Sentenza n. 239 del 2006

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SENTENZA N. 239

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Annibale              MARINI                        Presidente

- Franco                 BILE                                Giudice

- Giovanni Maria   FLICK                                   "

- Francesco            AMIRANTE                          "

- Ugo                     DE SIERVO                          "

- Romano               VACCARELLA                    "

- Paolo                   MADDALENA                     "

- Alfio                    FINOCCHIARO                   "

- Alfonso               QUARANTA                        "

- Franco                 GALLO                                 "

- Luigi                    MAZZELLA                         "

- Gaetano               SILVESTRI                           "

- Sabino                 CASSESE                              "

- Maria Rita           SAULLE                                "

- Giuseppe             TESAURO                             "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 8 aprile 2005, n. 7 (Interventi regionali per l'informazione, la prevenzione e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dalle molestie morali e psico-fisiche nell'ambiente di lavoro), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l'8 giugno 2005, depositato in cancelleria il 14 giugno 2005 ed iscritto al n. 67 del registro ricorsi 2005.

    Visto l'atto di costituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia;

    udito nell'udienza pubblica del 2 maggio 2006 il Giudice relatore Francesco Amirante;

    uditi l'avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia.

Ritenuto in fatto

    1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 8 aprile 2005, n. 7 (Interventi regionali per l'informazione, la prevenzione e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dalle molestie morali e psico-fisiche nell'ambiente di lavoro), in riferimento agli artt. 4 e 5 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), all'art. 117, secondo comma, lettere g) ed l), e terzo comma, e all'art. 118, primo comma, della Costituzione.

    In particolare, per quel che riguarda le censure riferite all'art. 117, secondo comma, lettere g) ed l), Cost., il ricorrente osserva come l'art. 1, comma 2, della legge regionale, intenda definire il mobbing con l'espressione «molestie morali e psico-fisiche nell'ambiente di lavoro», utilizzando, altresì, nell'art. 1, comma 1, le parole “esclusione sociale”, così evidenziando una tale indeterminatezza definitoria da rimettere ad organi amministrativi il potere di integrare i contenuti normativi, anzi di sostituirsi al legislatore statale, che sarebbe competente a dettare la nozione di mobbing. Questa sarebbe molto più ampia di quella di “molestia”, come definita nell'art. 2, par. 2, della direttiva n. 76/707/CEE del Consiglio, come sostituita dall'art. 1 della direttiva n. 2002/73/CE, che riguarda soltanto il comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona.

    Tuttavia la normativa europea rivelerebbe come l'applicazione delle norme sia affidata al giudice e non ad incontrollabili apparati amministrativi o ad altrettanto incontrollabili associazioni di volontari o sindacali. In tale ultimo senso sono invece dettate le previsioni dell'art. 2, relative ai “progetti” presentati da dette associazioni, che possono prevedere dei punti di ascolto, con compiti istruttori, i quali mantengono rapporti con le strutture pubbliche competenti.

    Dubbi suscita nel Presidente del Consiglio anche il punto di ascolto ed assistenza istituito presso ogni ASL, in ragione della previsione di convenzioni suscettibili di attivare incarichi esterni (come quello ad un giuslavorista, e non a due, ipotesi che parrebbe più corretta al ricorrente in quanto implicherebbe la possibilità di un contraddittorio).

    Ciò posto e premesso di aver proposto analoghi ricorsi avverso leggi delle Regioni Abruzzo e Umbria, il ricorrente, in ordine all'ipotizzato contrasto con l'art. 117, terzo comma, Cost., sostiene che la censurata normativa non si limita a dettare una disciplina di dettaglio nelle materie di competenza concorrente della tutela della salute e della tutela e sicurezza del lavoro. Il Presidente del Consiglio evoca, infine, anche un profilo di possibile eccesso dai limiti statutari, in riferimento agli artt. 4, 5 e 6 dello statuto speciale, non essendo la legge censurata riconducibile a nessuna delle materie ivi elencate e non potendo neppure essere qualificata come esercizio di competenza integrativa ed attuativa in mancanza di collegamento con  principi fondamentali.

    Tali argomentazioni sono state ribadite in una memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, ove il ricorrente sottolinea come la legge impugnata non si sia affatto astenuta dal formulare una propria definizione di mobbing, ma abbia, al contrario, fatto riferimento a nozioni «proprie» quale «molestie morali e psico-fisiche nell'ambiente di lavoro» (o «sul posto di lavoro»), «comportamenti discriminatori e vessatori protratti nel tempo», «qualità [...] delle relazioni sociali», ed «esclusione sociale». L'aggettivo «sociale» sarebbe stato utilizzato per mettere in ombra la sostanza civilistica, attinente cioè ai rapporti contrattuali (anche per quanto disciplinati da contrattazione collettiva) genericamente ipotizzati dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, il cui contenuto finirebbe col finanziare con denaro pubblico patronati ed associazioni di volontariato, perché – presentato un «progetto» – svolgano una attività sostanzialmente amministrativa destinata ad affiancarsi ai normali rimedi offerti dall'ordinamento in caso di illeciti contrattuali.

