Ordinanza n. 425 del 2008

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ORDINANZA N. 425

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Giovanni Maria   FLICK                                     Presidente

-  Francesco          AMIRANTE                                Giudice

-  Ugo                   DE SIERVO                                    ”

-  Paolo                 MADDALENA                                 ”

-  Alfio                  FINOCCHIARO                              ”

-  Alfonso              QUARANTA                                   ”

-  Franco               GALLO                                           ”

-  Luigi                  MAZZELLA                                    ”

-  Gaetano             SILVESTRI                                     ”

-  Sabino               CASSESE                                       ”

-  Maria Rita          SAULLE                                         ”

-  Giuseppe            TESAURO                                       ”

-  Paolo Maria       NAPOLITANO                                ”

-  Giuseppe            FRIGO                                            ”

-  Alessandro         CRISCUOLO                                  ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Tribunale di Milano, Sezione IV penale, nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in relazione alle note protocolli USG/2.SP/556/50/347 e USG/2.SP/557/50/347, entrambe del 15 novembre 2008, ed alla nota protocollo N.6000.1/42025/GAB del 6 ottobre 2008, conflitto proposto con ricorso depositato in cancelleria il 3 dicembre 2008 ed iscritto al n. 20 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di ammissibilità.

Udito nella camera di consiglio del 17 dicembre 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.

Ritenuto che il Tribunale ordinario di Milano, Sezione IV penale, in composizione monocratica ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato «in relazione alle due lettere del Presidente del Consiglio dei ministri del 15 novembre 2008 (USG/2.SP/556/50/347 e USG/2.SP/557/50/347), con cui è stato confermato il segreto di Stato opposto dai testimoni Sig.ri Giuseppe Scandone e Lorenzo Murgolo nel corso delle udienze dibattimentali rispettivamente del 15 e del 29 ottobre 2008, relative al processo a carico di Adler Monica Courteney ed altri pendente dinanzi la IV Sezione penale del Tribunale di Milano con n. R.G. 5335/07, nonché, ove occorra, alla lettera del Presidente del Consiglio datata 6 ottobre 2008 (N. 6000.1/42025/GAB)»;

che il ricorrente premette, in punto di fatto, di essere «titolare del processo a carico di Adler Monica Courteney ed altri relativo ai reati di sequestro di persona aggravato e di favoreggiamento personale, meglio conosciuto come relativo al sequestro “Abu Omar”»;

che egli rammenta, inoltre, come in relazione a detto procedimento risultino pendenti innanzi alla Corte costituzionale già «cinque ricorsi per conflitto di attribuzione», l’ultimo dei quali, in ordine di tempo, è stato promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri proprio nei confronti dell’odierno ricorrente, in relazione alla sua decisione «di riaprire il processo» – precedentemente sospeso, ai sensi 479 del codice di procedura penale, in attesa di una decisione della Corte in ordine ai quattro precedenti ricorsi – nonché «di ammettere le testimonianze di alcuni appartenenti o ex appartenenti ai Servizi di informazione e sicurezza», come da richiesta formulata dal pubblico ministero;

che il ricorrente, nel promuovere il presente conflitto, evidenzia, in via preliminare, che proprio l’ulteriore svolgimento del processo – in relazione al quale è insorta la necessità di adire nuovamente la Corte costituzionale, a norma dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 – avrebbe confermato che «l’ammissione delle suddette testimonianze non poteva, di per sé stessa, cagionare un disvelamento di notizie secretate, restando fermo il dovere dei testimoni, penalmente sanzionato (art. 261 c.p.), di astenersi dal rivelare tali informazioni e di attivare, ove necessario, il meccanismo legale di tutela del segreto di Stato, fondato sull’opposizione e sulla successiva conferma del Presidente del Consiglio (art. 202 c.p.p.)»;

che risulterebbe, così, «definitivamente provato» – a dire del ricorrente – «che la mera ammissione dei testimoni non avrebbe potuto cagionare alcun pregiudizio all’interesse alla segretezza», diversamente da quanto ipotizzato dal Presidente del Consiglio dei ministri nel ricorso iscritto al n. 14 del registro per i conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato dell’anno 2008;

