SENTENZA N. 53
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 616, ultimo periodo, del codice di procedura civile, come sostituito dall’art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52 (Riforma delle esecuzioni mobiliari), promossi dalla Corte d’appello di Salerno, nei procedimenti civili vertenti tra R. S. e la Banca della Campania e tra G. S. e E. I., con ordinanze del 18 ottobre 2006 e del 25 gennaio 2007 rispettivamente iscritte ai nn. 512 e 610 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27 e n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.
Ritenuto in fatto
1.— La Corte d’appello di Salerno, nel corso di un giudizio di appello (introdotto con atto notificato il 30 maggio 2006) avverso una sentenza resa su un’opposizione all’esecuzione (pubblicata il 30 maggio 2005), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dell’art. 616, ultimo periodo, del codice di procedura civile (r. o. n. 512 del 2007), come sostituito dall’art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52 (Riforma delle esecuzioni mobiliari).
La norma è censurata nella parte in cui, a seguito della citata novella (entrata in vigore il 1° marzo 2006), ha soppresso l’appellabiltà della sentenza che definisce l’opposizione all’esecuzione.
Quanto alla rilevanza, il remittente afferma l’applicabilità di tale norma nel giudizio a quo (con conseguente inammissibilità dell’appello) sulla base di una ricognizione dei principi generali del processo, in difetto di una normativa transitoria (quale invece è stata dettata per i precedenti interventi legislativi di cui alle leggi 14 maggio 2005, n. 80, e 28 dicembre 2005, n. 263). In particolare, la Corte d’appello fa applicazione della regola tempus regit actum, rilevandone il carattere talmente generale da essere derogabile soltanto per le questioni di giurisdizione e di competenza ai sensi dell’art. 5 del codice di rito civile, con la conseguenza della assoluta eccezionalità della cosiddetta perpetuatio iurisdictionis e dell’impossibilità di una applicazione analogica della normativa che la prevede. Secondo il giudice a quo, va escluso che una sentenza emessa prima dell’entrata in vigore della norma (nel caso di specie, il nuovo testo dell’art. 616 cod. proc. civ.) che ne sopprime la appellabilità abbia come effetto il mantenimento del regime delle sue impugnazioni.
Un giudizio di appello ha, secondo il remittente, quale suo presupposto processuale specifico, la vigenza di una norma che l’appello stesso consenta: ne consegue che è al momento in cui l’appello è proposto che va verificato se esso sia previsto e, quindi, ammissibile.
Nella specie, l’appello, proposto con atto di citazione notificato il 30 maggio 2006, andrebbe dichiarato inammissibile per l’immediata applicabilità della norma denunciata, ma proprio una tale interpretazione di quest’ultima rende, a parere della Corte remittente, immediatamente rilevante la questione di legittimità costituzionale sollevata.
Nel merito, poi, il giudice a quo osserva che, con la soppressione di un grado di giudizio di merito e l’equiparazione delle opposizioni all’esecuzione a quelle agli atti esecutivi, nonostante l’ontologica diversità dei presupposti e degli oggetti delle prime rispetto alle seconde, risulta sensibilmente limitata la tutela del debitore.
Pur premettendo che la questione non è posta in riferimento alla pretesa di un doppio grado di giurisdizione di merito (principio non assistito da copertura costituzionale), «ma in relazione al rapporto tra la soppressione di un grado di merito con il complessivo contesto normativo del processo esecutivo riformato», il remittente osserva che, con l’inclusione tra i titoli esecutivi stragiudiziali delle scritture private autenticate (suscettibili di essere poste in esecuzione con la loro mera trascrizione nel testo del precetto) e con la conseguente agevolazione dell’avvio della procedura esecutiva a favore del titolare del credito anche prima ed a prescindere da un controllo giurisdizionale sul contenuto del titolo, vengono a ridursi le possibilità, per il debitore, di contestare il merito del rapporto (che potrebbe non essere mai stato in precedenza sottoposto al vaglio del giudice, come invece accade normalmente nell’ipotesi di un titolo esecutivo giudiziale), in quanto limitate ad un solo grado, potendo semmai egli dolersi per esclusivi motivi di legittimità dell’unica pronuncia di merito che potrà conseguire sul punto.
