Sentenza n. 338 del 2008

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SENTENZA N. 338

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK                                             Presidente

- Francesco          AMIRANTE                                       Giudice

- Ugo                   DE SIERVO                                            ”

- Paolo                 MADDALENA                                        ”

- Alfio                 FINOCCHIARO                                      ”

- Alfonso             QUARANTA                                           ”

- Franco               GALLO                                                   ”

- Luigi                 MAZZELLA                                            ”

- Gaetano             SILVESTRI                                             ”

- Maria Rita         SAULLE                                                 ”

- Giuseppe           TESAURO                                              ”

- Paolo Maria       NAPOLITANO                                       ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Roma con ordinanza del 26 novembre 2007, iscritta al n. 35 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2008.

         Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. − Con ordinanza depositata il 26 novembre 2007 il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato – in riferimento all’articolo 3, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede che i condannati per uno dei reati indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis della stessa legge possano essere ammessi al regime di semilibertà solo se abbiano espiato i due terzi della pena, anche se il residuo non eccede i tre anni.

Riferisce il rimettente di essere chiamato a decidere sull’istanza di affidamento in prova al servizio sociale, ai sensi dell’art. 47 della legge n. 354 del 1975, o, in subordine, di detenzione domiciliare, ai sensi dell’art. 47-ter della medesima legge, presentata il 20 luglio 2007 da un detenuto condannato alla pena di tre anni di reclusione per il reato di violenza sessuale su minore infraquattordicenne, previsto dagli artt. 609-bis e 609-ter, primo comma, numero 1), del codice penale. Il giudice a quo precisa che l’esecuzione della pena ha avuto inizio il 2 maggio 2006 e che la fine della stessa è fissata, allo stato, al 1° febbraio 2009, tenuto conto della liberazione anticipata già concessa.

Il Tribunale rimettente riferisce altresì di aver valutato, in precedenza, analoghe istanze proposte dal medesimo detenuto e di averle respinte, quanto all’affidamento in prova al servizio sociale, perché a fronte della gravità del fatto criminoso «era mancata una convincente revisione critica ed inoltre la personalità del condannato era connotata da immaturità caratteriale», e, quanto alla detenzione domiciliare, perché risultava carente il presupposto della infrabiennalità della pena inflitta.

Ciò posto, il giudice a quo evidenzia come la prosecuzione dell’osservazione penitenziaria abbia fatto registrare una evoluzione dell’atteggiamento del detenuto rispetto al fatto di reato, dall’iniziale «negazione dell’atto deviante» all’assunzione di responsabilità e di considerazione per la vittima, «ciò purtuttavia nella cornice di un quadro di personalità sostanzialmente inalterato, e bisognoso di ulteriori approfondimenti psicologici, anche diretti a saggiare la veridicità del suo nuovo sentire e l’assenza di finalità strumentali».

Il Tribunale di sorveglianza afferma, quindi, che i risultati dell’osservazione della personalità del detenuto non sarebbero tuttora «di pregnanza tale, da giustificare la concessione del beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale», e che neppure potrebbe trovare applicazione, nel caso di specie, la detenzione domiciliare, in quanto, anche a prescindere dai requisiti di ammissibilità, quest’ultima misura, avente carattere prevalentemente contenitivo, non sarebbe «significativamente in grado di assecondare, nel caso concreto, il processo di risocializzazione del condannato, che necessita di ulteriore lavoro psicologico e terapeutico e di prescrizioni mirate al reinserimento sociale».

Diversamente, a parere del giudice a quo, i progressi compiuti dal detenuto nel corso del trattamento risulterebbero pienamente coerenti con la sua ammissione al regime di semilibertà, data la disponibilità di un posto di lavoro (già ricoperto fino al momento dell’arresto), e considerata tra l’altro, alla luce dell’informativa resa dalla competente autorità di pubblica sicurezza, l’assenza di ragioni ostative consistenti nel collegamento del detenuto con elementi della criminalità organizzata. Quanto alla carenza di una domanda in tal senso formulata dall’interessato, il rimettente evidenzia che l’ammissione al regime di semilibertà può essere disposta in via officiosa, come affermato da una giurisprudenza consolidata, sulla base della previsione contenuta nell’art. 678, comma 1, del codice di procedura penale, oltre che del rapporto di continenza che sussiste tra il beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale e la semilibertà, tale per cui la domanda di ammissione alla prima misura comprenderebbe anche l’altra.

