ORDINANZA N. 407
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 460, comma 5, del codice di procedura penale e 136 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promosso con ordinanza dell’11 settembre 2002 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Grosseto nel procedimento di esecuzione nei confronti di A. B., iscritta al n. 341 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Udito nella camera di consiglio del 7 novembre 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Grosseto ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 460, comma 5, del codice di procedura penale e 136 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), «nella parte in cui non prevedono, quale limite all’effetto estintivo del decreto penale non opposto, l’essersi volontariamente sottratto all’esecuzione della pena inflitta con il provvedimento di condanna»;
che il giudice a quo ha premesso di essere chiamato a delibare – quale giudice dell’esecuzione penale – la richiesta del pubblico ministero finalizzata, in applicazione dell’art. 460, comma 5, cod. proc. pen., alla declaratoria di estinzione di un decreto penale di condanna, già esecutivo, con il quale era stato irrogata una condanna alla pena della multa: ciò dopo che il magistrato di sorveglianza − cui, in origine, erano stato trasmessi gli atti per la conversione della pena, dopo l’accertamento della impossibilità di esazione della pena pecuniaria − aveva restituito gli atti all’ufficio del pubblico ministero, poiché riteneva che si fosse verificata, quale effetto della citata norma censurata, l’estinzione del reato, non risultando altre condanne a carico del medesimo soggetto;
che il rimettente evidenzia la ratio e le origini della disposizione del comma 5 dell’art. 460 cod. proc. pen., rammentando come essa − introdotta nel codice di rito attraverso l’art. 37, comma 2, della legge 16 dicembre 1999, n. 479 − tendesse ad incentivare il ricorso al rito speciale, attraverso l’ulteriore profilo premiale rappresentato, appunto, dall’estinzione del reato: con conseguente cessazione di tutti gli effetti penali e possibilità di accedere successivamente al beneficio della sospensione condizionale della pena, se – nel termine di cinque anni per i delitti, o di due anni per le contravvenzioni – l’imputato non avesse commesso altro delitto o altra contravvenzione della stessa indole;
che, secondo il giudice a quo, tale effetto appare modellato – al pari di tutti gli altri meccanismi di incentivazione del rito (tra i quali, l’ impossibilità di richiedere e di applicare, con l’emissione del provvedimento di condanna, le pene accessorie; la limitazione della confisca alle sole ipotesi dell’art. 240, secondo comma, del codice penale; l’esenzione dalle spese processuali) – sugli identici benefici previsti per la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, così come si evince, per il beneficio dell’estinzione del reato, dal disposto dell’art. 445, comma 2, del codice di rito penale;
che, a parere del giudice a quo, quindi, «gli effetti del decreto penale di condanna sono praticamente sovrapponibili a quelli del c.d. “patteggiamento” elencati nell’art. 445 c.p.p.»; e, in particolare, la disciplina dell’art. 460, comma 5, «appare modellata» su quella, peraltro preesistente, dell’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., in tema di sentenza di “patteggiamento”;
che tuttavia – argomenta ancora il rimettente – proprio questa totale conformità di disciplina suscita il dubbio della legittimità costituzionale dell’art. 460, comma 5, cod. proc. pen.: invero, mentre la corrispondente disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti risulta integrata e bilanciata dalla previsione dell’art. 136 disp. att. cod. proc. pen. − a norma del quale l’effetto estintivo dell’art. 445, comma 2, cod. proc. pen. non si produce se la persona nei cui confronti la pena è stata applicata si sottrae volontariamente alla sua esecuzione, così sanzionando, attraverso la perdita di uno dei benefici del rito, l’inottemperanza al decisum giudiziale − analoga norma non è prevista per il procedimento per decreto; con la paradossale conseguenza che, nonostante il mancato pagamento della pena pecuniaria inflitta con il decreto penale di condanna, il condannato potrà continuare a beneficiare – sussistendone le condizioni di legge – dell’effetto estintivo previsto dall’art. 460, comma 5, cod. proc. pen.;
che la mancata estensione del limite all’effetto estintivo – di cui all’art. 136 disp. att. cod. proc. pen. – al procedimento per decreto penale, a parere del rimettente, violerebbe sotto un duplice profilo l’art. 3 della Costituzione: difettando, per un verso, di ragionevole giustificazione; e disciplinando, per altro verso, in maniera diversa situazioni sostanzialmente assimilabili;
che, sotto quest’ultimo profilo, il giudice a quo rileva come l’effetto estintivo del reato – nell’ipotesi di volontaria sottrazione all’esecuzione – venga a dipendere dal tipo di rito applicato; e, inoltre, come contrasti con il principio di eguaglianza la circostanza che il condannato, il quale ha puntualmente ottemperato al provvedimento di condanna, pagando la pena pecuniaria, possa beneficiare – al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 460, comma 5, cod. proc. pen. – dell’effetto estintivo del reato al pari di colui che, viceversa, «elude volontariamente il provvedimento di condanna», evitando anche la conversione della pena pecuniaria e così «ottenendo un doppio vantaggio»;
che un ulteriore profilo di irragionevolezza è da ravvisarsi, a parere del rimettente, nella circostanza che − nonostante l’emissione del decreto penale di condanna presupponga un accertamento espresso della responsabilità dell’imputato, a differenza dell’accertamento solo implicito che connota la sentenza emessa in esito al “patteggiamento” − l’effetto dell’estinzione del reato si realizza, nel primo caso e non nel secondo, anche nei confronti del condannato che si sia volontariamente sottratto all’esecuzione, per effetto del solo decorso del tempo e della “buona condotta”.
Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Grosseto, in funzione di giudice dell’esecuzione, dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 460, comma 5, del codice di procedura penale e 136 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono, quale limite all’effetto estintivo del decreto penale non opposto, l’essersi il condannato volontariamente sottratto all’esecuzione della pena inflitta;
che il dubbio di costituzionalità viene avanzato tanto sotto il profilo della intrinseca irragionevolezza della disciplina, quanto sotto quello della disparità di trattamento fra situazioni analoghe;
che, quanto al profilo dell’irragionevolezza, si assume che, per il procedimento monitorio, non risulta riprodotto il limite che l’art. 136 disp. att. cod. proc. pen. detta invece per il rito del “patteggiamento”, nel quale l’effetto estintivo non si produce se la persona nei cui confronti la pena è stata applicata si sottrae volontariamente alla sua esecuzione: così rendendo, sul punto, irragionevolmente differente la disciplina degli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e quella del decreto penale di condanna, perfettamente omologa alla prima per gli ulteriori benefici premiali;
che, quanto al profilo della disparità di trattamento, si denunzia che l’effetto estintivo del reato viene a dipendere – nei confronti di un identico comportamento del condannato – unicamente dal tipo di rito applicato; e che, inoltre, il condannato, il quale ha puntualmente ottemperato al provvedimento di condanna pagando la pena pecuniaria, può beneficiare dell’effetto estintivo del reato al pari di colui che, viceversa, omette di adempiere volontariamente al provvedimento di condanna;
che il petitum avanzato dal rimettente è dunque volto ad estendere al rito monitorio la limitazione dell’effetto estintivo del reato già prevista, per l’applicazione della pena su richiesta delle parti, dall’art. 136 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale;
che, tuttavia, la disposizione di cui all’art. 460, comma 5, cod. proc. pen., a prescindere dalla sua collocazione, riveste indubbio carattere di norma sostanziale e non meramente processuale, in quanto − come evidenziato anche dalla sua concorde lettura ad opera della giurisprudenza di legittimità − incide sulla stessa esistenza del reato determinandone l’estinzione;
che, a riprova di tale qualificazione, la norma censurata è stata applicata, secondo l’esegesi del giudice di legittimità, anche ai decreti penali divenuti esecutivi prima dell’entrata in vigore della novella di cui alla legge n. 479 del 1999, in forza del principio del favor rei di cui all’art. 2, terzo comma, del codice penale, in materia di successione di leggi penali nel tempo, anziché del principio del tempus regit actum, che governa la successione della legge processuale nel tempo;
che, pertanto, il petitum formulato dal rimettente si risolve nella richiesta di una pronuncia volta a restringere l’effetto estintivo del reato previsto dalla norma medesima e, dunque, in una pronuncia additiva in malam partem in materia penale sostanziale;
che, peraltro, tale intervento − alla luce delle costanti affermazioni di questa Corte (cfr., tra le molte, sentenze n. 394 del 2006 e n. 161 del 2004; ordinanza n. 317 del 2000) − risulta precluso dal principio della riserva di legge sancito nell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, il quale impedisce, tra l’altro, anche di «incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità», così come avverrebbe con la pronuncia additiva invocata dall’odierno rimettente;
che la questione deve pertanto essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 460, comma 5, del codice di procedura penale e 136 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Grosseto con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 novembre 2007.