che, ciò premesso, il ricorrente – passando ad illustrare il contenuto dell’odierno conflitto – evidenzia come la difesa di uno degli imputati, all’udienza del 15 ottobre 2008, abbia depositato una lettera del Presidente del Consiglio dei ministri del 6 ottobre 2008 (N. 6000.1/42025/GAB), «inoltrata a tutti gli appartenenti o ex appartenenti ai Servizi chiamati a testimoniare» nel giudizio, documento con il quale – si legge ancora nel ricorso – «veniva ricordato che sul fatto del sequestro Abu Omar non esiste segreto di Stato, mentre rimane coperto da segreto “ogni e qualsiasi rapporto fra Servizi italiani e Servizi stranieri nel quadro della tutela delle relazioni internazionali”, con conseguente dovere per i suddetti testimoni di opporre il segreto di Stato in relazione a “qualsiasi rapporto fra i Servizi italiani e stranieri ancorché in qualche modo collegato o collegabile con il fatto storico meglio noto come sequestro Abu Omar”»;

che – riferisce ancora il ricorrente – sempre nel corso di quella stessa udienza del 15 ottobre il teste Giuseppe Scandone, «richiamandosi alla citata lettera/direttiva», opponeva il segreto di Stato nel rispondere ad una domanda relativa ad eventuali ordini o direttive, impartiti da uno degli imputati, volti «a vietare ai propri sottoposti il ricorso a mezzi illeciti di contrasto del terrorismo internazionale e, in particolare, le cd. extraordinary renditions»;

che richiesto, pertanto, dalla difesa del predetto imputato di «attivare la procedura d’interpello» di cui all’art. 202 del codice di procedura penale, l’odierno ricorrente, disattendendo l’istanza del pubblico ministero di dichiarare la «eversività dell’ordinamento costituzionale» dei reati contestati (decisione adottata dal giudice sul presupposto che, anche per esplicita affermazione del Presidente del Consiglio dei ministri, «sulla vicenda relativa al sequestro Abu Omar non risulta essere stato apposto ed opposto alcun segreto di Stato», sicché «l’eventuale declaratoria di eversività dell’ordinamento costituzionale del reato contestato» nulla «toglierebbe o aggiungerebbe alla possibilità di perseguimento del reato in questione»), si rivolgeva al Presidente del Consiglio dei ministri perché confermasse l’esistenza del segreto «su direttive e ordini impartiti dal Generale Nicolò Pollari» del tipo sopra meglio individuato;

che, analogamente, avendo anche il teste Lorenzo Murgolo, nel corso dell’udienza dibattimentale del 6 ottobre 2008, opposto il segreto – anch’egli richiamandosi alla già citata lettera/direttiva del 6 ottobre 2008 – in relazione alla richiesta del pubblico ministero «di ripetere quanto già riferito nel corso delle indagini preliminari in ordine ad alcuni suoi colloqui con l’imputato dott. Mancini e relativi al coinvolgimento di quest’ultimo nel sequestro e alla sua partecipazione ad una riunione con “gli americani” a Bologna», l’odierno ricorrente attivava, del pari, la procedura di interpello di cui all’art. 202 cod. proc. pen.;

che, inoltre, il ricorrente deduce – nel concludere l’esposizione in fatto del ricorso – che con due note del 15 novembre 2008 il Presidente del Consiglio dei ministri «rispondeva ai due interpelli, confermando il segreto opposto dai testi e precisando i limiti entro i quali – ad avviso dell’Esecutivo – dovrebbe muoversi l’Autorità giudiziaria»;

che, da un lato, la conferma del segreto opposto dai testi veniva motivata con l’esigenza di «preservare la credibilità del Servizio nell’ambito dei suoi rapporti internazionali con gli organismi collegati», e ciò in quanto «la divulgazione di notizie rivelatrici, anche di parti soltanto di tali rapporti, esporrebbe i nostri Servizi al rischio concreto di un ostracismo informativo da parte di omologhi stranieri, con evidenti negativi contraccolpi nello svolgimento di attività informativa presente e futura»;