Peraltro, rileva il remittente, il principio della non costituzionalizzazione del doppio grado risulta «talvolta temperato», per escludere i sospetti di non conformità con i principi degli artt. 3 e 24 Cost., dalla necessità del riscontro di ulteriori elementi, come la correlazione con la scarsa consistenza economica della controversia e con la sua decisione secondo equità. Solo in tal modo l’inappellabilità non si espone a sospetti di violazione delle invocate norme costituzionali, tenendo conto che il parametro del valore rende giustificata e ragionevole l’opzione di accelerare il procedimento (negando il rimedio dell’appello), sulla scorta di un apprezzamento di prevalenza dell’interesse (individuale e generale) ad una sollecita definizione della causa e che, inoltre, la tutela del diritto di difesa va coordinata con l’esigenza, di pari livello costituzionale, di disciplinare i modi ed i limiti del suo esercizio in concreto, al fine di assicurare la conclusione della lite entro un congruo termine.
Del resto questa Corte, in relazione al regime di impugnabilità delle sentenze di opposizione allo stato passivo fallimentare, ha, in passato, ritenuto possibile un sindacato sulla razionalità dell’ambito dell’appellabilità in riferimento all’art. 3 Cost., dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 99, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui sanciva l’inappellabilità delle sentenze rese su crediti di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie, contemplati negli artt. 409 e 442 cod. proc. civ. (sentenza n. 69 del 1982). La Corteremittente individua significative analogie tra il decisum di tale sentenza ed il tema della soppressione dell’appello in argomento, contestando anzitutto che la possibile ratio dell’intervento risieda nel recupero di snellezza, velocità ed efficienza del processo esecutivo. Al riguardo, si ricorda che, con l’opposizione all’esecuzione, il debitore può soltanto: a) quando si tratta di titolo esecutivo giudiziale, fare valere fatti impeditivi o modificativi o estintivi del diritto azionato, che siano successivi alla formazione del titolo esecutivo (o alla conclusione del processo in cui esso si è formato e avrebbe potuto essere modificato), ma non anche quei fatti che, in quanto verificatisi in epoca precedente, avrebbero potuto essere dedotti nel giudizio di cognizione preordinato alla costituzione del titolo giudiziale; b) quando si tratta di titolo esecutivo stragiudiziale, contestare per la prima volta i fatti costitutivi del diritto consacrato nel titolo o dedurre fatti impeditivi o modificativi o estintivi, proprio perché – trattandosi di titolo formatosi al di fuori di un processo – in precedenza potrebbe non essersi mai data l’occasione di dedurre in giudizio gli uni o gli altri.
Pertanto la sussistenza, in favore del creditore, del titolo esecutivo non garantisce affatto il debitore per i casi in cui egli debba fare valere queste particolari situazioni, ancora più delicate in quanto l’aggressione al suo patrimonio, dopo la notifica del precetto, è prossima, quando non già iniziata con il pignoramento. Il semplice possesso del titolo esecutivo, reso oltretutto sensibilmente più semplice dagli interventi riformatori degli anni più recenti, non rende la posizione del debitore più garantita, proprio quando egli avrebbe bisogno di una tutela cognitiva piena avente ad oggetto diritti.
E poiché il debitore può esercitare, prima dell’opposizione di cui all’art. 615 cod. proc. civ., un’ordinaria azione di cognizione, strutturata nei due gradi di merito e in quello successivo di legittimità, volta all’accertamento dell’estinzione del diritto del creditore in caso di titolo giudiziale e per fatti ad esso successivi (ovvero alla contestazione del diritto stesso in caso di titoli stragiudiziali), al remittente non pare giustificato il diverso trattamento che alle ragioni del debitore deriva con «il dimezzamento» dei gradi di cognizione di merito riservato alle opposizioni all’esecuzione.
D’altra parte, non potrebbe mai configurarsi un onere del debitore di «precipitarsi» ad avviare un’ordinaria azione di accertamento negativo, ogniqualvolta abbia sentore della possibilità di una esecuzione in suo danno, per dedurre fatti modificativi, estintivi o impeditivi del diritto del creditore (ma successivi al titolo ed al processo in cui il titolo si è formato, se giudiziale) ovvero per gli stessi fatti senza limiti (se il titolo è stragiudiziale): si tratterebbe, infatti, di imporre al debitore medesimo un gravoso onere di prevenzione giudiziale delle avverse iniziative.
La Corte d’appello, tuttavia, parifica le due descritte situazioni e rileva un trattamento ingiustificatamente differenziato per fattispecie sostanzialmente identiche, con evidente violazione del canone dell’uguaglianza.