Tanto premesso, il giudice a quo rileva come la normativa vigente non consenta l’applicazione del regime di semilibertà, in quanto il delitto di violenza sessuale rientra, per effetto della modifica introdotta con l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario), nel catalogo previsto dall’art. 4-bis, comma 1, quarta proposizione, della legge n. 354 del 1975, ed è pertanto assoggettato ad un trattamento penitenziario aggravato.

Il rimettente ricorda in proposito che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, la materia dei benefici penitenziari è estranea alla disciplina della successione delle leggi nel tempo prevista dall’art. 2, quarto (già terzo) comma, cod. pen., e che tale assunto ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza costituzionale, con l’introduzione dell’unico temperamento rappresentato dal «divieto di regressione incolpevole, per effetto di normativa sopravvenuta, del trattamento penitenziario in atto», evenienza questa non ricorrente nella specie. Dunque, pur essendo sopravvenuta al fatto criminoso (per effetto in verità della legge 6 febbraio 2006, n. 38, recante «Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet», e non della legge n. 279 del 2002, come affermato dal rimettente), la preclusione concernente i reati di violenza sessuale sarebbe valevole anche nel caso all’esame del giudice a quo.

Il Tribunale osserva quindi che tale più gravoso trattamento penitenziario opera con modalità diverse a seconda che si tratti della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale o, invece, del regime di semilibertà. Per la prima delle misure indicate, l’aggravamento riguarda il profilo della pericolosità del condannato, e difatti l’affidamento in prova al servizio sociale può essere concesso – entro il limite ordinario di pena infratriennale, anche quale residuo di maggior pena – previo accertamento della insussistenza di elementi di collegamento con la criminalità organizzata, terroristica ed eversiva. Diversamente, in riferimento alla semilibertà, l’aggravamento incide sul profilo della pena, nel senso che in caso di condanna a sanzione detentiva superiore a sei mesi (ma non a tre anni), per uno dei reati previsti dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, la misura alternativa risulta concedibile soltanto dopo l’espiazione di due terzi della pena, e ciò anche quando il relativo residuo sia inferiore a tre anni.

Nel caso in esame, precisa il giudice a quo, l’ammissione del detenuto al regime di semilibertà è impedita dalla circostanza che il predetto, condannato alla pena di tre anni di reclusione, ha espiato un anno, nove mesi e diciotto giorni di detenzione, e dunque un periodo inferiore ai due terzi della pena inflitta.

Il rimettente richiama quindi la disciplina generale della semilibertà – applicabile ai reati non compresi nel catalogo di cui all’art. 4-bis citato – che prevede solo in caso di pene detentive inferiori a sei mesi la concedibilità della misura alternativa in ogni tempo (art. 50, comma 1), essendo invece richiesta, in caso di pene superiori a sei mesi, l’avvenuta espiazione di metà della pena inflitta (art. 50, comma 2, prima proposizione), salvo che la pena residua non ecceda i tre anni, e dunque si possa concedere l’affidamento in prova al servizio sociale in presenza dei relativi presupposti (art. 50, comma 2, ultima proposizione).

Il dubbio di costituzionalità, prospettato in riferimento all’art. 3 Cost., investe pertanto indi l’art. 50, comma 2, della legge n. 354 del 1975, come sostituito dall’art. 1 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui, per i reati previsti nel catalogo dell’art. 4-bis, in caso di condanna a pena infratriennale, subordina l’ammissione al regime di semilibertà alla previa espiazione dei due terzi della pena.