che, dall’altro – e con specifico riferimento al segreto opposto dal teste Scandone – la conferma del segreto era motivata anche in ragione della «esigenza di riserbo che deve tutelare gli interna corporis di ogni Servizio, ponendo al riparo da indebita pubblicità le sue modalità organizzative ed operative»;

che, inoltre, in quella stessa occasione l’odierno ricorrente chiedeva un chiarimento circa il significato dell’espressione «circostanze relative a qualsiasi rapporto fra i Servizi italiani e stranieri collegate o collegabili» al «fatto storico meglio noto come “sequestro Abu Omar”» (circostanze che, nella citata lettera/direttiva del 6 ottobre 2008 del Presidente del Consiglio dei ministri, si affermavano coperte da segreto), chiedendosi come sia possibile per l’autorità giudiziaria «accertare l’esistenza e la commissione, da parte di persone individuate come imputati, del reato in questione se nessuna domanda può essere posta ai testi in merito alla collegabilità del fatto con le condotte degli imputati medesimi», e dunque evidenziando la contraddittorietà tra l’affermazione di principio «che su un fatto-reato non esiste segreto» e la decisione di «non consentire l’accertamento del fatto medesimo in tutte le sue componenti, oggettive e soggettive»;

che, infine, in merito ai chiarimenti sollecitati dall’odierno ricorrente, il Presidente del Consiglio dei ministri escludeva l’esistenza di qualsiasi contraddizione nell’affermare, nel contempo, l’insussistenza del segreto sul fatto-reato e la segretezza del rapporto tra Servizi italiani e stranieri, sebbene quest’ultimo sia «in qualche modo collegato o collegabile con il fatto storico meglio noto come sequestro Abu Omar», giacché «l’Autorità giudiziaria è libera di indagare, accertare e giudicare il fatto-reato de quo, non coperto da segreto, con tutti i mezzi di prova consentiti», con la sola esclusione, però, proprio perché «coperti da segreto», di «quelli che hanno tratto ai rapporti fra Servizi italiani e stranieri»;

che, tanto premesso, il ricorrente, nel rilevare che le affermazioni del Presidente del Consiglio dei ministri «rendono di fatto assai arduo il concreto e pieno esercizio dei poteri giurisdizionali», ha ritenuto di dover promuovere il presente conflitto, ritenendo «pacifica» – alla stregua di una costante giurisprudenza costituzionale – tanto la legittimazione «dei singoli organi giurisdizionali a essere parte di un conflitto», quanto «quella del Presidente del Consiglio a resistere», richiamando in proposito, in particolare, l’ordinanza n. 230 del 2008 della Corte costituzionale;

che sotto il profilo oggettivo, poi, il ricorrente deduce che la propria iniziativa tende a far accertare «l’illegittima compressione delle attribuzioni e dei poteri propri dell’autorità giudiziaria di cui agli artt. 101 e ss. Cost.» derivante, nel caso di specie, tanto «dall’affermazione, da parte del Presidente del Consiglio, dell’esistenza di una preclusione, nel giudizio de quo, all’utilizzazione di tutti i mezzi di prova “che hanno tratto ai rapporti fra Servizi italiani e stranieri”», quanto dalla conferma del segreto opposto dai testi Scandone e Murgolo in ordine, rispettivamente, «all’esistenza e al contenuto di direttive o ordini impartiti dal Generale Pollari relativi alle cd. renditions» e all’eventuale coinvolgimento dell’imputato Mancini «nel sequestro» di Abu Omar, nonché «alla sua partecipazione ad una riunione con “gli americani” a Bologna»;

che il ricorrente – nel premettere che la disciplina del segreto di Stato si fonda sulla «ricerca di un punto di equilibrio tra due interessi parimenti essenziali e insopprimibili della collettività», ovvero, «da un lato, la tutela giurisdizionale dei diritti e la perseguibilità dei reati e, dall’altro, la sicurezza dello Stato» – evidenzia come l’opposizione e la conferma del segreto, determinando, obiettivamente, «un importante limite alla “naturale” potestà del giudice di acquisire e utilizzare fonti di prova su cui fondare il proprio libero convincimento», si debbano compiere, non in assenza di «qualsiasi vincolo», bensì nel rispetto di «alcuni fondamentali principi e, in particolare, quelli di legalità, correttezza e di lealtà, nonché proporzionalità (recte: di “ragionevole rapporto di mezzo a fine”)» (è richiamata, sul punto, la sentenza n. 86 del 1977 della Corte costituzionale);

