SENTENZA N. 181
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Paolo MADDALENA "
- Franco GALLO "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promosso con ordinanza del 13 luglio 2007 dalla Corte di appello di Venezia sul reclamo proposto da P. A., iscritta al n. 760 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 13 luglio 2007 la Cortedi appello di Venezia ha sollevato, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80).
1.1.– Riferisce la Corte rimettente di essere chiamata a giudicare in merito al reclamo interposto da A.P. avverso il decreto col quale il Tribunale ordinario di Vicenza ha dichiarato inammissibile la istanza dalla medesima presentata al fine di essere ammessa al beneficio della esdebitazione. Tale decreto interpretava l’art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006 nel senso che l’art. 142 della legge fallimentare, il quale, appunto, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della esdebitazione, non sarebbe applicabile in caso di procedura fallimentare che, pur conclusa nella vigenza della riforma, sia sorta anteriormente a questa.
La Corte rimettente ritiene, invece, che, stante la natura sostanziale della predetta previsione legislativa, l’istituto in questione sia applicabile alle procedure che, anche se sorte anteriormente, siano dichiarate chiuse nella vigenza della normativa riformata.
1.2.– Ciò premesso il giudice a quo, brevemente illustrati i profili della nuova figura giuridica, preordinata alla liberazione del fallito persona fisica dai debiti fallimentari residuati parzialmente insoddisfatti alla chiusura del fallimento, potendo, peraltro, essa spiegare effetti, sia pure minori, anche nei confronti dei creditori anteriori al fallimento che non abbiano partecipato alla procedura, osserva che, ai sensi dell’art. 143 della legge fallimentare, la esdebitazione può essere pronunciata o contestualmente alla chiusura del fallimento, ovvero, con separato provvedimento – emesso previa verifica delle condizioni previste dall’art. 142 della legge fallimentare e «sentito il curatore ed il comitato dei creditori» – ove il debitore abbia, a tale scopo, presentato ricorso entro un anno dalla chiusura del fallimento.
Rileva a questo punto il rimettente come la previsione normativa, la quale non contempla come necessaria la partecipazione al predetto procedimento dei creditori concorsuali, mentre non creerebbe problemi, a suo avviso, nel caso di esdebitazione pronunziata contestualmente alla chiusura del fallimento, essendo in tal caso il provvedimento emesso a conclusione di una procedura alla quale i creditori hanno partecipato con potere di interlocuzione, sarebbe, viceversa, pregiudizievole del diritto dei medesimi creditori se pronunziata successivamente alla chiusura del fallimento, su istanza del debitore; ciò in quanto non è previsto alcuno strumento idoneo a informare i creditori concorsuali dell’inizio di un procedimento destinato, in caso di accoglimento dell’istanza, a produrre effetti sostanziali nei loro confronti.
Ritiene, pertanto, il rimettente che, in relazione alla non necessarietà della partecipazione al procedimento di esdebitazione dei creditori concorsuali o, quantomeno, alla mancata previsione della loro messa a conoscenza, con idoneo mezzo, dell’instaurazione del procedimento, sì da consentire loro la partecipazione ad esso, si pongano dubbi sulla compatibilità costituzionale dell’art. 143 della legge fallimentare con il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, presidiato dall’art. 24 della Costituzione, in quanto non è garantita al titolare del diritto di credito, inciso dal provvedimento che viene richiesto dal debitore, la possibilità di partecipare al giudizio, con facoltà di interlocuzione.
Né il vulnus è eliso dalla attribuzione riservata ai creditori insoddisfatti della facoltà di interporre reclamo avverso il provvedimento di esdebitazione. Infatti, il rimettente osserva che – superate «le pur legittime riserve sia sulla doverosità, per l’ipotesi di procedimento instaurato su istanza del debitore successivamente alla chiusura del fallimento, degli strumenti predisposti dalla legge per rendere conoscibile il decreto di chiusura del fallimento [recte: il decreto di accoglimento della domanda di esdebitazione], che dell’idoneità degli stessi ad assicurare un’utile (considerati i ristrettissimi termini concessi per l’impugnazione) conoscenza del provvedimento, rimane comunque il fatto che la piena esplicazione del diritto di difesa dei creditori è preclusa per il procedimento di primo grado».
2.– E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’inammissibilità o la infondatezza della questione.
