SENTENZA N. 220
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Riccardo CHIEPPA Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
- Valerio ONIDA ”
- Carlo MEZZANOTTE ”
- Fernanda CONTRI ”
- Guido NEPPI MODONA ”
- Piero Alberto CAPOTOSTI ”
- Annibale MARINI ”
- Franco BILE ”
- Giovanni Maria FLICK ”
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Alfio FINOCCHIARO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 63,
66, 274, comma 1, lettera l, e 275 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267
(Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), promossi con
ordinanze del 16 novembre 2002 dal Tribunale di Forlì e del 20 novembre 2002
dal Tribunale di Macerata, iscritte ai nn. 12 e 33
del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4
e 7, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visti
gli atti di costituzione di Giancarlo Biserna ed altro, di Franco Rusticali, di Roberto Gaetani e di Erminio Marinelli
nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica
dell’8 aprile 2003 il Giudice relatore Valerio Onida;
uditi gli avvocati Antonio Zavoli
e Paolo Santoro per Giancarlo Biserna ed altro, Guido
Calvi per Franco Rusticali, Roberto Gaetani per se
medesimo, Ubaldo Perfetti e Ranieri Felici per Erminio Marinelli
nonché l’avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso depositato il 7 agosto
2001 due elettori del Comune di Forlì promuovevano azione popolare per
la decadenza dalla carica di sindaco, conseguita nelle elezioni del giugno
1999, di Franco Rusticali, per incompatibilità con la qualità di dipendente – e
segnatamente di primario ospedaliero – dell’Azienda USL di quella città, a
norma degli artt. 3 e 8, numero 2, della legge 23 aprile 1981, n. 154, vigente
all’epoca della consultazione elettorale.
L’adito Tribunale di Forlì, rilevato anzitutto che le
disposizioni disciplinanti la dedotta causa di incompatibilità
erano in vigore all’epoca delle elezioni (giugno 1999) ma non al momento della
introduzione del giudizio (agosto 2001), essendo stata abrogata la legge n. 154
del 1981 dall’art. 274, comma 1, lettera l,
del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali), il quale negli articoli da
Sulla base di tale
premessa interpretativa, con ordinanza del 20 dicembre 2001 (r.o. n. 108 del 2002) sollevava questione di legittimità
costituzionale dell’art. 274, comma 1, lettera l, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nella parte in cui, abrogando
la legge n. 154 del 1981, non fa salva l’incompatibilità prevista dall’art. 8,
numero 2, quanto alla funzione di primario di divisione nella locale unità
sanitaria, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, per eccesso di
delega, nonché in riferimento agli artt. 97 e 3 della Costituzione;
"corrispondentemente e per gli stessi motivi” denunciava altresì gli artt. 63 e
66 del d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità
della carica di sindaco con la funzione di primario di divisione nella locale
unità sanitaria.
Con l’ordinanza n. 398 del 2002 questa Corte dichiarava la
questione manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla
rilevanza. Osservava infatti come l’ordinanza di
rimessione riferisse che il Sindaco eletto, resistendo alla domanda diretta a
farne pronunciare la decadenza per incompatibilità, aveva eccepito fra l’altro
l’inammissibilità dell’azione popolare per il mancato rispetto del termine
perentorio di cui all’art. 82 del d.P.R. 16 maggio
1960, n. 570 (ai cui sensi il ricorso contro le deliberazioni del consiglio
comunale in materia di eleggibilità deve essere proposto entro il termine
perentorio di trenta giorni dalla data finale di pubblicazione, ovvero dalla
data di notificazione, quando sia necessaria, della deliberazione impugnata),
richiamato dall’art. 70, comma 3, del testo unico approvato con d.lgs. n. 267
del 2000 (che, nel disciplinare l’azione giudiziale popolare per la dichiarazione
di decadenza degli amministratori locali, dispone che per tali giudizi si
osservano le norme di procedura e i termini stabiliti dal citato art. 82 del d.P.R. n. 570 del 1960). E rilevava che, nondimeno, il
remittente aveva omesso qualsiasi motivazione in ordine alle
ragioni che lo avevano indotto a non pronunciarsi su detta eccezione,
logicamente preliminare, sollevando, invece, una questione di legittimità
costituzionale rilevante solo ai fini della decisione di merito ad esso
richiesta.