Il richiamo all’esigenza di celerità sarebbe, in conclusione, inconferente, essendo questa garantita da un compiuto sistema di strumenti interinali o cautelari in senso lato – del tutto idoneo ad assicurare le ragioni delle parti – strutturati anche su di un sistema di impugnazioni e di anticipazione del finale effetto della cancellazione del vincolo imposto con il pignoramento, di cui alla nuova formulazione dell’art. 624 cod. proc. civ.
Il principio di eguaglianza (appena) evocato sarebbe, altresì, violato sotto il profilo dell’incongrua equiparazione delle opposizioni all’esecuzione a quelle agli atti esecutivi, in quanto le prime hanno ad oggetto diritti soggettivi, mentre le seconde riguardano irregolarità formali di atti della procedura e difficilmente possono riverberare effetti sul diritto posto a base dell’esecuzione. La sottoposizione delle due categorie di azioni di cognizione, ontologicamente diverse, al medesimo regime processuale appare al remittente incongrua e non rispettosa del canone richiamato, che impone il trattamento differenziato di fattispecie diverse.
Quanto, infine, ai profili di contrasto con gli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., la norma denunciata comporterebbe la compressione del diritto del debitore alla piena ed effettiva tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive in un processo equo e giusto, ancorché «a suo danno» sia aumentata l’efficienza del processo esecutivo e le ipotesi di aggressione del suo patrimonio in forza di titoli esecutivi non giudiziali e, quindi, senza un preventivo controllo da parte del giudice: e ciò, nonostante la semplice presenza del titolo esecutivo.
2.— La medesima Corte d’appello ha sollevato identica questione, in riferimento agli stessi parametri, con ordinanza emessa il 25 gennaio 2007 (r. o. n. 610 del 2007), nel corso di un giudizio di appello, introdotto con atto notificato il 18 luglio 2006, avverso una sentenza – pubblicata il 28 aprile 2006 – resa a conclusione di un giudizio di opposizione all’esecuzione, intrapreso per contestare la pignorabilità del bene staggìto e, comunque, «la persistenza del diritto ad agire in executivis per intervenuta transazione», con ricorso ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. depositato in data 8 novembre 1999. In proposito, il remittente – che svolge poi, nel merito, argomentazioni del tutto analoghe alle precedenti – esclude che una sentenza emanata dopo l’entrata in vigore della norma che ne sopprime l’appellabilità possa conservare il regime delle impugnazioni vigente al momento della proposizione del giudizio in primo grado.
3.— È intervenuto, in riferimento al giudizio introdotto da quest’ultima ordinanza, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione.
In particolare, l’Avvocatura ritiene inconferente il richiamo della sentenza n. 69 del 1982 di questa Corte che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 99 della legge fallimentare – nel testo anteriore alla riforma del 2006 – nella parte in cui sanciva l’inappellabilità delle sentenze rese in sede di opposizione allo stato passivo su crediti di lavoro, previdenziali e assistenziali. In tale occasione non sarebbe stata ritenuta irrazionale tout court la norma che limitava l’impugnabilità delle sentenze rese ai sensi dell’art. 99 della legge fallimentare (per disparità di trattamento tra creditori di soggetti falliti e creditori di soggetti in bonis), bensì dichiarata incostituzionale la norma nella parte in cui – secondo il diritto vivente – estendeva l’inappellabilità, originariamente prevista per le sentenze rese in controversie non eccedenti la competenza per valore del pretore, alle sentenze rese in controversie aventi ad oggetto crediti di lavoro, previdenziali e assistenziali (attratte nella competenza per materia del pretore in base alla legge 11 agosto 1973, n. 533).
Ora, la differente posizione in cui si trova il debitore prima e dopo la notificazione del precetto (possibilità, nel primo caso, di promuovere un’ordinaria azione di accertamento negativo del credito, soggetta al doppio grado di giurisdizione di merito; possibilità, nel secondo caso, di promuovere il giudizio di opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 cod. proc. civ., che si conclude con sentenza non impugnabile) non può ritenersi irragionevole, trovando la sua giustificazione nella esigenza di definire rapidamente le questioni relative alla validità ed efficacia del titolo esecutivo, che permea l’attuale disciplina del processo di esecuzione a seguito delle modifiche introdotte con le riforme degli anni 2005 e 2006.
Esigenza, questa, che consente di escludere che l’equiparazione, quanto al regime di impugnazione, delle sentenze rese nel giudizio di opposizione all’esecuzione e di quelle rese nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi sia priva di una sua razionalità perché non tiene conto della diversa natura degli interessi coinvolti.
