ORDINANZA N. 460
ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giovanni Maria FLICK Presidente
- Francesco AMIRANTE Giudice
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), come sostituito da art. 9, comma 1, lettera d), della legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato), promossi con ordinanze del 22 dicembre 2005 e dell’8 febbraio 2006 dal Tribunale di Genova nei procedimenti civili vertenti tra Bellarte Guido e Bagliore s.c. a r.l. in liquidazione e tra Boni Ivana e “Gruppo l’Albero della Vita” soc. coop. a r.l. Onlus, iscritte ai nn. 68 e 113 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12 e 17, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 dicembre 2006 il giudice relatore Romano Vaccarella.
Ritenuto che, con due ordinanze di contenuto pressoché identico, l’una del 22 dicembre 2005 e l’altra dell’8 febbraio 2006 il Tribunale di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera d), della legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato) «nella parte in cui sottrae al giudice del lavoro le controversie tra soci e cooperative di lavoro, relative a prestazioni rese dai soci ed attinenti all’oggetto sociale»;
che in entrambi i casi il giudice a quo è stato adito da soci lavoratori che, con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ., avevano rivendicato differenze retributive asseritamene maturate in forza dell’attività di lavoro subordinato prestata in favore della cooperativa di lavoro;
che, in punto di rilevanza, osserva il rimettente che la legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), dopo aver previsto, all’art. 1, comma 3, che «il socio lavoratore di cooperativa stabilisce», insieme al rapporto associativo, «un ulteriore e distinto rapporto di lavoro in forma autonoma o subordinata o in qualsiasi altra forma», espressamente attributiva all’art. 5, comma 2, le controversie relative ai rapporti di lavoro tra soci e cooperativa alla competenza funzionale del giudice del lavoro, devolvendo invece al giudice ordinario quelle inerenti al rapporto associativo;
che, conseguentemente, in forza del disposto dell’art. 40 cod. proc. civ., la controversia di lavoro tra socio e cooperativa finiva per attrarre nella competenza e nel rito del lavoro le cause connesse, pendenti tra le stesse parti e relative al rapporto associativo;
che essendo stato tale assetto normativo capovolto dall’art. 9, comma 1, lettera d), della legge n. 30 del 2003 – in base al quale «le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario» – tali controversie, se instaurate dopo il 1° gennaio 2004, vanno trattate con il cosiddetto rito societario di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, dovendosi per prestazione mutualistica intendere – a norma dell’art. 1 della legge n. 142 del 2001, che si riferisce alle «cooperative nelle quali il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio» – l’attività lavorativa resa dal socio lavoratore ed attinente all’oggetto sociale;
che il rimettente, dato atto che è stata prospettata da più parti, in dottrina e giurisprudenza, l’estraneità alla nozione di «prestazione mutualistica» dell’attività lavorativa resa dal socio di cooperativa di lavoro ed attinente all’oggetto sociale, osserva che tale opzione ermeneutica sarebbe smentita dalla chiara lettera dell’art. 1 della legge n. 142 del 2001 nonché dal rilievo, di carattere sistematico, che sarebbe difficilmente giustificabile, sul piano razionale, un intervento del legislatore di novellazione di una norma attraverso altra norma di contenuto sostanzialmente identico;
che, in punto di non manifesta infondatezza, il rimettente – ricordato che un risalente e consolidato indirizzo giurisprudenziale escludeva la natura subordinata della prestazione resa dal socio d’opera, purché inerente all’oggetto sociale, a prescindere dall’accertamento degli indici elaborati dalla giurisprudenza per la qualificazione di un rapporto come subordinato, e tale natura riconosceva solo nell’ipotesi di «sovvertimento dello schema tipico e del fine mutualistico della società» – osserva che in seguito la giurisprudenza ha sostituito al metodo cosiddetto sussuntivo quello cosiddetto tipologico, al fine di verificare l’analogia della posizione del socio lavoratore con quella del lavoratore subordinato, caratterizzate entrambe dall’alienità, presupposto indefettibile della fattispecie delineata nell’art. 2094 cod. civ.;
che tale analogia costituirebbe il filo conduttore di una massiccia evoluzione sia giurisprudenziale (con l’eccezione della sentenza n. 30 del 1996 di questa Corte, «influenzata da una esasperata ed astratta prospettiva contrattualistica») sia normativa, volta sempre più a parificare il socio delle cooperative di lavoro, che presti la sua attività in posizione di subordinazione, al lavoratore subordinato, essendo chiara al legislatore la sostanziale contrapposizione di interessi tra le due parti del rapporto;
che la legge n. 142 del 2001 – prevedendo all’art. 5, comma 2, che spettassero al giudice del lavoro le controversie attinenti al rapporto di lavoro tra socio e cooperativa – si sarebbe inserita nel trend normativo e giurisprudenziale innanzi delineato che, ispirato ai valori costituzionali, era volto a sancirne la piena equiparazione al rapporto di lavoro subordinato, laddove la soluzione adottata dal legislatore del 2003 rappresenterebbe una netta inversione di rotta, produttiva di effetti sul piano sostanziale, oltre che su quello processuale;