Con successiva ordinanza del 16 novembre 2002, pervenuta a
questa Corte l’8 gennaio 2003 (r.o.
n. 12 del 2003), il Tribunale di Forlì, nel corso del medesimo giudizio, ha
nuovamente sollevato la questione.
Anzitutto il remittente disattende l’eccezione, sollevata dalla
parte resistente, di improcedibilità del ricorso, con
conseguente estinzione del giudizio, per l’asserita inesistenza della notifica
del ricorso in riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza, derivante
dall’essere stato quest’ultimo notificato in copia semplice non autenticata dal
cancelliere. Al riguardo, il giudice a
quo osserva, tra l’altro, che, quand’anche si volesse ritenere inesistente
la notifica del decreto in copia, tale vizio, che comunque non si
comunicherebbe alla riassunzione, perfezionatasi con il tempestivo deposito del
ricorso, è comunque sanato ex nunc dalla costituzione del resistente, avvenuta nella
specie prima della scadenza del termine per la riassunzione del
giudizio.
In secondo luogo, il remittente esplicita
i motivi in base ai quali ritiene non condivisibile l’eccezione di
inammissibilità dell’atto introduttivo per tardività, osservando che l’azione
popolare autonoma proponibile direttamente al tribunale civile non soggiace ad
alcun termine di decadenza, a differenza dell’impugnazione della delibera del
Consiglio comunale, da proporsi nel termine di trenta giorni a norma dell’art.
82 del d.P.R. n. 570 del 1960. Il richiamo, contenuto
nell’art. 70 del d.lgs. n. 267 del 2000, che
disciplina l’azione popolare, all’applicazione delle norme di procedura e dei
termini stabiliti dall’art. 82 del d.P.R. n. 570 del
1960, infatti, sarebbe riferito ai termini che scandiscono lo svolgimento del
giudizio una volta promosso con l’esercizio dell’azione popolare, non
comportando l’assoggettamento di quest’ultima al termine di decadenza
espressamente previsto dal detto art. 82 solo per l’impugnativa della delibera.
Se, infatti, anche l’azione popolare autonoma dovesse essere esercitata nel
termine di trenta giorni dalla delibera di convalida degli eletti (che, ai
sensi dell’art. 41 del d.lgs. n. 267 del 2000, viene
obbligatoriamente adottata ancorché non provocata da alcun reclamo), sarebbe
vanificata l’alternatività fra i due rimedi previsti
dall’art. 9-bis del d.P.R. n. 570 del 1960, oggi trasfuso negli artt. 69 e 70
del testo unico del 2000.
Quanto al merito della questione di legittimità
costituzionale, in ordine al lamentato eccesso di
delega, il giudice a quo osserva che
l’art. 31 della legge 3 agosto 1999, n. 265 (Disposizioni in materia di
autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno
1990, n. 142), ha conferito al Governo la delega per l’adozione, con decreto
legislativo, di un testo unico "nel quale sono riunite e coordinate le
disposizioni legislative vigenti in materia di ordinamento” degli enti locali,
indicando in particolare, fra le leggi cui il legislatore delegato avrebbe
dovuto avere riguardo, la legge n. 154 del 1981. Il potere normativo delegato,
essendo testualmente limitato ad una funzione di
unificazione e di coordinamento di norme vigenti, anche se inteso non come
attività di mera compilazione, non potrebbe estendersi sino all’innovazione
sostanziale e all’abrogazione di norme esistenti, operazione istituzionalmente
sottoposta alla decisione del Parlamento e comunque estranea alla funzione di
sistemazione e comodità applicativa del testo unico. Nella fattispecie
concreta, ad avviso del remittente, l’abrogazione dell’art. 8
della legge n. 154 del 1981 non sarebbe rispondente ad alcuna esigenza di
coordinamento e di coerenza dell’assetto normativo nella materia. In
particolare, l’abrogazione della incompatibilità fra
la carica di sindaco e la funzione di primario ospedaliero, anche se fosse
ricompresa nel potere normativo delegato al Governo, colliderebbe con i
principi di imparzialità e di buon andamento della Pubblica Amministrazione di
cui all’art. 97 della Costituzione, né si giustificherebbe sotto il profilo dei
principi di uguaglianza e di ragionevolezza, rispetto alla previsione di altre
cause di incompatibilità legate alle nuove figure dirigenziali sanitarie.