Va infine escluso, secondo l’Avvocatura dello Stato, che l’inappellabilità della sentenza resa ai sensi dell’art. 616 cod. proc. civ. si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., in quanto l’attuazione dei principi di effettività della tutela giurisdizionale e del giusto processo non impongono affatto la previsione del doppio grado di merito.
Considerato in diritto
1.— Con due ordinanze la Cortedi appello di Salerno ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, «dell’ultimo periodo dell’art. 616 del codice di procedura civile, come sostituito dall’art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52», disposizione vigente dal 1° marzo 2006, la quale stabilisce che il giudizio di cognizione introdotto dall’opposizione all’esecuzione è deciso con sentenza non impugnabile.
La remittente, con la prima ordinanza (r. o. n. 512 del 2007), riferisce che il giudizio di appello di cui è investita concerne una sentenza emessa prima dell’entrata in vigore della disposizione suddetta, ma fa osservare come, in difetto di una disciplina transitoria, il regime della non impugnabilità, e quindi della sola assoggettabilità della sentenza al ricorso per cassazione di cui all’art. 111, settimo comma, Cost., si debba applicare anche ai giudizi di appello pendenti relativi ad una sentenza venuta ad esistenza prima dell’entrata in vigore dell’innovazione legislativa.
Con la seconda ordinanza (r. o. n. 610 del 2007) – emessa in un giudizio avente ad oggetto una sentenza concernente l’opposizione all’esecuzione spiegata per contestare sia il diritto di procedere in executivis sia la pignorabilità dei beni oggetto dell’esecuzione stessa – la Corteremittente espone che la sentenza impugnata è successiva all’entrata in vigore della disposizione sostitutiva, nei sensi suindicati, dell’art. 616 cod. proc. civ.
Tutto ciò in punto di rilevanza della questione.
2.— Riguardo alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo premette che non intende mettere in discussione il consolidato orientamento secondo il quale lo svolgimento dei giudizi attraverso due gradi di merito non è principio costituzionalizzato, ma sostiene che la disciplina del processo, pur tenendo conto dei larghi margini di apprezzamento di cui gode il legislatore, deve corrispondere ai canoni della non irragionevolezza, della parità di trattamento per situazioni identiche e della non omologazione di fattispecie diverse. A tal proposito, la Corte d’appello invoca il precedente costituito dalla sentenza di questa Corte n. 69 del 1982, dichiarativa della illegittimità della disposizione che sottraeva all’appello le sentenze emesse in sede di opposizione al passivo fallimentare aventi ad oggetto crediti di lavoro, previdenziali o assistenziali.
Sotto tali profili il giudice a quo ritiene irragionevole stabilire la non appellabilità di sentenze emesse in giudizi di opposizione all’esecuzione quando la categoria dei titoli esecutivi si è, da ultimo, ampliata fino ad includere numerose ipotesi di titoli stragiudiziali, in precedenza non assoggettati a verifica da parte di un giudice. La remittente ritiene, altresì, contrastante con il principio di eguaglianza l’aver sottratto all’appello le suddette sentenze sulle opposizioni all’esecuzione, mentre sono appellabili quelle emesse in giudizi di accertamento negativo del credito promossi dal debitore prima di essere assoggettato ad esecuzione, pur trattandosi in entrambi i casi di pronunce suscettibili di giudicato sulla esistenza del rapporto.
Inoltre, la remittente denuncia, quale ulteriore violazione dell’art. 3 Cost., l’equiparazione, quanto al regime delle impugnazioni, delle opposizioni all’esecuzione a quelle agli atti esecutivi: le prime concernenti l’accertamento del rapporto, le altre mere irregolarità del procedimento esecutivo.
Le ordinanze di remissione sostengono, infine, che la previsione della sola ricorribilità per cassazione delle sentenze di cui si tratta impedirebbe la piena realizzazione del diritto di difesa e contrasterebbe con i principi del giusto processo.
3.— In via preliminare deve essere disposta la riunione dei due giudizi, aventi ad oggetto la medesima disposizione di legge, censurata per motivi identici.
Si rileva, anzitutto, l’inammissibilità della questione proposta con l’ordinanza n. 512 del 2006, per implausibilità della motivazione sulla rilevanza.
