ORDINANZA N. 39
ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Fernanda CONTRI Presidente
- Guido NEPPI MODONA Giudice
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), come modificato dall’art. 43 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 [recte: decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80], promosso dal Consiglio di Stato con ordinanza del 13 gennaio 2004 sul ricorso proposto da M. G. contro G. E. ed altro, iscritta al n. 493 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visti gli atti di costituzione di M. G. e di G. E. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 14 dicembre 2004 il Giudice relatore Francesco Amirante;
uditi gli avvocati Raffaele Versace per M. G., Fabio Lorenzoni per G. E. e l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che nel corso di un giudizio di appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, di annullamento degli atti del concorso per il posto di direttore del museo del Comune di Bassano del Grappa, il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), come modificato dall’art. 43 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 [recte: decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80];
che il giudice a quo premette in punto di fatto che nella procedura di concorso in contestazione l’attuale appellata aveva sostenuto la prova scritta, valutata come insufficiente, con conseguente esclusione dalle prove successive e che il concorso si era poi concluso con la nomina a vincitore dell’odierno appellante;
che a seguito dell’accoglimento del ricorso della prima avverso il provvedimento di esclusione – fondato sulla violazione dell’art. 9, comma 2, del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), in base al quale almeno un terzo dei posti dei componenti delle commissioni di concorso è riservato alle donne – il Comune aveva dato esecuzione alla sentenza, licenziando il vincitore e includendo in una nuova commissione giudicatrice un commissario di sesso femminile;
che in esito alla rinnovata procedura era risultata vincitrice l’appellata;
che il Consiglio di Stato – dopo aver richiamato il contenuto della norma impugnata ed aver osservato che la disposizione regolamentare di cui al menzionato art. 9, comma 2, trova il proprio fondamento nell’art. 61 del d.lgs. n. 29 del 1993 – dichiara di condividere la tesi del giudice di primo grado circa l’applicabilità di tale complesso normativo anche alle procedure di concorso indette dai Comuni;
che, quanto alla rilevanza, il remittente rileva che l’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 487 del 1994 si basa integralmente sull’impugnato art. 61, che è attualmente vigente nella disposizione, d’identico contenuto, di cui all’art. 57 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sicché l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma primaria si tradurrebbe nella conseguente inapplicabilità della citata norma regolamentare, con corrispondenti riflessi sull’esito della decisione dell’appello;
che, d’altra parte, l’applicabilità della normativa in questione, relativa alla presenza obbligatoria delle donne nella commissione giudicatrice, contestata dall’appellante con il secondo motivo d’appello, costituisce l’unica restante – e quindi decisiva – questione sottoposta all’esame del remittente;
che il Consiglio di Stato richiama, a sostegno della non manifesta infondatezza della sollevata questione, la sentenza n. 422 del 1995 di questa Corte, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni di legge che imponevano la presenza di candidati d’ambo i sessi nelle liste elettorali;
che la disposizione impugnata appare al Consiglio di Stato tale da imporre la presenza di donne per almeno un terzo nelle commissioni di concorso, con la asserita e irragionevole conseguenza che una commissione risulterebbe legittimamente composta se formata di sole donne, mentre sarebbe illegittimamente composta se formata di soli uomini;
che, oltre a ciò, la norma appare al remittente in contrasto col principio di razionalità in quanto, se il suo obiettivo è quello «di garantire pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro», la pari opportunità deve essere quella finalizzata al conseguimento del posto di lavoro e non alla partecipazione alle commissioni esaminatrici;
che, anche ragionando diversamente, la disposizione sembra comunque irragionevole, perché finisce con l’affermare implicitamente che i commissari di concorso tendono a favorire i colleghi del loro sesso;
che qualora, invece, l’impugnato art. 61 del d.lgs. n. 29 del 1993 dovesse intendersi come norma volta a consentire la pari opportunità nell’accesso alle commissioni esaminatrici, esso sarebbe ugualmente irrazionale, in quanto imporrebbe la scelta dei commissari non in base all’unico criterio della competenza specifica – espressamente indicato nell’art. 36, comma 3, lettera e), del medesimo decreto n. 29 del 1993 – bensì anche in base all’ulteriore fattore dell’appartenenza ad un sesso, nella specie quello femminile, ritenuto svantaggiato;
che dal complesso di ragioni ora elencate deriverebbe la necessità di una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta infondatezza della questione, sul principale assunto secondo cui non vale più richiamare la sentenza n. 422 del 1995 di questa Corte, in quanto emessa prima della modifica dell’art. 51 Cost. operata dalla legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1 (Modifica dell’articolo 51 della Costituzione), che ha aggiunto al primo comma un ulteriore periodo in base al quale «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», in presenza del quale l’ordinanza del Consiglio di Stato appare carente di motivazione, non avendo tenuto conto del fatto che la riforma costituzionale è palesemente orientata nel senso di rimuovere gli ostacoli ad una adeguata presenza femminile nel mondo istituzionale;
