Sentenza n. 109 del 2007

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SENTENZA N. 109

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco                                 BILE                                                  Presidente

-  Francesco                            AMIRANTE                                        Giudice

-  Ugo                                     DE SIERVO                                             “

-  Romano                              VACCARELLA                                       “

-  Paolo                                   MADDALENA                                        “

-  Alfio                                   FINOCCHIARO                                      “

-  Alfonso                               QUARANTA                                            “

-  Franco                                 GALLO                                                     “

-  Luigi                                   MAZZELLA                                             “

-  Gaetano                              SILVESTRI                                             “

-  Sabino                                 CASSESE                                                 “

-  Maria Rita                           SAULLE                                                   “

-  Giuseppe                             TESAURO                                                “

-  Paolo Maria                         NAPOLITANO                                        “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso con ordinanza del 26 maggio 2006 dalla Commissione tributaria provinciale di Novara sul ricorso proposto da Fallara Francesco contro l’Agenzia delle Entrate di Novara, iscritta al n. 435 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2006.

         Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2007 il Giudice relatore Romano Vaccarella.

Ritenuto in fatto

         1.– Con ordinanza del 26 maggio 2006 la Commissione tributaria provinciale di Novara ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui non prevede, tra i poteri istruttori delle commissioni tributarie, quello di ordinare alle parti, pur nei limiti dei fatti dedotti, di produrre documenti ritenuti necessari ai fini della decisione.

         1.1.– L’incidente è stato prospettato nel corso del giudizio di impugnativa di un avviso di accertamento in materia di IVA, fondato su due verbali, l’uno del Servizio Ispettivo dell’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza sociale), nel quale era stato contestato  l’impiego di quattro lavoratrici non iscritte nei libri obbligatori, e l’altro della Guardia di Finanza, col quale era stato quantificato l’ammontare delle ritenute non operate sugli emolumenti ad esse corrisposti, come ricostruiti dagli ispettori che avevano effettuato la prima verifica: atti in base ai quali l’Agenzia delle Entrate aveva poi calcolato, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, l’ammontare dei ricavi non contabilizzati, corrispondenti alle retribuzioni pagate «in nero».

         Dato atto che nessuna delle parti costituite in giudizio aveva depositato i predetti documenti e che gli stessi erano assolutamente necessari ai fini della decisione della controversia, dovendo in mancanza il giudicante risolverla sulla base della regola, per vero tutta formale, dell’onere della prova, piuttosto che sull’effettiva fondatezza delle pretese hinc et inde addotte dalle parti, osserva il rimettente, in punto di rilevanza, che l’intervenuta abrogazione – attuata con decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 – del terzo comma dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992 (il quale prevedeva il potere officioso di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari ai fini della decisione) gli preclude l’esercizio di tale facoltà ed esclude altresì la praticabilità di opzioni ermeneutiche idonee a recuperarla.

         1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza del dubbio, secondo il giudice a quo non varrebbe a giustificare la norma il richiamo alla regola che, nel processo civile ordinario, vieta all’ufficio di supplire con la sua iniziativa all’inerzia delle parti, in attuazione del principio costituzionale della terzietà della giurisdizione: ed invero tale disciplina, del tutto congruente al criterio della disponibilità della prova, appare inaccettabile nel processo tributario, ove vige una disposizione, come  quella racchiusa nel menzionato primo comma dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, in base alla quale le commissioni hanno «ai fini istruttori, e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, […] tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferiti agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge di imposta».

         Ne deriverebbe un quadro normativo assolutamente irrazionale, atteso che il giudice, pur avendo, nei limiti dei fatti dedotti, gli stessi poteri istruttori, anche autoritativi, dell’amministrazione finanziaria, non potrebbe tuttavia ordinare l’acquisizione di documenti, ancorché ritenuti decisivi ai fini della pronuncia.

         Tale normativa sarebbe segnatamente lesiva dell’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo che da essa conseguirebbe una ingiustificata discriminazione tra le posizioni processuali dei cittadini, a seconda della tipologia di accertamenti da svolgere, tanto più che il giudice, da un lato, avrebbe un potere officioso di indagine esercitabile anche senza la collaborazione del contribuente, e, dall’altro, non potrebbe richiedere alle parti la produzione di documenti con l’unica sanzione, in caso di inosservanza, di ritenere non utilizzabili quelli non depositati nel termine assegnato e inesistenti le circostanze dagli stessi provate.

