ORDINANZA N. 128
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 669 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Monreale, nel procedimento penale a carico di L.S., con ordinanza del 12 settembre 2007, iscritta al n. 853 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 1° aprile 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che, con ordinanza del 12 settembre 2007, il Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Monreale, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 669 del codice di procedura penale, nella parte in cui «non prevede che il giudice dell’esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena in relazione a una sentenza nella quale l’applicazione di tale beneficio sia stata negata […] esclusivamente a causa dell’esistenza di una precedente sentenza di condanna poi revocata per violazione del divieto del bis in idem»;
che il rimettente riferisce di essere investito di una istanza formulata ai sensi dell’art. 669 cod. proc. pen., avente ad oggetto, da un lato, la revoca della sentenza emessa il 19 ottobre 2004 dalla quinta sezione penale del Tribunale di Palermo in composizione monocratica (divenuta irrevocabile il 13 gennaio 2005), e, dall’altro, l’esecuzione della sentenza emessa il 21 ottobre 2004 dalla sezione distaccata di Monreale del medesimo Tribunale (integralmente confermata dalla Corte d’appello di Palermo, con sentenza divenuta irrevocabile il 1° aprile 2006), con richiesta di contestuale concessione all’interessato, «in riforma della sentenza di appello», del beneficio della sospensione condizionale della pena;
che con la prima delle due sentenze, l’istante era stato condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi tre di reclusione ed euro 200 di multa, per la ricettazione di un contrassegno e di un certificato di assicurazione per la responsabilità civile automobilistica, frutto di contraffazione;
che con la seconda sentenza, la medesima persona era stata condannata, per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di ricettazione e di falsità in scrittura privata, alla pena – non sospesa – di mesi quattro di reclusione ed euro 350 di multa, di cui mesi tre di reclusione e l’intera pena pecuniaria riferiti alla ricettazione, quale reato più grave;
che, nell’occasione, l’interessato era stato accusato di aver acquistato o comunque ricevuto, a fine di profitto, un contrassegno e un certificato di assicurazione, compendio del delitto di appropriazione indebita di cosa smarrita;
che, alla luce della motivazione delle due sentenze, appariva indubitabile che esse concernevano – quanto alla ricettazione – un identico fatto, discutendosi, in entrambi i casi, dello stesso documento di provenienza delittuosa: identità che non veniva meno per la diversità del contestato reato presupposto;
che, dunque, l’interessato era stato condannato due volte per il medesimo fatto, considerato, nella seconda sentenza, quale episodio di un reato continuato: ipotesi, quest’ultima, prevista e regolata dall’art. 669, comma 6, cod. proc. pen.;
che, ai sensi del comma 1 del citato art. 669, in tal caso va revocata la condanna più grave e ordinata l’esecuzione di quella meno grave, individuata sulla base dei criteri indicati nei commi 3 e 4 dello stesso articolo, a meno che l’interessato – considerato dal legislatore il miglior giudice dei propri interessi – eserciti la facoltà, espressamente attribuitagli dal comma 2, di indicare la sentenza che deve essere eseguita;
che, nella specie, l’interessato si era avvalso di tale facoltà, chiedendo che venisse eseguita la sentenza emessa il 21 ottobre 2004 dalla sezione distaccata di Monreale del Tribunale di Palermo, che pure risultava «in astratto» più grave dell’altra, sia perché, a parità di pena detentiva, aveva irrogato una multa maggiore; sia perché non aveva concesso la sospensione condizionale della pena;
che, non essendo – secondo il rimettente – tale scelta sindacabile dal giudice, e dovendosi, quindi, revocare la prima sentenza e ordinare l’esecuzione della seconda, andrebbe esaminata l’istanza di concessione del beneficio di cui all’art. 163 cod. pen.;
che il diniego in sede cognitiva della sospensione condizionale, motivato solo dalla sentenza di secondo grado, risultava basato sull’unico rilievo che l’imputato aveva goduto già due volte del beneficio;
che, tuttavia, come emergeva dal certificato del casellario giudiziale, la seconda delle due precedenti condanne a pena sospesa, considerate ostative, era costituita dalla revocanda sentenza emessa il 19 ottobre 2004 dalla quinta sezione del Tribunale di Palermo: sicché, in pratica, la sospensione condizionale della pena, disposta da quest’ultima sentenza in relazione alla ricettazione dianzi descritta, aveva impedito la concessione del beneficio con riferimento al medesimo fatto;