che l’osservanza di tali principi non si riscontrerebbe, invece, nell’ipotesi in esame;

che, difatti, se nel caso de quo – evidenzia il ricorrente – sembra «potersi affermare che Presidente del Consiglio ed autorità giudiziaria concordano» sia «sul fatto che il sequestro Abu Omar, in quanto fatto-reato, non è coperto da segreto di Stato», sia «sul rilievo che vi sono tuttavia notizie liminari a tale fatto di reato, di cui deve essere garantita la segretezza», nondimeno, esiste tra di essi discordanza di vedute circa la concreta individuazione della «linea di confine tra ciò che è segreto e ciò che non lo è», nonché in ordine al «significato dell’espressione “fatto-reato” non secretato»;

che, infatti, nella lettera/direttiva del 6 ottobre 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri ha affermato la sussistenza del segreto su «qualsiasi rapporto fra i Servizi italiani e stranieri ancorché in qualche modo collegato o collegabile con il fatto storico meglio noto come sequestro Abu Omar», specificando, altresì, che l’autorità giudiziaria «è libera di indagare, accertare e giudicare il fatto-reato de quo, non coperto da segreto, con tutti i mezzi di prova consentiti», con la sola esclusione, però, proprio perché «coperti da segreto», di «quelli che hanno tratto ai rapporti fra Servizi italiani e stranieri»;

che, tuttavia, alla stregua di tali premesse, il Presidente del Consiglio dei ministri, reputando che l’ambito di operatività del segreto comprenda – si legge nel ricorso – «anche i comportamenti dei singoli agenti, oggi imputati, ancorché preordinati alla commissione del delitto de quo», ha ritenuto di confermare «il segreto opposto dal teste Scandone in ordine all’esistenza e al contenuto di direttive o ordini impartiti dal Generale Pollari relativi alle cd. renditions, nonché il segreto opposto dal teste Murgolo in ordine ad alcuni suoi colloqui con l’imputato dott. Mancini e relativi all’eventuale coinvolgimento di quest’ultimo nel sequestro e alla sua partecipazione ad una riunione con “gli americani” a Bologna (colloqui, peraltro, già riferiti al P.M. nel corso delle indagini preliminari)»;

che così facendo, però, il Presidente del Consiglio dei ministri – tale è la doglianza del ricorrente – «sembra voler precludere al giudice anche l’accertamento sulla sussistenza o meno degli elementi costitutivi del fatto-reato», essendo quelle domande rivolte ad accertare l’eventuale ruolo nella vicenda degli imputati Pollari e Mancini;

che il ricorrente, inoltre, denuncia l’intrinseca contraddittorietà delle suindicate affermazioni, giacché, se il fatto-reato non è coperto da segreto, allora non dovrebbero esserlo – si sottolinea nel ricorso – «neanche le condotte degli imputati che ne costituiscono gli elementi costitutivi», per l’accertamento dei quali non si potrebbe, dunque, precludere al giudice l’acquisizione e l’utilizzazione anche di quei mezzi di prova «che hanno tratto» ai rapporti tra agenti (o ex agenti) dei Servizi italiani e americani, ancorché «collegati o collegabili» alla commissione del reato, giacché ciò significa, in definitiva, proprio «precludere all’Autorità giudiziaria di accertare la responsabilità degli agenti/imputati, inibendole di conoscere del “fatto-reato”, che pure si afferma non essere secretato»;

che simili conclusioni, pertanto, finiscono con il risolversi «in una sostanziale vanificazione» del potere-dovere del giudice «di accertare e valutare le condotte degli imputati e le loro responsabilità», in contrasto, innanzitutto, con il «principio di legalità»;

che la Corte costituzionale, già sotto la vigenza della legge 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato), ha evidenziato – espone il ricorrente – che la disciplina in esame «non delinea(va) alcuna ipotesi di immunità sostanziale collegata all’attività dei servizi informativi» (è citata la sentenza n. 110 del 1998);