         Risulterebbe altresì violato l’art. 24 della Costituzione, perché, in un processo a carattere impugnatorio, nel quale al contribuente è richiesto di addurre un principio di prova idoneo a smentire la ricostruzione dei fatti autoritativamente operata con l’atto impugnato, il ricorrente vedrebbe sacrificato il proprio diritto di difesa in applicazione di un principio di terzietà del giudice, per il resto estraneo alla disciplina processualtributaria, che riconosce alla commissione rilevanti poteri istruttori officiosi, da esercitarsi prevalentemente, o esclusivamente, a favore dell’ufficio, del quale, a parere del rimettente, le commissioni hanno i medesimi poteri di accertamento.

         Ribadito che la ratio legis desumibile dall’intervento legislativo che ha portato all’attuale formulazione dell’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, non consentirebbe un recupero, in via interpretativa, del potere officioso di ordinare l’acquisizione di documenti, la Commissione solleva l’incidente di costituzionalità nei termini innanzi precisati.

         2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto alla Corte di dichiarare inammissibile, o in subordine manifestamente infondata, la proposta questione.

         Osserva l’esponente che il giudice a quo avrebbe anzitutto omesso di esplicitare in maniera adeguata le ragioni della ritenuta rilevanza del dubbio, essendosi limitato a prospettare una asserita, assoluta essenzialità dei documenti mancanti ai fini della decisione e l’inevitabilità, in siffatto contesto probatorio, di un esito del giudizio parametrato sul mancato assolvimento dell’onere della prova, omettendo di spiegare sia le ragioni per le quali non ha inteso accedere, attraverso i poteri istruttori riconosciutigli dal primo comma dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, a quei chiarimenti e a quelle informazioni che gli avrebbero consentito di sopperire alle prospettate deficienze della produzione documentale, sia le ragioni per le quali il ricorso a detti poteri officiosi di indagine avrebbe alterato il principio di eguaglianza o sacrificato illegittimamente il diritto di difesa, di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione, mentre il ripristino della facoltà del giudice di ordinare il deposito dei documenti ritenuti essenziali ai fini della decisione sanerebbe la prospettata situazione di illegittimità costituzionale dell’impianto istruttorio del processo tributario.

         Ricordato che, proprio con riguardo al processo tributario, la Corte costituzionale (sentenza n. 18 del 2000) ha avuto modo di chiarire che il principio di eguaglianza si sostanzia nella «parità di armi» tra le parti del processo, osserva la difesa erariale che la norma impugnata, fissando una regola astrattamente valevole per entrambe le parti, e facendone dipendere dalle peculiarità del caso concreto gli effetti, a seconda dei casi, sfavorevoli o vantaggiosi, per l’una o per l’altra, sarebbe conforme all’art. 3 della Costituzione.

         Segnala anche l’interveniente come la giurisprudenza della Suprema Corte abbia evidenziato anche in tempi recentissimi (Cass. 11 gennaio 2006, n. 339) che il processo tributario si fonda sul principio dispositivo di cui all’art. 115 cod. proc. civ., alla stregua di quanto previsto dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, mentre già in precedenza, con riguardo all’assetto normativo antecedente all’abrogazione del terzo comma dell’art. 7, aveva escluso che tale norma potesse essere utilizzata «come rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti».

         In tale contesto la soppressione della predetta disposizione, distonica rispetto ai principi ispiratori del processo tributario, e la conseguente riconduzione della disciplina di questo suo particolare segmento alle regole generali, non potrebbe connotarsi di illogicità o di irragionevolezza, tenuto anche conto che, secondo il consolidato orientamento della  Corte costituzionale, l’esercizio, da parte del legislatore, dei suoi poteri discrezionali si presta ad essere sindacato solo ove la legge discrimini senza ragione situazioni affini o, al contrario, tratti illogicamente in maniera identica situazioni diverse.

         Infine giammai potrebbe ritenersi leso il diritto di difesa ove sia la parte a non esercitarlo, di modo che quella che ometta di produrre i documenti utili a che il giudice accolga le sue prospettazioni non può poi dolersi del mancato esercizio, da parte della Commissione, del potere officioso di ordinare il deposito dei documenti.

Considerato in diritto

         1.– La Commissione tributaria provinciale di Novara dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 7, comma 1, del decreto legislativo n. 546 del 1992 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui non prevede, tra i poteri istruttori delle commissioni tributarie, quello di ordinare alle parti, pur nei limiti dei fatti dedotti, di produrre documenti ritenuti necessari ai fini della decisione.

         2.– La questione non è fondata.