    E' facile prevedere – a parere dell'Avvocatura – che i soggetti privati finanziati saranno portati ad enfatizzare l'accreditamento ad essi attribuito, a promuovere (mediante professionisti legali «organici») l'instaurazione di controversie civili e ad ingerirsi nelle dinamiche interne di impresa e di apparati amministrativi (anche statali). Anche se non esclude che la Regione possa dotarsi di strumenti conoscitivi del «fenomeno» di che trattasi e neppure che essa possa tener conto del mobbing nell'organizzare talune strutture del Servizio sanitario, il ricorrente ritiene, tuttavia, che la legge impugnata vada oltre, quando – soprattutto all'art. 2 e all'art. 3, commi l, 2 e 3 – «accredita» operatori variamente motivati ad interferire nei rapporti civilistici (o addirittura nei rapporti non contrattualizzati con dipendenti statali).

    2.— Si è costituita in giudizio la Regione Friuli-Venezia Giulia, concludendo per il rigetto del ricorso sul rilievo che la legge impugnata non ha dettato norme interferenti con l'ordinamento civile e penale o con l'organizzazione statale, né aventi carattere di principio fondamentale nelle materie della tutela del lavoro e della salute, ma si è limitata a prevedere – e, in parte, a finanziare – attività di sostegno, di studio e di formazione al fine di diminuire l'incidenza delle molestie nei luoghi di lavoro, a tutela dei lavoratori.

    In particolare, la Regione eccepisce l'inammissibilità, per genericità, della prima censura là dove imputa all'art. 1 della legge in argomento la vaghezza e la inadeguatezza delle espressioni usate, contestando che la disposizione ponga una normativa in bianco, dato che il concetto di «molestie morali e psico-fisiche nell'ambiente di lavoro» è sufficientemente chiaro per guidare l'esercizio della discrezionalità amministrativa. Anche la seconda censura sarebbe inammissibile per genericità, non essendo indicato alcun parametro costituzionale e non risultando chiaro se si tratti di censura relativa alla legittimità piuttosto che al merito, con riguardo al quale la doglianza sarebbe non fondata, in quanto la previsione di progetti delle associazioni di volontariato contro le molestie morali e psico-fisiche sul posto di lavoro è perfettamente logica, dal momento che la tutela dei dipendenti, parti deboli del rapporto di lavoro, viene istituzionalmente svolta da quelle associazioni.

    Inoltre, l'art. 2 prescrive requisiti di competenza per le associazioni in questione e prevede che i progetti possano essere presentati anche da «organizzazioni datoriali di categoria»: come è ovvio, dato che la diminuzione dell'incidenza delle molestie è un interesse anche delle aziende e delle pubbliche amministrazioni. Il fenomeno del mobbing non si svolge infatti tra «controparti», ma riguarda in generale le dinamiche delle relazioni interpersonali negli ambienti di lavoro. D'altra parte anche l'elenco dei compiti dei «punti di ascolto», di cui all'art. 3, dimostra l'infondatezza del timore che la legge regionale voglia conferire a soggetti esterni poteri tali da «penalizzare» gli interessi dei datori di lavoro.

    Scarsamente comprensibile sarebbe poi la censura relativa alla presenza di un solo giuslavorista e l'auspicio della presenza di due giuslavoristi: non si tratta, infatti, di regolare una contrapposizione ideologica, né di organizzare una dialettica di tipo processuale, ma di fornire sostegno alle persone che ne hanno bisogno con professionisti competenti.

    Peraltro le questioni in cui viene evocato l'art. 117, secondo comma, lettere g) ed l), Cost., sarebbero inammissibili per omessa illustrazione dell'applicabilità degli evocati parametri alla Regione a statuto speciale. Nel merito, le stesse sarebbero infondate, quanto al primo profilo, perché nessuna norma della legge impugnata incide o può incidere sull'organizzazione degli uffici statali, essendo previste solo attività di studio, formazione e sostegno, pienamente rientranti nelle materie “tutela del lavoro”, “tutela della salute” e “formazione professionale”; quanto al secondo aspetto, non vi sarebbe alcuna incidenza «sui rapporti civilistici interpersonali, non soltanto di lavoro e di impresa», perché, infatti, la legge prevede attività «esterne» ai rapporti di lavoro, a fini di sostegno, studio e formazione, e non fa sorgere alcun obbligo a carico del datore di lavoro, né prevede alcun intervento degli organismi di sostegno nei luoghi di lavoro. Il fatto che le molestie possano dar luogo ad illeciti contrattuali non impedisce alla Regione di occuparsi delle conseguenze di esse e di cercare di prevenirle, nell'esercizio delle proprie competenze in materia di organizzazione amministrativa, tutela del lavoro, tutela della salute e formazione professionale.