che, tanto premesso, il rimettente osserva che, in base al «diritto vivente», la sospensione condizionale della pena può essere concessa in sede esecutiva solo ove ciò sia espressamente o implicitamente previsto dalla legge, come accade – rispettivamente – nell’art. 671, comma 3 (in caso di applicazione, da parte del giudice dell’esecuzione, della disciplina del concorso formale o del reato continuato) e nell’art. 673, comma 1, cod. proc. pen. (in caso di revoca della sentenza per abolizione del reato);
che, nel risolvere il contrasto di giurisprudenza manifestatosi in rapporto a quest’ultima ipotesi, le sezioni unite della Corte di cassazione (viene citata la sentenza 20 dicembre 2005, n. 4687) hanno infatti affermato che la concessione della sospensione condizionale, nell’ipotesi di revoca della condanna per abolitio criminis, è resa possibile esclusivamente dalla previsione, contenuta nell’art. 673, comma 1, cod. proc. pen., in forza della quale il giudice dell’esecuzione adotta tutti «i provvedimenti conseguenti» alla revoca stessa: previsione da collegare al principio di cui all’art. 2, secondo comma, cod. pen., in tema di cessazione degli effetti penali della condanna, tra i quali rientra quello impeditivo di una ulteriore concessione della sospensione condizionale della pena;
che, nella citata sentenza, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno, di contro, espressamente escluso che a siffatta conclusione possa pervenirsi sulla base di una applicazione analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., sia pure «in nome dell’interpretazione secundum Constitutionem»;
che una simile operazione ermeneutica risulterebbe infatti impedita dalla natura eccezionale di detta norma, la quale deroga al principio generale secondo cui il giudizio prognostico sulla futura condotta del reo – costituente il presupposto per la concessione della sospensione condizionale – è ordinariamente riservato al giudice della cognizione, che ha accertato la responsabilità del soggetto per il fatto cui il beneficio andrebbe applicato;
che nessuna previsione, esplicita o implicita, circa la concedibilità della sospensione condizionale risulta peraltro rinvenibile nell’art. 669 cod. proc. pen., con riguardo all’ipotesi di revoca di una delle sentenze di condanna emesse nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto;
che, conseguentemente, non sarebbe possibile una interpretazione «costituzionalmente orientata» della norma: e ciò nemmeno quando – come nel caso di specie – il beneficio sia stato negato, in sede di cognizione, esclusivamente a causa della condanna poi revocata;
che ne deriverebbe, tuttavia – ad avviso del rimettente – una irragionevole disparità di trattamento, lesiva dell’art. 3 Cost., tra l’ipotesi considerata e quelle regolate dai citati artt. 671, comma 3, e 673, comma 1, cod. proc. pen.;
che apparirebbe, infatti, manifestamente illogico un sistema che, da un lato, permetta di concedere la sospensione condizionale nel caso di revoca – per abolitio criminis – della condanna che aveva impedito la concessione di tale beneficio rispetto ad altra condanna; e, dall’altro lato, non lo consenta nel caso di revoca di un’omologa condanna per violazione del divieto del bis in idem: con la conseguenza che tale condanna continuerebbe a produrre il descritto e pregiudizievole effetto preclusivo;
che l’irrazionalità della denunciata disparità di trattamento risulterebbe ancor più evidente nel caso di specie, in cui la concessione del beneficio resterebbe preclusa dalla sentenza di condanna, poi revocata, per il medesimo fatto: sentenza che aveva, tuttavia, applicato il beneficio alla pena irrogata proprio per tale fatto;
che la questione sarebbe, da ultimo, rilevante nel procedimento a quo, giacché l’interessato apparirebbe meritevole del beneficio, attualmente precluso, invece, dall’unica plausibile interpretazione dell’art. 669 cod. proc. pen.;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Considerato che il Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Monreale, dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 669 del codice di procedura penale, nella parte in cui «non prevede che il giudice dell’esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena in relazione a una sentenza nella quale l’applicazione di tale beneficio sia stata negata […] esclusivamente a causa dell’esistenza di una precedente sentenza di condanna poi revocata per violazione del divieto del bis in idem»;
che, con riguardo alla fattispecie oggetto del giudizio a quo, tale dubbio di costituzionalità si presenta manifestamente privo di fondamento;