Infatti, prosegue il giudice a quo,
alla stregua degli argomenti sviluppati dalla Corte di
cassazione (da ultimo, con la sentenza n. 16205 del 2000), pur dopo la
ristrutturazione delle USL operata dal d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502
(Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della
L. 23 ottobre 1992, n. 421), che ha comportato un arretramento dei poteri
gestori del comune nei confronti delle ASL operanti nel suo territorio,
sarebbero tuttora sussistenti funzioni di controllo e di indirizzo dell’ente
locale nei confronti delle nuove aziende, e non sarebbero quindi venute meno le
ragioni ispiratrici dell’art. 8 della legge n. 154 del 1981, "permanendo nel
quadro di disciplina dello stesso d.lgs. n. 502 del 1992 come anche meglio
definito dal successivo d.lgs. n. 229 del 1999, un ruolo rilevante del sindaco
(da solo o nel più ampio contesto della
conferenza dei sindaci) nella formazione del programma, nell’indirizzo
sanitario e nel controllo contabile della ASL, evidenziante un’immanente
possibilità di conflitto di interessi tra sindaco e componente della struttura
sanitaria”.
Nel nuovo sistema introdotto dal d.lgs. n. 502 del 1992 – il
riferimento è, in particolare agli artt. 3, comma 14,
3-bis, 3-ter – ed in base agli artt. 180 e 181 della legge della Regione
Emilia Romagna 21 aprile 1999, n. 3, sono infatti previsti pregnanti poteri di
controllo del Sindaco e della Conferenza dei sindaci, oggi Conferenza sanitaria
territoriale, sull’operato dell’azienda USL e del direttore generale, il quale
a sua volta decide sulle responsabilità del dirigente di struttura complessa,
cioè del primario.
Né, infine, l’esame dei lavori preparatori della legge delega n. 265 del 1999 e del decreto legislativo n. 267 del 2000 offrirebbe elementi o spunti di valutazione in ordine alle ragioni giustificatrici della abrogazione in discorso.
Corrispondentemente e per gli stessi motivi, il giudice a quo ritiene di sollevare questione di
legittimità costituzionale degli artt. 63 e 66 del
decreto legislativo n. 267 del 2000, nella parte in cui non prevedono
l’incompatibilità della carica di sindaco con la funzione di primario di
divisione nella locale Unità sanitaria.
2. – Si sono costituiti i due elettori del Comune di Forlì
attori popolari nel giudizio a quo,
chiedendo, in via principale, di "rigettare” la questione "per inammissibilità,
irrilevanza o infondatezza”; in subordine, di dichiarare costituzionalmente
illegittimo il d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui si ritenga abbia
abrogato l’art. 8 della legge n. 154 del 1981, per
contrasto con la legge di delega, in violazione dell’art. 76 della
Costituzione.