2.1.– Preliminarmente la difesa erariale ritiene che la questione non sia rilevante nel giudizio a quo in quanto, non risultando che ci sia stata alcuna richiesta di intervento di creditori ammessi al passivo o, comunque, non risultando eccezioni da parte di costoro in ordine alla presunta lesione del loro diritto di difesa, il rimettente non è chiamato a «decidere in ordine alle questioni rispetto alle quali ha sospettato di illegittimità costituzionale la norma censurata». Da ciò deriva che la questione sarebbe inammissibile.
Essa sarebbe, peraltro, anche infondata nel merito. L’Avvocatura osserva che, in primo luogo, il rimettente non avrebbe considerato l’esistenza o meno di un diritto vivente il quale consenta, o vieti, l’intervento del terzo nel procedimento di esdebitazione, intervento che, ritiene sempre l’Avvocatura, involgendo la tutela di un diritto soggettivo, se ci fosse, sarebbe ammissibile.
Ma dalla detta tutela non può farsi derivare la necessarietà della partecipazione dei creditori al procedimento, essendo sufficiente, per il rispetto dell’art. 24 della Costituzione, che sia attribuita loro la facoltà di intervento.
Neppure significativo sarebbe il profilo relativo alla assenza di forme di pubblicità della pendenza del procedimento di esdebitazione; infatti, posto che il procedimento deve essere introdotto presso una sede specifica ed entro ben precisi limiti temporali, non sarebbe eccessivamente gravoso l’onere gravante sui creditori non integralmente soddisfatti di verificare l’eventuale presentazione di una istanza di esdebitazione da parte del debitore. In tali casi, utilizzando la normale diligenza, il creditore, se l’istanza risultasse presentata, sarebbe in grado di intervenire in giudizio e tutelare il suo diritto.
Considerato in diritto
1.– La Cortedi appello di Venezia dubita, con riferimento all’art. 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui esso, in caso di procedimento di esdebitazione attivato ad istanza del debitore nell’anno successivo al decreto di chiusura del fallimento, non preveda, secondo quanto è riportato testualmente nella ordinanza di rimessione, se non la necessità «della partecipazione dei creditori concorsuali al procedimento di liberazione dei debiti, quantomeno [… la] messa a conoscenza degli stessi, con idoneo mezzo, dell’instaurazione del procedimento».
Tale mancata previsione, ad avviso del rimettente, comporta una lesione del diritto di difesa giudiziale, costituzionalmente tutelato, non tanto poiché non è previsto che i creditori concorsuali, non integralmente soddisfatti in sede fallimentare, debbano necessariamente partecipare al procedimento di esdebitazione, quanto perché, a causa della mancata tempestiva informazione ai medesimi della pendenza della procedura, non sarebbe consentito a questi di tutelare in giudizio il loro diritto alla esigibilità del residuo credito vantato.
2.– Preliminarmente, va disattesa la eccezione di inammissibilità dedotta dalla intervenuta difesa pubblica.
2.1.– Essa è argomentata sulla base della circostanza che non vi siano state richieste di intervento nella procedura di esdebitazione de qua agitur da parte di creditori ammessi al passivo e non integralmente soddisfatti, ovvero che non siano state sollevate esplicite eccezioni da parte di costoro relativamente alla lesione del loro diritto di difesa derivante dalla assenza di forme di pubblicità che rendessero loro nota la pendenza della procedura.
Da ciò l’interveniente difesa farebbe derivare la irrilevanza nel giudizio a quo della sollevata questione di legittimità costituzionale, non dovendo il rimettente applicare la norma nella parte censurata.
2.2.– La eccezione è priva di pregio: in realtà, il rimettente, dubitando della legittimità costituzionale della norma censurata proprio nella parte in cui non prevede che i creditori concorsuali non integralmente soddisfatti in sede fallimentare siano informati della intervenuta pendenza della procedura di esdebitazione, volta alla dichiarazione di inesigibilità della parte di credito rimasta insoluta all’esito della ripartizione dell’attivo fallimentare, dà per presupposto che tali creditori, in quanto ignari di tale pendenza, non abbiano partecipato alla procedura stessa. Diversamente da quanto ritenuto dalla Avvocatura dello Stato, l’eventuale intervento dei creditori nella procedura in discorso, lungi dal fondare la rilevanza della presente questione di legittimità costituzionale, viceversa la escluderebbe, non emergendo da quella fattispecie concreta, diversa dall’ipotesi esaminata dal giudice a quo, una reale violazione del diritto di difesa.
3.– Nel merito, la questione è parzialmente fondata.