che nella medesima direzione, inoltre, andrebbero considerati anche altri recenti interventi normativi: la legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano), che, integrando gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata, ha espressamente attribuito alle leggi elettorali delle Regioni il compito di promuovere «condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali»; la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che ha introdotto nel corpo dell’articolo 117 un’espressa previsione (settimo comma) sulle pari opportunità con riguardo alle leggi regionali; nonché la legge 8 aprile 2004, n. 90 (Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell’anno 2004), concernente le elezioni dei membri del Parlamento europeo, secondo cui, al momento della formazione delle liste elettorali, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati;
che, in tale ottica, l’Avvocatura richiama la sentenza n. 49 del 2003 di questa Corte, nella quale si sarebbe operata una netta inversione di tendenza rispetto alle argomentazioni sostenute nella sentenza n. 422 del 1995;
che, quindi, la norma impugnata sarebbe coerente con il mutato quadro normativo in quanto, introducendo un vincolo legale nella formazione delle commissioni di concorso per il reclutamento nel pubblico impiego, non andrebbe ad incidere sul fondamentale diritto dei cittadini, dell’uno e dell’altro sesso, di partecipare in piena uguaglianza ad un concorso pubblico, bensì sulla formazione delle scelte dell’Amministrazione pubblica in merito ai componenti della commissione;
che l’Avvocatura dello Stato, inoltre, sottolinea come la norma sia volta a creare le condizioni per un’effettiva partecipazione delle donne ai processi decisionali pubblici, in linea con una scelta politica che trova piena rispondenza nella situazione attuale della pubblica amministrazione, ove è ancora necessario correggere uno squilibrio di fatto esistente a svantaggio delle donne;
che nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituito l’appellante, chiedendo la declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma impugnata;
che si è altresì costituita in giudizio l’appellata che ha concluso per la declaratoria di irrilevanza ovvero di infondatezza della questione, ribadendo tali conclusioni anche in un’ampia memoria depositata in prossimità dell’udienza;
che quest’ultima, dopo aver sostenuto la mera ipoteticità della questione, ha posto particolarmente l’accento sulla fondamentale importanza della modifica dell’art. 51 Cost., ignorata dall’ordinanza di rimessione, nonché sulla piena conformità della disposizione impugnata alla normativa comunitaria.
Considerato che il Consiglio di Stato dubita, in riferimento agli artt. 3 e 51 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 61, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), come modificato dall’art. 43 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80;
che con la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, è stato aggiunto un periodo al primo comma dell’indicato art. 51 con il quale si è prescritto che, al fine di consentire ai cittadini di entrambi i sessi di «accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini»;
che nel nuovo testo la norma non si limita più a disporre che «la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa» (v. sentenza n. 33 del 1960) e, quindi, a costituire una sorta di specificazione del principio di uguaglianza enunciato, a livello di principio fondamentale, dall’art. 3, primo comma, Cost. (v. sentenze n. 188 del 1994 e n. 422 del 1995), ma assegna ora alla Repubblica anche un compito di promozione delle pari opportunità tra donne e uomini;
che, di conseguenza, per l’esame dell’attuale questione il primo comma dell’art. 51 Cost. nel testo attualmente vigente assume un ruolo assorbente;
che con riguardo all’art. 51 Cost. l’ordinanza non è adeguatamente motivata, in quanto il giudice remittente si limita a richiamare la sentenza di questa Corte n. 422 del 1995, senza alcun riferimento alla sopravvenuta modifica di tale norma costituzionale;
che, pertanto, la carenza argomentativa dell’ordinanza di rimessione si traduce in una determinante mancanza di motivazione sul parametro costituzionale evocato e sulla non manifesta infondatezza della questione, in quanto il richiamo esclusivo sul punto alla sentenza n. 422 del 1995 di questa Corte induce a ritenere che il Consiglio di Stato remittente abbia inteso riferirsi al vecchio testo della disposizione costituzionale, senza specificare le ragioni di tale scelta e senza una complessiva valutazione delle sopravvenienze legislative e del contesto globale della giurisprudenza di questa Corte (v. sentenza n. 49 del 2003 ed ordinanza n. 172 del 2001);
che la questione deve, quindi, essere dichiarata manifestamente inammissibile (v., ex plurimis, ordinanze n. 191 del 1992, n. 357 del 2001, n. 200 del 2003).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), come modificato dall’art. 43 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 2005.
Fernanda CONTRI, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2005.