416-bis del codice penale;
che, per costante giurisprudenza di questa Corte, il giudice del rinvio è legittimato a sollevare dubbi di costituzionalità concernenti l’interpretazione della norma, quale risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione: e ciò in quanto – essendo vincolato al rispetto di tale principio – egli non ha altro mezzo per contestare la regula iuris di cui è chiamato a fare applicazione che quello di sollevare l’incidente di costituzionalità (ex plurimis, sentenze n. 305 del 2008, n. 78 del 2007 e n. 314 del 1996);
che, nella specie, tuttavia, l’annullamento con rinvio è stato disposto dalla Corte di cassazione per vizi di motivazione dei provvedimenti impugnati, senza che risulti affatto enunciato un principio di diritto di tenore corrispondente all’interpretazione che forma oggetto del quesito di costituzionalità;
che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, la Corte di cassazione risolve una questione di diritto anche quando giudica sull’inadempimento dell’obbligo di motivazione: ma, in tal caso, il vincolo è meno stringente, in quanto il giudice del rinvio, pur essendo tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle censurate o integrando quelle svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia impugnata;
che, ciò premesso, in riferimento ai casi oggetto delle ordinanze di rimessione r.o. n. 174 e n. 175 del 2007, il Giudice di legittimità – con le sentenze n. 1572 e n. 1573 del 20 ottobre 2005 – si è limitato soltanto a rilevare come gli argomenti sulla cui base il Tribunale di Napoli aveva ritenuto vinta la presunzione di pericolosità dell’indagato fossero affetti «da evidenti illogicità e carenze motivazionali»;
che la Corte di cassazione ha accennato, bensì, al fatto che nei provvedimenti impugnati non risultavano indicati elementi concreti, atti a far desumere l’avvenuto scioglimento del «clan camorristico» o il recesso dallo stesso dell’indagato: ma ciò al solo fine di evidenziare come, in assenza di tali elementi, non fosse conforme a canoni logici ritenere che l’avvenuto sequestro delle aziende utilizzate dal sodalizio scongiurasse automaticamente il rischio di reiterazione dell’attività criminosa, non potendosi escludere l’allestimento di fabbriche analoghe da parte degli affiliati;
che, in aggiunta a ciò, la Corte di legittimità ha anche rilevato come nelle ordinanze censurate non si rinvenisse «alcuna motivazione sulla cessazione di pericoli concreti di inquinamenti probatori, o di fuga, ad opera del partecipe di un’organizzazione illecita dotata di mezzi finanziari e strutturali non indifferenti, anche a livello internazionale»;
che per quanto attiene, invece, alla terza ordinanza di rimessione (r.o. n. 176 del 2007), la Corte di cassazione, nell’annullare con rinvio il provvedimento impugnato per manifesta illogicità della motivazione (sentenza n. 3660 del 27 ottobre 2005), ha enunciato effettivamente il principio di diritto per cui la presunzione in discorso «può essere vinta solo a fronte di dimostrazione che l’associato ha rescisso i suoi vincoli con l’associazione criminosa […] ovvero che sia positivamente accertata la impossibilità per l’indagato di svolgere ancora, in concreto, una attività conforme al suo ruolo all’interno dell’organizzazione mafiosa»;
che, nel sollevare la questione di costituzionalità, il Tribunale di Napoli amputa, tuttavia, tale regula iuris della sua seconda parte, col risultato di alterarne il senso: la Corte di legittimità non ha affermato, difatti – come assume il rimettente – che la presunzione può «venir meno solo con la prova dell’avvenuto scioglimento dell’associazione, ovvero dell’avvenuto recesso dell’indagato», ma ha stabilito, invece, che essa cade anche quando venga acclarata l’impossibilità, per quest’ultimo, di svolgere ulteriormente una attività conforme al proprio ruolo nel sodalizio;
che tale travisamento si riverbera anche sulla congruità della motivazione in ordine alla rilevanza della questione: il rimettente assume, difatti, che la questione sarebbe rilevante in quanto, alla luce del principio di diritto, egli dovrebbe rigettare l’appello cautelare, non essendovi in atti la prova delle circostanze che, secondo il Giudice di legittimità, consentirebbero di ritenere superata la presunzione, ma «soltanto la prova che il ruolo svolto» dall’interessato «è stato caratterizzato da assoluta specificità e da esclusivo rilievo soggettivo, che rendono impossibile l’ulteriore attività criminosa»;
che appare evidente, tuttavia, come la situazione ora indicata sia pienamente riconducibile a quella cui ha fatto riferimento la sentenza di annullamento con rinvio, nella parte del principio di diritto resecata in sede di formulazione del petitum;
che, in conclusione, anche in questo caso il rimettente identifica in modo inesatto la regula iuris indicata dalla Corte di cassazione: mentre, in rapporto al principio di diritto effettivamente stabilito, la questione risulterebbe irrilevante, giacché, ove vi fosse realmente la prova dianzi indicata, essa varrebbe senz’altro, alla luce del dictum del Giudice di legittimità, a vincere la presunzione in parola (salvo l’obbligo di una puntuale e adeguata motivazione sul punto);
che le questioni vanno dichiarate, pertanto, manifestamente inammissibili.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Napoli con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 maggio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2009.