3.1.– Giova premettere che attraverso l’istituto della esdebitazione, del tutto nuovo nel nostro ordinamento, il legislatore ha inteso dettare una disciplina applicabile, successivamente alla chiusura del fallimento, alle eventuali parti di debito che, all’esito della procedura concorsuale, a causa dell’incompleto adempimento delle obbligazioni del fallito, continuino a gravare su di lui.
Ricorrendo determinate condizioni – che non essendo oggetto di alcuna contestazione da parte del rimettente non si ritiene di dover esaminare – ed avendo il debitore presentato al riguardo ricorso al tribunale competente per il fallimento (ricorso che può essere introdotto in pendenza della procedura concorsuale ovvero entro l’anno successivo alla pubblicazione del decreto di chiusura del fallimento), il tribunale medesimo, sentito il curatore del fallimento e il comitato dei creditori, secondo la vigente previsione dell’art. 143 della legge fallimentare, è chiamato a dichiarare inesigibili nei confronti del ricorrente i residui debiti concorsuali.
Il tenore letterale della disposizione da ultimo citata non fa sorgere dubbi che l’effetto della esdebitazione sia quello di escludere la possibilità per i creditori concorsuali rimasti solo parzialmente soddisfatti di pretendere, dopo la chiusura del fallimento, il pagamento del loro residuo credito da parte del «debitore già dichiarato fallito».
Evidente è, pertanto, l’effetto pregiudizievole che, sotto l’aspetto sostanziale, l’applicazione dell’istituto ha sulla posizione soggettiva dei creditori concorsuali non integralmente soddisfatti.
Il rimettente lamenta che, nell’ipotesi in cui il ricorso sia presentato nell’anno successivo alla chiusura del fallimento, tale effetto negativo possa determinarsi anche in assenza di qualsivoglia, sia pur potenziale, coinvolgimento dei soggetti incisi da tale decisione (cioè i creditori) nella procedura giurisdizionale volta alla dichiarazione di esdebitazione.
Il legislatore della riforma del diritto fallimentare, nel disciplinare, al censurato nuovo art. 143 della legge fallimentare, la struttura del procedimento di esdebitazione, non ha infatti previsto che il ricorso introduttivo del giudizio debba essere portato a conoscenza dei creditori concorsuali non integralmente soddisfatti, onde consentire loro, se credono, di intervenire nel giudizio stesso al fine di tutelare, avversando l’istanza di esdebitazione, la loro posizione.
3.2.– Tale omissione, per ciò che riguarda i creditori ammessi al passivo, che hanno cioè manifestato un interesse a partecipare alla procedura concorsuale ritenuto meritevole di tutela da parte degli Organi preposti al suo corretto andamento, e di cui sono, quindi, note le generalità e il domicilio, si pone in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
Più volte, infatti, questa Corte ha affermato che la legittimità costituzionale di un procedimento avente natura giurisdizionale, quale certamente è quello relativo alla esdebitazione, si misura, fra l’altro, sull’indefettibile rispetto delle garanzie minime del contraddittorio, la prima e fondamentale delle quali consiste nella necessità che tanto l’attore quanto il contraddittore partecipino o siano messi in condizione di partecipare al procedimento (si veda in modo specifico l’ordinanza n. 183 del 1999).
La possibilità di tale partecipazione è, in linea generale, garantita, riguardo al contraddittore, attraverso forme di pubblicità dell’atto col quale il procedimento stesso viene introdotto; forme di pubblicità che, ogniqualvolta ciò sia possibile, sia per la identificabilità dei possibili contraddittori che per il loro numero ragionevolmente contenuto, si ritengono idonee allo scopo ove esse siano portate direttamente a conoscenza di ogni singolo contraddittore, o quanto meno siano portate nella sua sfera di conoscibilità.
Di tutta evidenza è che la disciplina censurata non prevede alcun adempimento volto ad assicurare, attraverso la conoscenza, ovvero la conoscibilità, della pendenza della procedura, detta partecipazione, ponendosi in tal modo in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
3.3.– Né tale omissione può considerarsi giustificata – rientrando la scelta di essa nella sfera di discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali – in ragione delle pur presenti esigenze di celerità e speditezza che, sotto più profili, caratterizzano le procedure concorsuali. Al riguardo è sufficiente osservare che l’ipotesi normativa oggetto di esame da parte di questa Corte riguarda espressamente fattispecie nelle quali la procedura concorsuale già si è esaurita con la dichiarazione di chiusura del fallimento, sicché sarebbe il frutto di una scelta manifestamente arbitraria far perdurare oltre misura gli effetti delle ricordate esigenze.