L’inammissibilità della questione viene
eccepita in relazione al presupposto dal quale muove il remittente, e cioè che
sia applicabile la disciplina in materia di incompatibilità vigente al momento
della proposizione dell’azione giudiziale, e non quella in vigore all’epoca
delle elezioni. Ad avviso della parte, il giudice a quo avrebbe così negato il principio tempus regit actum,
affermando invece "che le leggi siano sempre retroattive (tale aberrazione viene chiamata "diritto vivente”) e quindi le leggi
successive regolino i fatti precedenti anche se maturati e definitivamente
realizzati e compiuti in tempi precedenti”. A conforto del rilievo, la parte
richiama numerosi precedenti di questa Corte e della Corte di
cassazione, nonché di giudici amministrativi e contabili, sul principio
di irretroattività della legge e sul principio tempus regit actum in
materia processuale, anche penale. In ordine alla
"incompatibilità-decadenza”, osserva, in particolare, che essa sarebbe sorta,
nella fattispecie, all’atto della proclamazione dell’eletto, maturando
definitivamente nel giugno del 1999, e che la sentenza che si pronunci in
merito avrebbe natura dichiarativa con effetti ex tunc, sicché la disciplina applicabile
sarebbe la legge n. 154 del
Qualora, invece, si dovesse ritenere superabile il principio tempus regit actum, e così applicabile la disciplina del d.lgs. n.
267 del
3. – Si è altresì costituito Franco Rusticali, Sindaco eletto
del Comune di Forlì, resistente nel giudizio a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente
inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.
Dopo avere eccepito vizi nell’instaurazione del
contraddittorio nella riassunzione del giudizio dopo la pronuncia di questa
Corte, ed avere insistito nell’eccezione di tardività
della proposizione dell’azione popolare, in ordine alla quale il remittente non
avrebbe correttamente motivato con l’ordinanza in esame, la parte illustra i
motivi in forza dei quali le questioni sollevate sarebbero infondate.
La prima questione, avente ad
oggetto le disposizioni del testo unico n. 267 del 2000 che da un lato hanno
abrogato la legge n. 154 del 1981, e dall’altro non hanno contemplato la causa
di incompatibilità da esso già prevista all’art. 8, n. 2, sarebbe infondata, in
quanto già al momento del conferimento della delega legislativa, racchiusa
nell’art. 31 della legge n. 265 del
In ordine al primo
profilo della seconda questione di legittimità costituzionale, avente ad
oggetto la mancata previsione, tra le figure ritenute incompatibili con la
carica elettorale nel comune, di quella del primario ospedaliero, non sarebbe
dato ravvisare, secondo la parte, nessuna violazione dell’art. 3 della
Costituzione. La distinzione, operata dal t.u. del 2000, del livello latamente politico-gestorio
nell’ambito del mondo sanitario [art. 66: direttore generale, direttore
amministrativo e direttore sanitario delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere], da quello più propriamente tecnico
professionale, avrebbe costituito da parte del legislatore un’operazione di per
sé logica, sfuggente ad ogni possibile censura, essendo state individuate le
cause ostative dell’elettorato passivo – nel rispetto del principio fissato
dall’art. 51 della Costituzione, che le vuole confinate nei limiti più
ristretti possibili – solo nei confronti delle figure sanitarie che partecipano
al livello politico delle aziende USL, tra le quali non sarebbe compreso il
primario ospedaliero, cui spettano compiti ed attribuzioni di ordine tecnico
professionale che non toccano la politica sanitaria dell’azienda. In presenza,
quindi, di situazioni totalmente diverse, non sarebbe ravvisabile alcuna
disparità di trattamento.
Quanto all’altro profilo della seconda questione, nel quale
si lamentano le interferenze con l’imparzialità e il buon andamento della pubblica
amministrazione, in violazione dell’art. 97 della
Costituzione, per le funzioni di controllo e di indirizzo del comune nei
confronti delle nuove ASL, che evidenzierebbero una "immanente possibilità di
conflitto di interessi tra sindaco e componente della struttura sanitaria”,
sarebbe anch’esso inammissibile ovvero infondato.