che, per contro, se la legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto) ha previsto un’esimente speciale per gli agenti dei Servizi, essa, nel contempo, non opera – si legge ancora nel ricorso – per i «delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone» (art. 17);

che, inoltre, l’art. 40, comma 3, della medesima legge n. 124 del 2007 ha stabilito che non possono essere oggetto di segreto «fatti, notizie o documenti concernenti le condotte poste in essere da appartenenti ai Servizi di informazione per la sicurezza in violazione della disciplina concernente la speciale causa di giustificazione prevista per attività del personale dei Servizi di informazione per la sicurezza»;

che, pertanto, tutto ciò evidenzia l’impossibilità di concepire «che un’attività a tutela dello Stato sia svolta con metodi che contrastino con gli stessi principi su cui esso si fonda», e segnatamente «con il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona»;

che ne consegue, dunque, che gli agenti dei Servizi «che commettano un delitto contro “la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità” devono risponderne innanzi all’autorità giudiziaria e il loro operato non può essere in alcun caso “coperto” da segreto di Stato»;

che tale principio è stato solo riaffermato dalla legge n. 124 del 2007, nella quale, però, «non può non leggersi tra le righe una chiara presa di posizione del Parlamento anche sul caso Abu Omar»;

che in contrasto con detto principio appare, quindi, «l’inibizione – derivante dagli atti di conferma del 15 novembre – del potere dell’autorità giudiziaria di accertare la sussistenza o meno degli elementi costitutivi del reato de quo», ed in particolare «di conoscere fatti che proverebbero l’attiva partecipazione al delitto di un imputato (testimonianza Murgolo), ovvero l’estraneità di un altro (testimonianza Scandone)»;

che in questo modo, dunque, si realizzerebbe «una sostanziale vanificazione» del potere-dovere del giudice «di accertare e valutare le condotte degli imputati e le loro responsabilità», in contrasto, innanzitutto, con il «principio di legalità»;

che, inoltre, la conferma del segreto si porrebbe in contrasto con il principio di proporzionalità;

che essa, infatti, è stata motivata dal Presidente del Consiglio dei ministri in relazione, da un lato, all’esigenza di «preservare la credibilità del Servizio nell’ambito dei suoi rapporti internazionali con gli organismi collegati» (e ciò in quanto «la divulgazione di notizie rivelatrici, anche di parti soltanto di tali rapporti, esporrebbe i nostri Servizi al rischio concreto di un ostracismo informativo da parte di omologhi stranieri, con evidenti negativi contraccolpi nello svolgimento di attività informativa presente e futura»), nonché, dall’altro – e con specifico riferimento al segreto opposto dal teste Scandone – in ragione della «esigenza di riserbo che deve tutelare gli interna corporis di ogni Servizio, ponendo al riparo da indebita pubblicità le sue modalità organizzative ed operative»;

che sebbene quelle indicate – osserva il ricorrente – costituiscano «finalità pienamente legittime», nondimeno per il loro perseguimento «non appare affatto necessario sacrificare, con tanta incisività, i poteri dell’autorità giudiziaria»;

che il rispetto, infatti, del principio di proporzionalità sembrerebbe imporre una distinzione tra «informazioni inerenti modalità organizzative ed operative dei Servizi, ovvero rapporti di carattere generale e istituzionale con i Servizi stranieri, comprese eventuali intese che definiscano linee di condotta condivise», destinati a rimanere segreti, e, invece, «condotte concretamente poste in essere dai singoli agenti/imputati e che abbiano avuto incidenza causale sul fatto criminoso, liberamente conoscibili dal giudice», giacché, «proprio per il loro carattere eventualmente illegale, si pongono al di fuori di quella cornice istituzionale che può essere – deve essere – destinataria di tutela»;