Il giudice a quo evidenzia come, pur dovendosi riconoscere la più ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti di diritto penitenziario, avuto riguardo in particolare allo scopo, al regime applicativo e ai presupposti delle singole misure alternative alla detenzione, tale discrezionalità incontri «il limite della non manifesta contraddittorietà sistematica della scelta adottata». Tale limite sarebbe travalicato dalla norma censurata, posto che la previsione in essa contenuta interrompe il rapporto di continenza tra l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale e quello della semilibertà, entrambi ispirati al sistema progressivo, imperniato sulla graduale attenuazione della detenzione in ragione del comportamento del detenuto ed in funzione preparatoria al suo ritorno alla libertà.

Il rimettente osserva che i due istituti posti a raffronto costituiscono «strumenti del medesimo disegno di trattamento individualizzato» finalizzato alla risocializzazione del reo, rappresentando tappe evolutive del medesimo percorso, come sarebbe confermato dall’art. 50, comma 1, della legge n. 354 del 1975, il quale prevede l’ammissione alla semilibertà del condannato a pena detentiva breve (infrasemestrale) ove lo stesso non sia affidato in prova al servizio sociale, e dal successivo comma 2 dell’art. 50, che, nel disciplinare i tempi di accesso alla semilibertà per i condannati a pene detentive superiori a sei mesi ma contenute entro i tre anni, fa riferimento ai casi in cui «mancano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale».

Dalla lettera della legge emergerebbe, insomma, un chiaro rapporto di continenza tra le due misure alternative, là dove «la semilibertà, misura più restrittiva e che richiede un grado di rieducazione meno elevato, ha ordinariamente requisiti di accesso non più gravosi rispetto all’affidamento in prova al servizio sociale, misura più ampia e che postula un grado di rieducazione maggiore», sicché l’accesso alla semilibertà, normalmente consentito dopo l’espiazione della metà di pena inflitta, sarebbe sempre ammesso in presenza di pene residue infratriennali, quando cioè, sussistendone gli altri presupposti, è consentita l’ammissione all’affidamento in prova.

L’effetto «distorsivo», indotto dalla norma censurata nel sistema delle misure alternative alla detenzione, consisterebbe nel fatto che essa, pur «mantenendo la possibilità per il condannato ex art. 4-bis della legge 354/75 di accedere all’affidamento secondo gli ordinari limiti di pena – preclude paradossalmente al medesimo di ottenere, in casi in cui l’affidamento è ammissibile e tuttavia non è maturata la quota/parte dei due terzi di pena, il beneficio più contenuto» della semilibertà.

La scelta legislativa confliggerebbe, pertanto, con il parametro della razionalità intrinseca, e il rilevato contrasto non sarebbe superabile in via interpretativa, in ragione della univocità del precetto che impone il limite della espiazione dei due terzi della pena inflitta per uno dei delitti previsti nel catalogo dell’art. 4-bis.

2. – Con atto depositato il 18 marzo 2008, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ed ha concluso per la declaratoria di inammissibilità o comunque di infondatezza della questione.

In via preliminare la difesa erariale osserva come i benefici penitenziari dell’affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà, pur risultando assimilabili in un unico genus, siano dotati di autonomia tale da giustificare il diverso regime applicativo.

Come le sanzioni penali, pur accomunate dall’afflittività, sono diversificate a seconda della gravità del fatto e della condizione soggettiva dell’autore, allo stesso modo le misure alternative, unificate dal punto di vista finalistico del reinserimento del condannato, si differenziano per funzione, scopi precipui e requisiti.

L’Avvocatura generale richiama l’orientamento consolidato della Corte di cassazione, secondo il quale «sono distinti e autonomi gli elementi su cui si fondano la domanda di affidamento in prova al servizio sociale e quella diretta ad ottenere la semilibertà» (è richiamata Cassazione penale, sentenza n. 32 del 1992).