Il sindaco, infatti, osserva la difesa della parte, non
eserciterebbe alcun potere di controllo e di gestione della politica sanitaria
tale da porlo in situazione di conflitto con la attività
professionale, svolta nella specie, di primario ospedaliero. Nel caso in esame,
il deducente afferma di essere stato, in ragione del
suo mandato elettivo, componente ex lege della sola Conferenza sanitaria
territoriale – mentre la conferenza dei sindaci di cui fa parola l’ordinanza di
rimessione risulterebbe essere stata da tempo soppressa –, che svolge funzione
consultiva in materia sanitaria. Ma al riguardo l’art.
67 del d.lgs. n. 267 del
La possibilità dell’interferenza fra la carica elettiva e la
materia sanitaria in genere, quindi, sarebbe già stata valutata dal
legislatore, che per le figure diverse da quelle cui compete una responsabilità
politica delle aziende sanitarie (figure oggetto di separata disciplina)
avrebbe ritenuto non superata la soglia limite della
condizione ostativa, compiendo una valutazione ampiamente discrezionale, della
cui logicità non è lecito dubitare.
Infine, la difesa del Rusticali rileva che, in concreto, una
volta eletto Sindaco, egli si è spogliato di ogni competenza in materia
sanitaria rilasciando ampia ed irrevocabile delega –
prodotta nel giudizio a quo – ad
altro assessore, rinunciando a qualsiasi facoltà di controllo del suo operato e
di intervento. Anche sotto tale profilo eccepisce l’inammissibilità della questione
sollevata, in quanto l’autorità remittente non ha
motivato, in punto di rilevanza, sulla "compatibilità costituzionale del
complesso normativo denunciato come illegittimo anche alla stregua di
un’astensione dell’interessato attuata in via preventiva ed in maniera radicale
ed estrema, totale e incondizionata, irrevocabile ed illimitata”. Né, conclude, il giudice a
quo avrebbe specificato i singoli poteri gestori che in materia sanitaria
farebbero capo al sindaco, "con duplice riferimento alla norma attributiva del
potere di intervento, ritenuto potenzialmente confliggente
con il suo stato tecnico-professionale di primario della divisione di
cardiologia, da un lato, e con le norme regolamentari disciplinanti il concreto
esercizio di siffatto potere, d’altro lato”, di talché la situazione di
potenziale conflitto asseritamente sussistente non
sarebbe più di una affermazione generica e apodittica.
4. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
Quanto al lamentato eccesso di delega, in
relazione all’art. 31 della legge n. 265 del 1999, nell’invito del
legislatore delegante a raccogliere e coordinare in un testo unico le vigenti
disposizioni in materia di enti locali, l’espressa indicazione della legge n.
154 del 1981 segnalerebbe la necessità di una sua revisione e di opportune
modifiche.
In particolare, in ordine alla
incompatibilità fra la carica di sindaco e la funzione di primario delle USL,
il testo unico del 2000, abrogando esplicitamente la disposizione della legge
n. 154 del 1981, non avrebbe fatto altro che prendere atto dell’evoluzione del
quadro normativo, rispondendo in pieno all’esigenza di rimuovere
dall’ordinamento norme non più attuali e virtualmente superate. Le ipotesi di ineleggibilità e incompatibilità di figure
dell’ordinamento sanitario previste dagli artt. 60, 63 e 67 del d.lgs. n. 267
del 2000, concernenti il direttore generale, amministrativo e sanitario delle
USL, erano, infatti, già contemplate dall’art. 3, comma 9, del d.lgs. 30
dicembre 1992, n. 502, anch’esso abrogato dall’art. 274 (lettera x) del d.lgs. n. 267 del 1990, ma in
vigore all’epoca della conclusione del procedimento elettorale (giugno 1999).