Infatti, contrariamente a quanto assume la remittente, in caso di successione di leggi e in mancanza di una disciplina transitoria, il regime di impugnabilità dei provvedimenti giurisdizionali va desunto dalla normativa vigente quando essi sono venuti a giuridica esistenza (come osservato dalla giurisprudenza di legittimità: Cass., 12 maggio 2000, n. 6099, e 20 settembre 2006, n. 20414). E, nel caso in esame, la sentenza oggetto dell’appello era stata depositata ben prima dell’entrata in vigore della disposizione che prevede la non impugnabilità delle sentenze emesse in giudizi di opposizione all’esecuzione.
4.— Per differenti ragioni, anche la questione sollevata con l’ordinanza n. 610 del 2007 dalla stessa Corte di appello di Salerno non è ammissibile. La suddetta ordinanza, infatti, non ha i requisiti necessari per dare ingresso ad un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, in quanto presenta carenze nella esposizione dei fatti, contiene affermazioni non motivate nella ricostruzione del quadro normativo ed incorre in contraddizioni tra motivazione e richiesta di una sentenza di illegittimità costituzionale integralmente ablativa della disposizione impugnata.
La remittente censura, anzitutto, la disposizione in argomento accusandola di trascurare la circostanza che – per le innovazioni intervenute negli ultimi anni, innovazioni che la Corte di Salerno non precisa – è aumentato il numero di atti non giurisdizionali aventi efficacia di titolo esecutivo, senza però indicare se, nel giudizio pendente dinanzi a sé, l’esecuzione cui il debitore si oppone si fondi su un titolo giudiziale o extragiudiziale.
In secondo luogo, al fine di affermarne la totale equiparazione, riguardo all’oggetto, a un giudizio di accertamento negativo del credito fatto valere, la remittente implicitamente sostiene che il giudizio di opposizione all’esecuzione ha sempre ad oggetto l’accertamento dell’esistenza del rapporto ed è idoneo ad acquistare efficacia di giudicato su tale accertamento. Tale tesi, in mancanza di riferimenti a un orientamento giurisprudenziale univoco e consolidato (cosiddetto diritto vivente), avrebbe richiesto una congrua ancorché succinta motivazione, tanto più che dall’esposizione in fatto risulta che l’opposizione all’esecuzione nel processo a quo si fonda sull’impignorabilità dei beni assoggettati ad esecuzione, nonché sulla persistenza del diritto ad agire in executivis per intervenuta transazione.
Ora, l’identificazione, in linea di principio, dell’oggetto del giudizio di opposizione all’esecuzione – e cioè lo stabilire se esso sia sempre l’accertamento dell’esistenza del rapporto di credito oppure sia limitato al riscontro della sussistenza dei requisiti dell’azione esecutiva, alternativa non priva di conseguenze sull’ampiezza del giudicato che potrà formarsi – costituisce un nodo problematico sul quale la Corteremittente avrebbe dovuto argomentare.
Le considerazioni svolte consentono di rilevare, in primo luogo, che le censure appaiono motivate non congruamente, in quanto il giudizio di opposizione all’esecuzione può concernere anche ipotesi in cui questa si fonda su titoli giudiziali, e addirittura su sentenza passata in giudicato, titoli riguardo ai quali non si ravvisano le addotte cause di irragionevolezza dell’inappellabilità della sentenza che decide sulla opposizione all’esecuzione. A tal proposito il giudice a quo, pur argomentando sulle evenienze soltanto di alcune ipotesi di opposizione all’esecuzione, sollecita la emissione di una sentenza di illegittimità costituzionale totalmente caducatoria della disposizione censurata, e quindi anche riguardo alla sua applicabilità a fattispecie processuali per le quali i sospetti di incostituzionalità non vengono neppure prospettati.
Si deve, infine, osservare che la remittente censura l’equiparazione, quanto al regime di non impugnabilità, delle opposizioni all’esecuzione a quelle agli atti esecutivi, in quanto le prime avrebbero ad oggetto non mere irregolarità bensì l’accertamento del rapporto di credito, ma solleva la questione basandosi sul non dimostrato presupposto che l’inappellabilità, per essere legittima, debba fondarsi sempre sulla medesima ratio e che non rientri nella libertà di apprezzamento del legislatore individuare rationes diverse, ciascuna idonea a fornirne ragionevole giustificazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 616, ultimo periodo, del codice di procedura civile, come sostituito dall’art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52 (Riforma delle esecuzioni mobiliari), sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Salerno con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008.