È inoltre evidenziato come la diversità dei presupposti per l’ammissione alle misure alternative poste a raffronto sia stata riconosciuta anche dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 100 del 1997, nella quale si afferma che «se è vero che si è istituita una sorta di graduazione tra le due misure, considerando la semilibertà come una alternativa minore all’affidamento in prova […], ciò non toglie che la fisionomia dei due istituti sia rimasta ancorata ai presupposti e ai connotati propri di ciascuno di essi».

Di conseguenza, «l’affidamento in prova può essere concesso solo per pene non superiori a tre anni (anche se costituenti residuo di maggior pena parzialmente scontata), e presuppone una valutazione favorevole circa l’idoneità della misura a contribuire alla rieducazione del condannato, e a prevenire il pericolo che egli commetta nuovi reati. La semilibertà viceversa non è di per sé legata ad un massimo di pena da scontare, ma presuppone in generale l’esito positivo di quello che la legge indica come “trattamento” penitenziario del condannato, svoltosi per un periodo pari ad almeno metà della pena, ed una prognosi favorevole circa la possibilità di un suo graduale reinserimento nella società, attraverso le attività che egli può svolgere nelle ore di permanenza fuori dal carcere».

Secondo la difesa erariale, le indicate differenze varrebbero a giustificare un regime applicativo che, mentre ai fini dell’affidamento in prova può prescindere dalla preventiva espiazione di un periodo di restrizione carceraria del condannato, per la semilibertà presuppone tale preventiva espiazione, tranne che nell’ipotesi di condanna a pena non superiore a sei mesi. È vero, infatti, che la prima misura tende alla rieducazione del condannato e la seconda al suo progressivo reinserimento sociale.

In altri termini, secondo l’Avvocatura generale, non potendosi istituire un raffronto tra i due istituti, sarebbe evidente l’insussistenza del vizio di irragionevolezza della norma censurata.

La difesa dello Stato conclude evidenziando che l’odierna ordinanza di rimessione non presenta alcun elemento di novità rispetto al quadro normativo esaminato dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 100 del 1997, sicché la questione andrebbe risolta in modo analogo.

Considerato in diritto

1. − Il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato, in riferimento all’articolo 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede che i condannati per uno dei reati indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis della stessa legge possano essere ammessi al regime di semilibertà solo se abbiano espiato i due terzi della pena, anche quando il residuo non eccede i tre anni.

2. – La questione non è fondata.

2.1. – È utile descrivere la normativa vigente in tema di semilibertà, con specifico riferimento a quella parte che viene in rilievo ai fini della decisione della presente questione.

In via generale, tutti i condannati possono essere ammessi al regime di semilibertà, se hanno «dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale». Tuttavia, quando si tratta di condannati per reati previsti dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (tra i quali è oggi compreso quello di violenza sessuale su minore di anni quattordici, previsto dagli artt. 609-bis e 609-ter, primo comma, numero 1), del codice penale, per il quale è stato condannato il soggetto che richiede di essere ammesso al regime di semilibertà), e non si rientri nei casi di pene molto lievi disciplinati nel comma 1 dell’art. 50 della legge n. 354 del 1975, è necessario per la concessione del beneficio che l’interessato abbia espiato almeno due terzi della pena. I condannati per reati diversi da quelli inseriti nel catalogo dell’art. 4-bis devono invece avere espiato metà della pena (art. 50, comma 2, della legge n. 354 del 1975).

Se la pena detentiva inflitta non supera i tre anni, il condannato può essere affidato al servizio sociale fuori dell’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare (art. 47, comma 1, della legge n. 354 del 1975). Il provvedimento è adottato nei casi in cui si può ritenere che lo stesso, anche attraverso le opportune prescrizioni, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati (art. 47, comma 2, della medesima legge). Nella ricorrenza dei suddetti presupposti, l’affidamento in prova può essere concesso anche ai condannati per reati elencati nell’art. 4-bis della legge citata. Se detti presupposti invece mancano, il condannato per un reato diverso da quelli indicati nel comma 1 del citato art. 4-bis può essere ammesso al regime di semilibertà anche prima dell’espiazione di metà della pena (art. 50, comma 2, della legge n. 354 del 1975), mentre nell’ipotesi in cui il reato per cui vi è stata condanna appartenga all’elenco di cui all’art. 4-bis sopra menzionato, resta comunque condizione necessaria l’espiazione di due terzi della pena.