    La censura in relazione alla quale sono stati evocati gli artt. 4 e 5 dello statuto speciale sarebbe poi infondata, posto che, da un lato, la legge regionale n. 7 del 2005 regola materie assegnate dallo statuto alla competenza legislativa regionale (ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale ad essi addetto; istruzione artigiana e professionale successiva alla scuola obbligatoria; igiene e sanità, assistenza sanitaria ed ospedaliera), e, dall'altro, alla Regione Friuli-Venezia Giulia si applicano, in base all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, le norme del Titolo V della parte seconda della Costituzione per essa più favorevoli, cioè quelle che prevedono la competenza concorrente in materia di “tutela del lavoro” e “tutela della salute” e quella che prevede la competenza regionale piena in materia di “formazione professionale”.

    Sarebbero altresì impropriamente evocati sia l'art. 117, terzo comma, Cost., in quanto le Regioni possono adottare norme legislative nelle materie di competenza concorrente senza attendere l'entrata in vigore delle leggi-cornice, sia l'art. 6 dello statuto (che affida alla Regione Friuli-Venezia Giulia competenza integrativa-attuativa in materia di “lavoro”), perché tale norma non forma più la base ed il parametro della competenza regionale in materia di “tutela del lavoro”, a seguito dell'entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001 che ha corrispondentemente ampliato la potestà legislativa della Regione Friuli-Venezia Giulia.

    Sarebbe, infine, inammissibile la censura sollevata in riferimento all'art. 118, primo comma, Cost., per difetto di motivazione.

Considerato in diritto

    1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, in riferimento agli artt. 4 e 5 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia (approvato con legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1), all'art. 117, secondo comma, lettere g) ed l), e terzo comma, e all'art. 118, primo comma, della Costituzione, la legge della suindicata Regione 8 aprile 2005, n. 7 (Interventi regionali per l'informazione, la prevenzione e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dalle molestie morali e psico-fisiche nell'ambiente di lavoro), perché la materia oggetto della medesima non sarebbe prevista da alcuna norma statutaria e la sua disciplina sarebbe invasiva delle competenze legislative statali nelle materie dell'ordinamento civile e dell'ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali.

    Il ricorrente sostiene, altresì, che la legge impugnata attiene anche alla tutela della salute e alla tutela e sicurezza del lavoro, materie entrambe di competenza legislativa concorrente, e non si limita a dettare disposizioni di dettaglio.

    L'Avvocatura dello Stato, inoltre, a conforto delle proprie tesi richiama la sentenza di questa Corte n. 359 del 2003, con la quale fu dichiarata l'illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro).

    Il ricorrente rileva che l'espressione «molestie morali e psico-fisiche» usata dal legislatore regionale, per la sua indeterminatezza, implica la successiva emanazione di atti amministrativi in materie riservate allo Stato. Inoltre la nozione di mobbing sarebbe molto più complessa rispetto a quella di molestie così come è definita anche dalla normativa comunitaria, dal momento che le molestie costituiscono soltanto uno dei modi in cui può attuarsi il mobbing.

    La legge censurata, infine, prevede la costituzione di organismi cui affidare compiti comportanti l'intrusione in non meglio definiti ambienti di lavoro, rendendo possibile l'invasione di organismi regionali in ambiti riservati allo Stato.

    2.— In via preliminare, si rileva l'ammissibilità del ricorso ancorché concerna un'intera legge, in quanto, come già ritenuto in casi analoghi (sentenza n. 359 del 2003 e sentenze ivi citate, nonché sentenza n. 22 del 2006), l'omogeneità della normativa in esame consente di individuare l'oggetto e le ragioni dello scrutinio richiesto.

    Ancora in via preliminare, si osserva che le modifiche introdotte dagli artt. da 66 a 70 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 9 agosto 2005, n. 18 (Norme regionali per l'occupazione, la tutela e la qualità del lavoro), agli artt. 3, 4, 5, 6, 7 e 8 della legge impugnata sono di natura terminologica e formale, tali, comunque, da non incidere sostanzialmente sul contenuto normativo delle disposizioni impugnate. Ne consegue che le questioni devono essere trasferite sulle nuove disposizioni (ordinanza n. 137 del 2004, sentenza n. 533 del 2002).