che, in particolare, l’applicazione alle controversie dei soci lavoratori del cosiddetto rito societario – e cioè di un modulo basato sull’assioma della parità delle parti e quindi privo di attenzione per il soggetto debole del rapporto e nel quale, per soprammercato, la comparsa del giudice è rimessa alla volontà delle parti e trasposta, in teoria, a un tempo indefinito – rappresenterebbe un brusco abbassamento delle garanzie, essendo connessa all’adozione delle nuove forme processuali l’inapplicabilità di norme protettive, come quella che attribuisce al giudice poteri istruttori officiosi (art. 421 cod. proc. civ.), quella che sancisce la rivalutazione automatica dei crediti del lavoratore (art. 429, quarto comma, cod. proc. civ.), quella che sottopone a un particolare regime le rinunzie e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro (art. 2113 cod. civ.), e, per contro, l’applicabilità della nuova disciplina della compromettibilità in arbitri in materia societaria, (art. 34 del decreto legislativo n. 5 del 2003) con conseguenze «devastanti» (tenuto anche conto della possibilità che gli arbitri vengano autorizzati a decidere secondo equità), e in stridente contrasto con tutto il sistema normativo, volto a bilanciare, in ottemperanza ai principi di cui agli artt, 3, 35 e 36 della Costituzione, la disparità di fatto tra le parti del rapporto di lavoro;
che, inoltre, il contrasto con l’art. 3 della Costituzione sussisterebbe sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento tra il socio di cooperativa e gli altri lavoratori subordinati (in particolare, che prestino la propria attività nell’ambito di rapporti lato sensu associativi, quali l’associazione in partecipazione o l’impresa familiare) e sotto il profilo della irragionevolezza di una opzione normativa in stridente e insanabile contrasto con la «scelta di fondo» già operata dal legislatore in parte qua;
che, in entrambi i giudizi è intervenuto, con la rappresentanza dell’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri il quale ha in primo luogo evidenziato che la questione sollevata dal giudice genovese avrebbe natura meramente interpretativa perché, seguendo l’interpretazione adeguatrice già effettuata dalla Corte di cassazione, con l’ordinanza 18 gennaio 2005, n. 8650 – la quale attribuisce alla locuzione «prestazione mutualistica» il significato di prestazione estranea all’attività lavorativa fornita dal socio alla cooperativa – la prestazione oggetto del giudizio a quo rientrerebbe de plano nella competenza del giudice del lavoro, con la conseguenza del venir meno di tutte le censure articolate dal giudice rimettente;
che, osserva il deducente, proprio la Corte costituzionale ebbe già a ritenere inammissibile, in quanto interpretativa, analoga questione con cui era stato denunciato l’art. 409, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., nella parte in cui tra i rapporti assoggettati al rito del lavoro non includeva anche quello del socio con la cooperativa di produzione e lavoro;
che, comunque, la scelta del rito appartiene alla discrezionalità del legislatore il quale, nel caso in esame, l’avrebbe esercitata in modo non arbitrario, assicurando al socio lavoratore una tutela giurisdizionale effettiva, secondo quanto prescritto dall’art. 24 Cost.;
che sarebbe irrilevante ogni censura relativa alla devolvibilità in arbitri delle controversie in parola, attesa che tale questione non è stata posta nel giudizio a quo;
che, con memorie successivamente depositate, l’Avvocatura dello Stato – contestata l’asserita inidoneità del cosiddetto rito societario a governare le controversie de quibus – sottolinea la peculiarità del rapporto tra socio lavoratore e cooperativa, peculiarità che di per sé sarebbe idonea a giustificare l’applicabilità del rito di cui al d. lgs. n. 5 del 2003 e che, peraltro, la sentenza n. 30 del 1996 ha riconosciuto tale da giustificare una disciplina processuale diversa da quella applicabile agli ordinari rapporti di lavoro.
Considerato che il Tribunale di Genova, con due ordinanze, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 35 e 36 della Costituzione, dell’art. 9, comma 1, lettera d) della legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato), nella parte in cui, sostituendo l’art. 5, comma 2, della legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), devolve al Tribunale ordinario le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica, e in tal modo sottrae tali controversie al giudice del lavoro al quale in precedenza erano attribuite;
che, essendo identica la questione sollevata dalle due ordinanze di rimessione, i relativi giudizi devono essere riuniti;
che la questione è manifestamente inammissibile, in quanto le argomentazioni poste a suo fondamento sono espressione, da un lato, di soggettivi giudizi di valore (quali, ad esempio, «l’esasperata ed astratta prospettiva contrattualistica» da cui sarebbe «viziata» la sentenza n. 30 del 1996 di questa Corte o il carattere «non paritario» del rito del lavoro) ovvero, dall’altro, di interpretazioni talvolta contraddittorie (la medesima norma che definisce la «prestazione mutualistica» e che consentiva la distinzione tra controversia associativa e controversie di lavoro, impedirebbe ora tale distinzione), talvolta prive di qualsiasi capacità persuasiva (l’applicabilità di norme sostanziali inderogabili verrebbe meno in ragione del rito al quale è assoggettata la controversia);
che siffatte argomentazioni sono palesemente inidonee a giustificare un sindacato di questa Corte su una materia, quale quella processuale, nella quale il legislatore incontra, per costante giurisprudenza costituzionale, il solo limite della manifesta irragionevolezza ed arbitrarietà (ex multis, v. sentenza n. 155 del 1992).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera d), della legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 35 e 36 Cost., dal Tribunale di Genova con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2006.
F.to:
Giovanni Maria FLICK, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 dicembre 2006.