2.2. – Il rimettente afferma che la norma censurata, a parità di pena da scontare, consente ai condannati per reati compresi nell’elenco dell’art. 4-bis di accedere al regime più favorevole dell’affidamento in prova, ma non a quello, meno favorevole, della semilibertà.

Il punto centrale dell’argomentazione del giudice a quo è costituito dalla individuazione di una sorta di rapporto di continenza tra affidamento in prova e semilibertà, con la conseguenza che sarebbe irragionevole consentire allo stesso soggetto l’accesso al regime più favorevole e precludere, invece, la concessione del beneficio meno favorevole, da ritenersi incluso, come parte minore, nel primo.

Su questa base, il rimettente chiede alla Corte costituzionale di rimuovere, relativamente alla misura della semilibertà, la condizione della espiazione necessaria dei due terzi della pena per i condannati per reati di cui al citato art. 4-bis, parificandoli, a questo fine, ai condannati per reati diversi.

3. – Questa Corte ha già avuto modo di rilevare che il regime dell’affidamento in prova e della semilibertà non è omogeneo a causa della «sostanziale diversità di presupposti delle due misure» (sentenza n. 100 del 1997). Occorre precisare che, dopo la pubblicazione della suddetta pronuncia, il quadro normativo è parzialmente mutato, nel senso che il presupposto dell’esito positivo del «trattamento» penitenziario, valorizzato nella sentenza citata non è più indispensabile nei casi previsti dall’art. 47 (art. 5 della legge 27 maggio 1998, n. 165, recante «Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975 n. 354 e successive modificazioni»).

Il venir meno di tale presupposto non ha avuto tuttavia l’effetto di una completa parificazione dei due istituti. Difatti, per la concessione dell’affidamento in prova è necessaria una prognosi di rieducazione del reo, opportunamente assistito, e di prevedibile assenza del rischio di recidive. In altre parole, il soggetto che può essere ammesso a godere di tale regime presenta, al momento dell’osservazione, una personalità tale da indurre alla ragionevole previsione che lo stesso non commetterà altri reati. Se questa è la valutazione effettuata sulla residua pericolosità del condannato, nel caso concreto ed alla luce di tutti i parametri indicati dalla legge, si giustifica la parificazione tra coloro che hanno commesso reati in astratto valutati con particolare severità, come quelli previsti dall’art. 4-bis, e tutti gli altri condannati, sempre che la pena da espiare non superi i tre anni.

Al contrario, nell’ipotesi in cui il condannato non presenti le caratteristiche personali e comportamentali sufficienti a far ritenere che l’affidamento in prova possa servire, nell’attualità, alla sua rieducazione, e non sia conseguentemente escluso il rischio di recidive, riacquista senso e valore la ratio che ha ispirato il legislatore nel prevedere una condizione più severa per accedere alla semilibertà. Una volta accertato che il richiedente presenta ancora un certo grado di pericolosità, tale da non consentire una valutazione favorevole circa il rischio di recidiva, non è manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di pretendere una congrua espiazione della pena inflitta, prima di far acquistare allo stesso una condizione che, comunque, implica un atto di fiducia dello Stato nei confronti di chi si sia reso responsabile di reati di particolare gravità. La diversa disciplina, che aggrava la posizione dei condannati per i reati inseriti nel catalogo dell’art. 4-bis rispetto agli altri, quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova, trova una doppia giustificazione, frutto di fattori convergenti: in positivo, nella maggiore gravità dei delitti indicati nella norma; in negativo, nell’impossibilità di una ragionevole previsione che il soggetto non commetterà altri reati.

Sulla base delle precedenti considerazioni, questa Corte non ravvisa la violazione dell’art. 3 Cost., nei termini prospettati dal giudice rimettente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Roma con l’ordinanza citata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 ottobre 2008.