SENTENZA N. 240
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), promosso con ordinanza del 7 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Firenze nel procedimento civile vertente tra Gorio Giovanni Battista e il Comune di Castelnuovo Berardenga iscritta al n. 249 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visti gli atti di costituzione di Gorio Giovanni Battista, del Comune di Castelnuovo Berardenga nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese;
uditi gli avvocati Clara Mecacci per Gorio Giovanni Battista, Maurizio Brizzolari per il Comune di Castelnuovo Berardenga e l’avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – La Corte d’appello di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dell’articolo 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
La disposizione stabilisce, tra l’altro, che «non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale […] colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo, rispettivamente, con il comune o la provincia».
Il Collegio rimettente dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui «non estende il suo effetto alle persone titolari della rappresentanza organica di soggetti che si trovino nella stessa situazione di lite pendente già prevista dalla norma stessa».
1.2. – La Corte d’appello di Firenze riferisce che dinanzi ad essa pende giudizio di appello avverso la sentenza del 26 luglio 2005, con la quale il Tribunale di Siena ha rigettato la domanda volta all’annullamento della delibera del Consiglio comunale di Castelnuovo Berardenga adottata in data 29.4.2005, con cui il ricorrente, già consigliere comunale, è stato dichiarato decaduto dall’ufficio, in base alla disposizione impugnata, per aver promosso, non in proprio ma in qualità di amministratore delegato di due distinte società, un ricorso al Tribunale amministrativo regionale volto all’annullamento di una delibera consiliare. Secondo quanto riferisce il Collegio rimettente, il giudice di primo grado ha ritenuto di interpretare estensivamente la causa di incompatibilità prevista dalla norma impugnata: essa riguarderebbe non solo, come emerge dal tenore letterale della disposizione, chi abbia personalmente una lite pendente con l’ente comunale o provinciale, ma anche chi ricopra cariche rappresentative di soggetti che abbiano, a loro volta, una lite pendente con gli stessi enti.
In punto di rilevanza, il Collegio rimettente afferma che solo l’accoglimento, da parte della Corte costituzionale, della questione di legittimità costituzionale prospettata potrebbe impedire l’accoglimento dell’appello, che, altrimenti, dovrebbe invece ritenersi fondato.
La Corte d’appello di Firenze non ritiene, infatti, di poter aderire all’interpretazione estensiva fatta propria dal giudice di primo grado, neppure utilizzando, a tal fine, il canone della interpretazione adeguatrice, sia perché le norme che restringono il diritto di elettorato passivo sono di stretta interpretazione, sia in base ad una interpretazione sistematica dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000, che, per individuare i destinatari delle ipotesi di incompatibilità previste al numero 2), si riferisce espressamente ai soggetti titolari di poteri di rappresentanza («colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti»), mentre per identificare i destinatari della causa di incompatibilità prevista al numero 4) si limita ad indicare, senza alcun riferimento a soggetti titolari di poteri di rappresentanza, «colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile o amministrativo».
In punto di non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente ravvisa, in relazione alle finalità della disciplina giuridica del conflitto di interessi, una equivalenza, da un lato, fra la situazione della persona fisica direttamente titolare dell’interesse in conflitto con quello dell’ente pubblico, e, dall’altro, la situazione della persona fisica che sia rappresentante legale del soggetto titolare dell’interesse in conflitto. Tale equivalenza renderebbe illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., una disciplina diversificata delle stesse, qual è quella attualmente dettata dalla disposizione censurata.
Inoltre, secondo la Corte rimettente, l’estensione della regola di incompatibilità alle persone titolari della rappresentanza organica dei soggetti che si trovino nella situazione di lite pendente con l’ente locale sarebbe imposta dall’art. 97 Cost., che richiederebbe al legislatore di impedire «le situazioni più evidenti e indiscutibili di conflitto di interessi».
2. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità e comunque l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata.
La difesa erariale premette che la disposizione censurata è norma di natura eccezionale considerato che pone una limitazione al diritto di elettorato passivo sancito dall’art. 51 Cost.
Nel merito, richiama il consolidato orientamento della Corte di cassazione in ordine alla «nozione di “parte in giudizio” in senso tecnico riferita, cioè, a quel soggetto il quale a seguito della proposizione di domanda giudiziale e della costituzione in giudizio diventa titolare di una serie di poteri processuali finalizzati a dare impulso al processo» (Cass. Civ., sez. I, 19 maggio 2001, 6880). Alla luce di tale orientamento, la qualità di parte in senso tecnico è riferita alla società medesima e non al suo rappresentante legale e, ad avviso della difesa erariale, la differente disciplina riservata dalla norma al caso in cui il soggetto eletto alla carica di consigliere comunale rivesta la qualità di rappresentante legale di una società che sia parte di un giudizio con il Comune rispetto al caso in cui l’eletto alla carica di consigliere comunale abbia personalmente una causa con il Comune, non appare lesiva né del principio di ragionevolezza né dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 Cost.) Difatti, da un lato, il potere di rappresentanza organica di un ente collettivo non necessariamente si accompagna alla titolarità del potere di formare la volontà dell’ente; dall’altro, i vantaggi derivanti dall’esito della lite in corso ricadono direttamente nella sfera giuridica del soggetto rappresentato.