Né può convenirsi con la difesa pubblica nella affermazione che, stante il relativamente breve termine – si tratta di un anno dalla chiusura del fallimento – entro il quale può essere presentata dal debitore già fallito la istanza di esdebitazione, non vi è una reale lesione del diritto di difesa dei creditori di costui, potendo i medesimi, utilizzando l’ordinaria diligenza e tramite periodici accessi agli uffici giudiziari ove il ricorso dovrebbe essere presentato, avere contezza della pendenza o meno della procedura.
Un siffatto onere di informazione, infatti, travalica ampiamente i margini della diligenza ordinariamente esigibile, solo che si consideri la possibilità, che – attesa l’ampia platea del “ceto creditorio” – non è infrequente che, nei fallimenti, la sede di taluno dei creditori fallimentari non coincida con la sede dell’organo giudiziario, corrispondente a quella ove si è svolta la procedura concorsuale, competente per la esdebitazione; situazione questa che imporrebbe, in maniera ingiustificatamente vessatoria, periodici accessi del creditore del fallito in una sede giudiziaria eventualmente estranea a quella di ordinaria pertinenza.
3.4.– Non può, altresì, ritenersi soddisfacente, ai fini della tutela costituzionale del diritto di difesa, il fatto che l’ultimo comma dell’art. 143 della legge fallimentare preveda la possibilità per i creditori non integralmente soddisfatti di presentare reclamo, ai sensi dell’art. 26 della medesima legge fallimentare, avverso il decreto col quale è stata disposta la esdebitazione. Infatti, a prescindere sia dai brevissimi termini normativi entro i quali essa è legittimamente esercitabile sia dalla problematica compatibilità costituzionale di una forma di tutela giurisdizionale di tipo esclusivamente impugnatorio (in cui, cioè, l’onere probatorio graverebbe sul reclamante) – e non già, come altrove, oppositorio – tale facoltà può essere resa concretamente possibile solo nell’ipotesi in cui coloro che hanno interesse a farne uso siano a conoscenza della esistenza di un provvedimento soggetto a reclamo; ipotesi questa che, stante la mancata previsione della informazione relativa alla instaurazione del procedimento, non trova nei fatti un adeguato fondamento.
4.– Va, a questo punto, considerato che il riferimento, contenuto nel già menzionato ultimo comma dell’art. 143 della legge fallimentare, al reclamo – strumento tipico delle procedure svolte secondo il rito camerale – quale mezzo di reazione avverso il provvedimento di esdebitazione, conduce alla conclusione che è questo il modello attraverso il quale si svolge il relativo procedimento. Applicando a tale modello la specifica disciplina dettata dal citato art. 143 della legge fallimentare, che prevede la formalità istruttoria della audizione sia del curatore del fallimento che del comitato dei creditori (organi questi, peraltro, ormai cessati a seguito della chiusura del fallimento), deriva che debba essere dal giudice fissata almeno un’udienza nella quale svolgere siffatta attività.
L’esame della disciplina delle procedure camerali consente dunque di ravvisare, come necessario strumento di pubblicità della pendenza della procedura nei confronti dei controinteressati, la notificazione ad essi del ricorso introduttivo e del pedissequo decreto col quale l’organo giudiziario fissa l’udienza in camera di consiglio per la discussione del ricorso stesso.
Tenuto conto del petitum contenuto nella ordinanza di rimessione della Corte di appello di Venezia, relativo alla ipotesi di procedimento di esdebitazione introdotto con ricorso entro l’anno dall’avvenuta dichiarazione di chiusura del fallimento, deve, pertanto, conformemente al descritto modello procedimentale, affermarsi la illegittimità costituzionale dell’art. 143 della legge fallimentare limitatamente alla parte in cui non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile (ivi compresa, ricorrendone i requisiti, anche quella di cui all’art. 150 cod. proc. civ.), ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore, già dichiarato fallito, chiede, nell’anno successivo alla dichiarazione di chiusura del fallimento, di essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), limitatamente alla parte in cui esso, in caso di procedimento di esdebitazione attivato, ad istanza del debitore già dichiarato fallito, nell’anno successivo al decreto di chiusura del fallimento, non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile, ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore chiede di essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.