    3.— Nel merito, il ricorso non è fondato.

    Il richiamo alla sentenza n. 359 del 2003 non giova al ricorrente perché la legge della Regione Lazio, con la medesima pronuncia dichiarata illegittima, era sostanzialmente diversa dalla legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, oggetto del presente scrutinio.

    Con la sentenza citata, questa Corte – dopo aver premesso che il mobbing, unitariamente considerato dalle scienze sociali, ma privo di una specifica disciplina statale, è fenomeno complesso connotato da una pluralità di aspetti, alcuni dei quali ricondotti dai giudici comuni sotto le previsioni dell'art. 2087 del codice civile – rilevò che esso, con riguardo alla condotta degli autori dei comportamenti vessatori e ai rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, inerisce anche all'ordinamento civile, mentre per i profili concernenti le conseguenze patologiche sulla vittima di per sé considerate è attinente alla tutela della salute e alla tutela e sicurezza del lavoro. La definizione del mobbing contenuta nella legge citata era onnivalente e la Regione Lazio aveva reso manifesto che essa attuava il proposito di intervenire «nelle more dell'emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia».

    La constatazione che la legge regionale, fondata su un'autonoma definizione del complesso fenomeno sociale, lo disciplinava in molteplici suoi aspetti, alcuni dei quali rientranti in competenze dello Stato, fu quindi alla base della dichiarazione di illegittimità costituzionale.

    La legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 7 del 2005, oggetto del ricorso in esame presenta, invece, elementi di analogia – come fa rilevare lo stesso ricorrente – con la legge della Regione Abruzzo 11 agosto 2004, n. 26 (Intervento della Regione Abruzzo per contrastare e prevenire il fenomeno mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro), passata indenne attraverso lo scrutinio di costituzionalità (sentenza n. 22 del 2006).

    Anche nel caso in esame la legge censurata non formula una definizione del mobbing con valenza generale, ma ha riguardo soltanto ad alcuni suoi aspetti non esorbitanti dalle competenze regionali ordinarie e ancor meno da quelle statutarie della Regione Friuli-Venezia Giulia, la cui violazione il ricorrente evoca in via subordinata, ma sulle quali la stessa Regione ritiene ormai prevalere il nuovo riparto di competenze. L'incompletezza della definizione, anche con riguardo alle nozioni di diritto comunitario, è quindi correlativa al carattere parziale e volutamente non esaustivo della regolamentazione legislativa regionale (come si evince dagli atti consiliari contenenti i lavori preparatori della stessa legge regionale).

    Se, poi, l'inesistenza di una definizione generale dovesse condurre la Regione all'emanazione di atti amministrativi esorbitanti dalle proprie competenze o, comunque, contrastanti con parametri costituzionali, per la repressione di tali fenomeni, come questa Corte ha già affermato, l'ordinamento appronta gli opportuni rimedi di giustizia costituzionale e comune (sentenza n. 22 del 2006). Quest'ultimo rilievo vale anche a motivare l'infondatezza delle censure concernenti la genericità delle previsioni della legge riguardo ai paventati interventi nei luoghi di lavoro, all'eventuale accertamento di casi di mobbing ed all'istituzione di “punti di ascolto” presso le ASL.

    Si deve, infatti, considerare che, anche al di fuori del controllo incidentale di legittimità costituzionale, vale il principio secondo il quale una disposizione di legge non può essere dichiarata illegittima soltanto perché tra le varie opzioni interpretative e applicative se ne possa ipotizzare qualcuna lesiva di norme costituzionali.

    In conclusione, anche per l'impugnata legge della Regione Friuli-Venezia Giulia può ribadirsi ciò che si è ritenuto riguardo alla legge n. 26 del 2004 della Regione Abruzzo, e cioè che «essa non ha oltrepassato i limiti della competenza che già questa Corte ha riconosciuto alle Regioni quando ha affermato che esse possono intervenire con propri atti normativi anche con misure di sostegno idonee a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili ed a prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 8 aprile 2005, n. 7 (Interventi regionali per l'informazione, la prevenzione e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dalle molestie morali e psico-fisiche nell'ambiente di lavoro), sollevata, in riferimento agli artt. 4 e 5 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), all'art. 117, secondo comma, lettere g) ed l), e terzo comma, e all'art. 118, primo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2006.

Annibale MARINI, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 22 giugno 2006.