che, in proposito, va infatti rilevato come l’art. 669 cod. proc. pen. miri a porre rimedio ad una situazione nella quale non è stato in concreto osservato il divieto del bis in idem (art. 649 cod. proc. pen.), stabilendo quale fra le plurime sentenze irrevocabili emesse nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto debba essere eseguita, con correlata revoca delle altre;
che, in teoria, la sentenza da eseguire dovrebbe essere sempre quella divenuta irrevocabile per prima: sono, infatti, le successive che – intervenendo dopo la formazione del giudicato – risultano emesse in violazione del ne bis in idem;
che il legislatore privilegia, tuttavia, il favor rei, stabilendo, per quanto in questa sede interessa, che quando per lo stesso fatto sono state pronunciate più sentenze di condanna, vada eseguita, non la prima sentenza, ma quella che ha pronunciato la condanna meno grave (art. 669, comma 1, cod. proc. pen.), individuata sulla base degli analitici criteri dettati dai commi 3 e 4 dello stesso articolo;
che tali criteri hanno, peraltro, una valenza solo suppletiva rispetto alla facoltà, attribuita all’interessato dal comma 2, di indicare lui stesso, ove le pene siano diverse, quale sentenza deve essere eseguita: e ciò – come si legge nella relazione al progetto preliminare del codice di rito – in base alla considerazione che, a fronte dell’ampia gamma di combinazioni che possono presentarsi in concreto, la quale rischia di rendere arbitraria ogni predeterminazione normativa, deve presumersi che il pluricondannato sia il miglior giudice dei propri interessi;
che la disciplina ora ricordata risulta espressamente estesa dal comma 6 dell’art. 669 cod. proc. pen. all’ipotesi in cui il medesimo fatto sia stato giudicato quale «episodio» del concorso formale o del reato continuato, come è avvenuto nella specie, quanto alla seconda delle due sentenze;
che, ciò posto, nel caso oggetto del giudizio a quo – alla luce di quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione – si è al cospetto di una evenienza patologica, giacché il condannato ha operato una scelta, a tutta prima, contraria ai propri interessi: avendo chiesto che, tra le anzidette sentenze, venga eseguita quella non solo divenuta irrevocabile per ultima e che ha inflitto una pena più severa, ma che per giunta ha negato la sospensione condizionale;
che – a prescindere dalla logica che può aver guidato siffatta opzione (estendere la sospensione condizionale anche alla pena inflitta per il reato di falso giudicato nella seconda sentenza in continuazione con la ricettazione) e dalla possibilità di conseguire, eventualmente, il risultato sperato per altra via (chiedendo, cioè, la revoca parziale della seconda condanna, quanto alla ricettazione, e il riconoscimento in executivis della continuazione tra il falso e la ricettazione giudicata con la prima condanna, con conseguente estensione della sospensione condizionale al falso ai sensi dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen.) – occorre comunque ribadire che la seconda condanna è, di per sé, una sentenza emessa illegittimamente, in contrasto col ne bis in idem;
che l’interessato può sceglierla, ai sensi dell’art. 669, comma 2, cod. proc. pen., se la ritiene in concreto più vantaggiosa: ma non può pretendere di sceglierla e, al tempo stesso, di emendarla – in deroga al principio di intangibilità del giudicato – da un errore, in punto di concessione di benefici, connesso alla stessa violazione del ne bis in idem (in specie, l’aver considerato come precedente ostativo altra condanna per il medesimo fatto che, a seguito della scelta operata, dovrebbe essere revocata);
che, infatti, l’interessato può evitare l’effetto pregiudizievole ora indicato semplicemente optando per la condanna più remota – che è, poi, quella emessa secundum ius – in rapporto alla quale non può logicamente mai configurarsi un diniego della sospensione condizionale della pena basato sulla preclusione derivante da altra condanna per il medesimo fatto;
che, con riferimento alla fattispecie in discussione, manca pertanto lo stesso presupposto affinché possa ipotizzarsi l’esigenza costituzionale di un intervento volto a riequilibrare la relativa disciplina rispetto a quella stabilita per le ipotesi contemplate dagli artt. 671, comma 3, e 673, comma 1, cod. proc. pen., evocati dal rimettente come tertia comparationis (ex plurimis, nel senso che l’eventuale funzionamento patologico della norma non possa costituire presupposto per farne valere una illegittimità riferita alla lesione del principio di eguaglianza, sentenze n. 86 del 2008 e n. 417 del 1996; ordinanza n. 385 del 2008);
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 669 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Monreale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2009.