che i due atti di conferma del segreto non rispetterebbero, però, tale criterio distintivo, e dunque il principio di «ragionevole rapporto di mezzo a fine», ciò che, in particolare, vale – secondo il ricorrente – per quello relativo alla testimonianza dello Scandone, giacché essa, mirando a far accertare l’esistenza di eventuali ordini o direttive, impartiti dal Generale Pollari ai propri sottoposti e diretti «ad impedire l’uso di mezzi o modalità illecite da parte dei medesimi nell’opera di contrasto del terrorismo internazionale e, in particolare, nell’attività cosiddetta delle renditions», non si vede proprio – sempre secondo il ricorrente – «quale grave compromissione della “credibilità del Servizio”, né quale “indebita pubblicità” delle sue “modalità organizzative ed operative”» avrebbe potuto recare;

che poi, in particolare, la conferma del segreto opposto dal teste Murgolo violerebbe il «principio dell’anteriorità della secretazione», investendo quanto dal teste «già riferito nel corso delle indagini preliminari» e, dunque, una notizia già divulgata (e come tale non più secretabile);

che, invero, tale secretazione successiva contravverrebbe alla ratio sottesa al principio «per cui la secretazione di una notizia deve essere antecedente alla sua acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria», ratio da individuare – alla stregua dei lavori preparatori della legge n. 801 del 1977 – nella necessità «di evitare che l’Esecutivo opportunamente ed arbitrariamente copra del segreto ex post ciò che adesso è scomodo o dannoso in relazione ad un processo determinato»;

che tale principio, già previsto dalla disciplina originaria sul segreto di Stato, è stato ribadito dalla legge n. 124 del 2007, che richiede, inoltre, quale corollario «l’obbligo di annotazione del segreto (ove possibile) sugli atti documenti o cose che ne sono oggetto»;

che, infine, il ricorrente ipotizza anche la violazione del principio di correttezza e lealtà, atteso che il potere di secretazione non sarebbe stato esercitato, come invece doveroso, «in modo chiaro, esplicito ed univoco», ciò che sarebbe confermato, innanzitutto, dalla circostanza che «tutti i giudici che si sono occupati del “caso Abu Omar” hanno avuto seri problemi nell’individuare i contorni del segreto di Stato ed i confini delle proprie attribuzioni»;

che, d’altra parte, tali incertezze neppure potrebbero ritenersi superate per effetto dell’affermazione del Presidente del Consiglio dei ministri secondo cui il fatto-reato non è segreto, mentre lo sono «i mezzi di prova (…) che hanno tratto ai rapporti fra Servizi italiani e stranieri», giacché essa «si risolve in una sorta di artificio retorico volto a mascherare, nella forma, l’effettiva portata della segretazione», la quale, «nella sostanza, diviene tanto ampia da comportare il rischio di uno svuotamento del potere/dovere del giudice di conoscere il reato nelle componenti oggettive e soggettive»;

che, difatti, l’affermazione del Presidente del Consiglio dei ministri equivarrebbe, secondo il ricorrente, a riconoscere che «di un reato è conoscibile e accertabile solo il mero fatto storico ma non le sue cause, non le condotte che lo hanno posto in essere, non le sue eventuali cause di giustificazione», lasciando così «ancora una volta il giudice in balia di interpretazioni soggettive e mutevoli, esponendolo al rischio di gravi responsabilità, in evidente contrasto con il principio di correttezza e lealtà»;

che con specifico riferimento, da ultimo, alla conferma del segreto opposto dal teste Murgolo il ricorrente evidenzia «un’ulteriore anomalia»;

che, infatti, a fronte di un interpello concernente «il ruolo eventualmente rivestito dall’imputato Mancini nel sequestro Abu Omar», il Presidente del Consiglio dei ministri, «muovendo da una “reinterpretazione”» dello stesso, ne avrebbe individuato l’oggetto – come conferma la motivazione incentrata sulla necessità di «preservare la credibilità del Servizio nell’ambito dei suoi rapporti internazionali con gli organismi collegati» – «in informazioni specificamente secretate (i rapporti CIA/SISMi)», con il che si sarebbe in sostanza elusa «la richiesta di conferma, in contrasto con il principio di correttezza e lealtà»;