3. – Nel giudizio di costituzionalità si sono costituite le parti del giudizio principale.
3.1. – Il Comune di Castelnuovo Berardenga sostiene la fondatezza della questione di legittimità costituzionale, nei termini prospettati dal giudice a quo.
3.2. – L’appellante conclude invece nel senso della inammissibilità e infondatezza della questione stessa.
In primo luogo, la questione proposta dal giudice a quo sarebbe – a suo avviso – inammissibile, in quanto tesa a sollecitare una pronuncia additiva della Corte costituzionale in una materia, quale quella della disciplina delle cause di incompatibilità, che, anche in considerazione della natura politica dei diritti coinvolti, rientra nella «discrezionalità del legislatore».
Nel merito, la difesa della parte richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. Civ., sez. I, 29 maggio 1972, n. 1685; Cass., sez. lav., 29.10.2003, n. 16245), secondo cui la causa di incompatibilità per lite pendente deve riferirsi ad un rapporto litigioso del quale sia parte l’eletto in persona propria, non potendo invece riguardare gli amministratori di una persona giuridica allorché sia quest’ultima, quale soggetto giuridico distinto ed autonomo dalle persone fisiche dei suoi amministratori, ad avere lite pendente con il Comune.
Considerato in diritto
1. – La Corte d’appello di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dell’art. 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nella parte in cui «non estende il suo effetto alle persone titolari della rappresentanza organica di soggetti che si trovino nella stessa situazione di lite pendente prevista dalla norma stessa».
2. – La questione non è ammissibile.
Va premesso che la legislazione in materia di incompatibilità degli amministratori locali, nell’ipotesi di lite pendente, ha progressivamente circoscritto l’ambito di applicazione dell’istituto e attenuato i suoi effetti limitativi in relazione al diritto di elettorato passivo.
Il legislatore ha dapprima trasformato la lite pendente da causa di ineleggibilità a causa di incompatibilità (art. 15 del d.P.R. 5 aprile 1951, n. 203, recante «Testo unico delle leggi per la composizione e l’elezione degli organi delle amministrazioni comunali», sostituito dall’art. 3, primo comma, numero 4), della legge 23 aprile 1981, n. 154, recante «Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al servizio sanitario nazionale»). Successivamente, per evitare applicazioni distorsive dell’istituto, ha escluso dal suo ambito diverse fattispecie: la lite per fatto connesso con l’esercizio del mandato; la lite in materia tributaria; la lite promossa nell’esercizio dell’azione popolare; la semplice costituzione di parte civile nel processo penale; la lite promossa in esito a sentenza di condanna, o ad essa conseguente, in mancanza di affermazione di responsabilità con sentenza passata in giudicato (art. 3ter del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 13, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità degli enti locali»).
In questo quadro, il giudice rimettente chiede alla Corte costituzionale una pronuncia additiva che, in senso inverso rispetto all’evoluzione normativa descritta, abbia l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione dell’istituto dell’incompatibilità per lite pendente, estendendolo all’ipotesi in cui l’eletto sia titolare della rappresentanza organica di un soggetto avente lite con l’ente locale.
Questa Corte ha più volte affermato che la questione di legittimità costituzionale è inammissibile quando il rimettente solleciti un intervento additivo che non sia costituzionalmente obbligato (ordinanze n. 333 e 185 del 2007). Nel caso in esame, la soluzione sollecitata dal rimettente non può ritenersi imposta dalle norme costituzionali invocate. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, proprio con riferimento all’ambito di applicazione dell’incompatibilità per lite pendente, «spetta al legislatore, nel ragionevole esercizio della sua discrezionalità, attuare l’art. 51 della Costituzione, stabilendo il regime delle cause di ineleggibilità e incompatibilità» (sentenza n. 160 del 1997). E’ vero che l’art. 97 Cost. impone al legislatore di regolare, come afferma il rimettente, le «situazioni più evidenti ed indiscutibili di conflitto di interessi». Ma ciò non significa che il legislatore debba risolvere ogni situazione di conflitto di interessi con il principio della incompatibilità. Nel bilanciamento fra i principi previsti dagli artt. 51 e 97 della Costituzione, il compito del Parlamento è quello di valutare in modo ragionevole le diverse ipotesi di conflitto e, in relazione alla gravità di ciascuna, graduare il trattamento normativo più appropriato e proporzionato. Questo può essere di volta in volta rappresentato non solo dalla ineleggibilità o dalla incompatibilità, ma anche dall’obbligo di astenersi o di dichiarare la situazione di conflitto.
La previsione di una incompatibilità non costituisce, quindi, l’unica soluzione a disposizione del legislatore per porre rimedio alla specifica situazione di conflitto di interessi dell’amministratore titolare della rappresentanza organica di un soggetto avente lite pendente con l’ente locale. Né a diversa conclusione potrebbe pervenirsi sulla base di una comparazione con altre ipotesi di conflitto richiamate dalla Corte d’appello di Firenze, che presentano rilevanti elementi di diversità rispetto a quella cui il rimettente chiede di estendere il regime di incompatibilità (art. 63, comma 1, del decreto legislativo n. 267 del 2000, art. 2 della legge 20 luglio 2004, n. 215, recante «Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interesse» e art. 1394 del codice civile).
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), sollevata, con riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Firenze con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Sabino CASSESE, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.