         3.– Il giudice a quo sostiene che la soppressione del potere – in precedenza contemplato dall’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 – di «ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia» avrebbe reso «assolutamente irrazionale un quadro normativo per il quale in un processo di parti sono riconosciuti al giudice […] gli stessi poteri istruttori anche autoritativi dell’amministrazione finanziaria, con l’unica ed ingiustificata eccezione dell’acquisizione di documenti»: assoluta irrazionalità che, non essendo frutto di «consapevole scelta del legislatore tra un processo dispositivo ed uno nel quale il giudice abbia in determinata misura poteri di indagine ex officio», si risolverebbe in «una discriminazione ingiustificata tra i cittadini […] a seconda della tipologia di accertamenti da svolgere» e, inoltre, in un sacrificio del diritto di difesa del contribuente al quale, in un giudizio avente carattere di impugnazione, «è richiesto di addurre almeno un principio di prova idoneo a smentire la ricostruzione dei fatti (autoritativamente) operata con l’atto impugnato». Il «principio della terzietà del giudice» – affermato con riguardo all’acquisizione di documenti – sarebbe «per il resto estraneo alla disciplina processualtributaria che […] riconosce alla commissione ben più rilevanti poteri istruttori da esercitarsi (prevalentemente o esclusivamente) a favore dell’ufficio finanziario, del quale le commissioni tributarie hanno i medesimi poteri di accertamento».

         4.– L’ordinanza di rimessione ripropone – sotto il profilo della (pretesa) illegittimità costituzionale – le valutazioni critiche mosse da una consistente dottrina nei confronti dell’intervento legislativo che, nel 2005, ha soppresso il potere officioso attribuito alle Commissioni tributarie, con riguardo al deposito di documenti, dall’art. 7, comma 3, ed ha lasciato inalterato il potere di esercitare «tutte le facoltà di accesso, di richiesta dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta» (comma 1). Il giudice a quo, sottolineata l’impraticabilità di una interpretazione – suggerita da una parte minoritaria della dottrina – secondo la quale l’innovazione legislativa sarebbe «neutralizzabile» in forza della lata formulazione del comma 1, muove dall’idea che, poiché l’art. 7, comma 1, riconosce alle Commissioni «gli stessi poteri istruttori anche autoritativi dell’amministrazione finanziaria […] da esercitarsi (prevalentemente o esclusivamente) a favore dell’ufficio finanziario», l’intento del legislatore di valorizzare, in tale contesto, il principio della disponibilità della prova e della terzietà del giudice si sarebbe risolto in un sacrificio del diritto di difesa del contribuente; i poteri officiosi del giudice sarebbero, oggi, spendibili solo a favore dell’amministrazione, laddove del soppresso potere di ordinare il deposito di documenti si sarebbe normalmente giovato, per alleviare il proprio onere probatorio, il contribuente.

         5.– Il legislatore, attraverso l’abrogazione dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, ha voluto rafforzare il carattere dispositivo del processo tributario espungendo da esso il potere officioso dal quale soprattutto, pressocché unanimemente, la giurisprudenza e la dottrina desumevano, quanto all’istruzione, la sua natura di processo inquisitorio (o, secondo altra terminologia, acquisitivo): si diceva, in sintesi, che il giudice tributario era tenuto a giudicare iuxta alligata ma non anche iuxta probata partium.

         L’estrema vaghezza del dettato legislativo («è sempre data alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia») aveva favorito il formarsi di vari indirizzi giurisprudenziali – talvolta radicalmente divergenti se non contrapposti – a seconda che della norma fosse valorizzata la sua derivazione, pressocché testuale, dall’art. 36, comma 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), ovvero fosse sottolineata l’esigenza del suo coordinamento, in generale, con «le norme del codice di procedura civile» (art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992) e, in particolare, con il principio dell’allegazione dei fatti riservata alle parti (introdotto dal d.lgs. n. 546 del 1992, ed estraneo al d.P.R. n. 636 del 1972, come si desume dall’ art. 35 di quest’ultimo).

         L’indirizzo originariamente prevalente, infatti, era nel senso che le Commissioni tributarie godevano di una amplissima discrezionalità (una «facoltà», appunto) nell’esercizio del loro potere, non sindacabile in sede di legittimità: indirizzo che, fondandosi sulla rilevanza e sulla natura pubblicistica dell’obbligazione tributaria nonché sulla cosiddetto presunzione di legittimità del provvedimento (amministrativo) impositivo, presupponeva che il processo tributario dovesse tendere all’accertamento della cosiddetto verità materiale e non acquietarsi, quindi, alla cosiddetta verità formale, presidiata dalla regola di giudizio discendente dal riparto dell’onere della prova.

         In tempi relativamente recenti la giurisprudenza di legittimità, tuttavia, si è andata sempre più orientando nel senso che, a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove, in forza dei poteri istruttori a lui attribuiti dall’art. 7, in quanto tali poteri sono meramente integrativi dell’onere probatorio principale e sono utilizzabili solo qualora sia impossibile o sommamente difficile fornire, da parte di chi vi era tenuto, le prove richieste.