che il ricorrente ha anche formulato la richiesta istruttoria (ai sensi dell’art. 13 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e dell’art. 12 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale) di acquisizione delle comunicazioni inviate dal Presidente del Consiglio dei ministri al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica («in assenza delle quali», si sottolinea sempre nel ricorso, «sarebbero sicuramente illegittime sia l’apposizione, sia la conferma del segreto»), nonché degli atti che appongono il segreto sia «sulle circolari e sugli ordini impartiti dal Generale Pollari tesi a vietare ai suoi sottoposti il ricorso a mezzi illeciti di contrasto del terrorismo internazionale e, in particolare, le extraordinary renditions», sia «sui comportamenti del dott. Mancini collegati al sequestro Abu Omar»;

che, in conclusione, il ricorrente ha chiesto a questa Corte di dichiarare «che non spetta al Presidente del Consiglio dei ministri secretare “qualsiasi rapporto fra i Servizi italiani e stranieri ancorché in qualche modo collegato o collegabile con il fatto storico meglio noto come sequestro Abu Omar”», né «precludere all’autorità giudiziaria ricorrente l’acquisizione e l’utilizzazione di tutti i mezzi di prova che “hanno tratto ai rapporti fra Servizi italiani e stranieri”», né, infine, «confermare il segreto di Stato su notizie già rivelate nel corso delle indagini preliminari», annullando, per l’effetto, gli atti di conferma, ai sensi dell’art. 202 cod. proc. pen., datati 15 novembre 2008 (USG/2.SP/556/50/347 e USG/2.SP/557/50/347) e, «ove occorra», la lettera del Presidente del Consiglio dei ministri datata 6 ottobre 2008 (N. 6000.1/42025/GAB).

Considerato che in questa fase la Corte è chiamata, a norma dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, a delibare, senza contraddittorio, se il ricorso sia ammissibile in quanto esista «la materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza», sussistendone i requisiti soggettivo ed oggettivo, fermo restando il potere della Corte, a seguito del giudizio, di pronunciarsi su ogni aspetto del conflitto, ivi compresa la sua ammissibilità;

che il Tribunale ordinario di Milano in composizione monocratica, investito del dibattimento relativo alla vicenda giudiziaria sopra riassunta, è legittimato a proporre il presente conflitto;

che la giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante nel riconoscere ai singoli organi giurisdizionali la legittimazione ad essere parti di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione e competenti a dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle relative funzioni, la volontà del potere cui appartengono (in questo senso e con specifico riferimento alla materia del segreto di Stato, da ultimo, le ordinanze n. 230 del 2008, n. 337, n. 125 e n. 124 del 2007);

che deve essere riconosciuta, altresì, la legittimazione a resistere nel conflitto del Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato, non solo in base a quanto previsto, dapprima, dalla legge 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato) e, poi, dalla legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), ma anche alla stregua delle norme costituzionali che ne definiscono le attribuzioni (in questo senso, da ultimo, le citate ordinanze n. 230 del 2008, n. 337, n. 125 e n. 124 del 2007);

che, quanto al profilo oggettivo del conflitto, deve rilevarsi che il ricorso è indirizzato a garanzia della sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali, lamentando il ricorrente la lesione di funzioni riconducibili agli artt. 101 e seguenti della Costituzione (così, da ultimo, e con riferimento alla stessa vicenda, l’ordinanza n. 337 del 2007);

 

che pertanto il conflitto promosso col presente ricorso deve ritenersi ammissibile, ai sensi dell’art. 37, quarto comma, della legge n. 87 del 1953.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservato ogni definitivo giudizio,

dichiara ammissibile, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Tribunale ordinario di Milano, Sezione IV penale, in composizione monocratica, nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, con l’atto indicato in epigrafe;

dispone:

a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione al ricorrente Tribunale ordinario di Milano, Sezione IV penale, in composizione monocratica, della presente ordinanza;

b) che, a cura del ricorrente, il ricorso e la presente ordinanza siano notificati al Presidente del Consiglio dei ministri entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati, con la prova dell’avvenuta notifica, presso la cancelleria della Corte entro il termine di venti giorni fissato dall’art. 26, comma 3, del testo delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale anteriore alla deliberazione del Presidente della Corte costituzionale del 7 ottobre 2008, testo applicabile, ratione temporis, al presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 dicembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 dicembre 2008.