         6.– E’ evidente come, alla luce della giurisprudenza appena ricordata (prevalente ma non consolidata), a taluno possa essere apparsa inopportuna l’abrogazione della norma che conferiva alle commissioni la «facoltà di ordinare il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia», ma altrettanto evidente è che tale valutazione di inopportunità non giustifica un dubbio di legittimità costituzionale, quanto piuttosto sollecita un’interpretazione dei poteri officiosi delle Commissioni che tenga conto della soppressione dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, e che muova dalla premessa che un’accentuazione della terzietà del giudice, quanto ai profili istruttori, non può, per definizione, dar luogo a dubbi di legittimità costituzionale.

         La rilevanza pubblicistica dell’obbligazione tributaria giustifica ampiamente i penetranti poteri che la legge conferisce all’amministrazione nel corso del procedimento destinato a concludersi con il provvedimento impositivo, ma certamente non implica affatto – né consente – che tale posizione si perpetui nella successiva fase giurisdizionale e che, in tal modo, sia contaminata l’essenza stessa del ruolo del giudice facendone una sorta di longa manus dell’amministrazione: in particolare, attribuendo al giudice poteri officiosi che, per la indeterminatezza dei presupposti del loro esercizio (o non esercizio), sono potenzialmente idonei a risolversi in una vera e propria supplenza dell’amministrazione.

         Il presidio dell’essenziale funzione del processo e della terzietà del giudice è costituito dal principio dell’onere della prova, la cui ripartizione tra le parti del processo non può essere ancorata alla posizione formale (di attore o convenuto) da esse assunto in ragione della struttura del processo, ma deve modellarsi sulla struttura del rapporto giuridico formalizzato, in esito al procedimento amministrativo, nel provvedimento impositivo: ciò che la giurisprudenza di legittimità, definitivamente ripudiando l’idea che la cosiddetta presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo possa intendersi in senso tecnico e quindi come inversione dell’onere della prova, ha riconosciuto statuendo che l’onere della prova grava sull’Amministrazione finanziaria, in qualità di attrice in senso sostanziale, e si trasferisce a carico del contribuente soltanto quando l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria.

         7.– E’ in questo contesto che si colloca l’abrogazione – volta, si è detto (Cass. 11 gennaio 2006 n. 366), ad eliminare qualsiasi ostacolo alla piena applicabilità nel processo tributario dell’art. 2697 cod. civ. – dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992.

         E’ evidente che, nel quadro normativo innovato con la abrogazione dell’art. 7, comma 3, i poteri officiosi riconosciuti alle Commissioni dall’art. 7, comma 1, non possono essere intesi – come presuppone l’ordinanza di rimessione, laddove attribuisce a quello, soppresso, di cui al comma 3, la funzione di riequilibrio in favore del contribuente – come strumenti attraverso i quali il giudice, sostituendosi all’Amministrazione, svolge in sede giurisdizionale attività di controllo e/o di accertamento proprie della fase procedimentale; sicché non è soltanto in ossequio all’intenzione del legislatore del 2005, ma anche e soprattutto in virtù del principio di terzietà del giudice – chiamato a verificare, in un giudizio di natura impugnatoria, in primis, la legittimità del provvedimento amministrativo sotto il profilo della congruità della sua motivazione rispetto agli elementi di fatto sui quali si fonda e alla prova degli stessi – che è impensabile una «reviviscenza», sotto le spoglie di una applicazione estensiva del disposto dell’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, del soppresso potere di ordinare il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione.

         Peraltro, non soltanto il principio dell’applicabilità al processo tributario, in quanto compatibili, delle norme del codice di procedura civile (art. 1, comma 2), ma anche il carattere non esaustivo della disciplina dell’istruzione contenuta nell’art. 7 impongono di ritenere che la produzione di documenti, oltre che spontanea, possa essere ordinata a norma dell’art. 210 cod. proc. civ. (e, quindi, anche nei confronti di terzi): ed è ovvio che l’esigenza di un’istanza di parte affinché il giudice possa ordinare l’esibizione di documenti è coerente con il principio dispositivo che, anche relativamente alle prove, il legislatore vuole governi il processo tributario e vale ad escludere in radice per il giudice ogni ruolo di supplenza della parte inerte, sia essa l’amministrazione o il contribuente. Né può trascurarsi che, ove necessario, il giudice ha il potere – nei confronti di pubbliche amministrazioni diverse da quella che è parte del giudizio davanti a lui pendente – di chiedere informazioni o documenti ai sensi dell’art. 213 cod. proc. civ., e cioè attivarsi in funzione di chiarificazione dei risultati probatori prodotti dai mezzi di prova dei quali si sono servite le parti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

         dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Novara con l’ordinanza in epigrafe.

            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Romano VACCARELLA, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2007.