La riforma del 1992 aveva conferito alle ASL un nuovo assetto organizzativo,
territoriale e di vertice, disciplinando le relative figure e le connesse
responsabilità. Il successivo d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, di
razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, aveva recato importanti
integrazioni a quella riforma, ridisegnando i compiti e le attribuzioni delle
relative posizioni apicali. In particolare, con l’art. 3-bis, introdotto nel d.lgs. n. 502 del 1992, si era ribadito che il rapporto di lavoro del personale del
Servizio restava regolato dal d.lgs. n. 29 del 1993 (artt. 1 e 26), con la
conseguenza che anche il regime delle incompatibilità del rimanente personale
delle USL rientra nella disciplina
dell’art. 58 di quest’ultimo decreto, il cui comma 1 richiama l’art. 4, comma
7, della legge delega 30 dicembre 1991, n.
L’intervento richiesto, deduce poi l’Avvocatura, sarebbe di tipo manipolativo-additivo. Ma questa Corte ha costantemente affermato di non potere sindacare le scelte che competono al legislatore, a meno che le stesse non siano palesemente irragionevoli. Nella specie, non si tratterebbe neppure di colmare un vuoto, ma di creare artificiosamente una nuova norma, che estenda l’ambito applicativo della incompatibilità al primario ospedaliero.
5. – In prossimità dell’udienza pubblica ha depositato
memoria Franco Rusticali, convenuto nel giudizio a quo, che ha insistito nelle difese già svolte.
6. – Nel corso del giudizio promosso da Roberto Gaetani, elettore del Comune di Civitanova Marche, per la
disapplicazione della delibera consiliare relativa alla convalida della nomina
a Sindaco di quel Comune di Erminio Marinelli, per
incompatibilità di quest’ultimo in quanto medico di
base convenzionato con la ASL comprendente il territorio di Civitanova Marche,
il Tribunale di Macerata, con ordinanza emessa il 20 novembre 2002, e pervenuta
il 23 gennaio 2003 (r.o. n. 33 del 2003), ha
sollevato, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale – in parte analoga a quella sub 1 – degli artt. 274, comma 1, lettera l, e 275 del d.lgs. 18 agosto 2000, n.
Per il medico convenzionato con il servizio sanitario,
osserva il remittente, l’art. 8, n. 2, della legge n. 154 del 1981 prevedeva
l’incompatibilità, riguardante "i dipendenti delle unità sanitarie locali nonché i professionisti con esse convenzionati”, con la
carica di sindaco del Comune il cui territorio coincide con il territorio
dell’USL con cui sono convenzionati, ovvero, come nell’ipotesi di specie, di
Comune con più di 30.000 abitanti che concorre a costituire l’unità sanitaria
locale con cui sono convenzionati.
L’art. 274, comma 1, lettera l, del testo unico del 2000, che ha
disposto l’abrogazione dell’intera legge n. 154 del 1981, per quel che attiene
all’art. 8 di quest’ultima legge avrebbe violato la delega conferita all’art.
31 della legge n. 265 del 1999.
Al Governo, infatti, essa aveva conferito il potere di
adottare un testo unico nel quale fossero "riunite e
coordinate le disposizioni legislative vigenti” in materia di enti locali.
Anche a voler intendere tale compito in senso non formale, ma comportante un
intervento sul contenuto delle norme preesistenti per renderle consone ai
principi generali ed al diritto vivente, esso
troverebbe un limite nella funzione del testo unico, che, secondo il parere
reso dal Consiglio di Stato in proposito, è di "facilitare l’applicazione delle
leggi preesistenti, evitando duplicazioni, prendendo atto di abrogazioni anche
tacite, valorizzando univoche soluzioni interpretative divenute diritto vivente
senza innovare alla loro sostanza”.
Nella specie, ad avviso del remittente, l’abrogazione
dell’art. 8 della legge n. 154 del 1981 non
risponderebbe ad alcuno dei detti criteri: la sua permanenza non comporterebbe
duplicazioni; la norma non potrebbe ritenersi tacitamente abrogata a seguito
del nuovo assetto del Servizio sanitario nazionale, ovvero per la previsione di
nuove, aggiuntive ipotesi di incompatibilità previste con il d.lgs. n. 502 del
1992. Neppure si sarebbe formato diritto vivente che sostenga essere la norma
venuta meno in funzione della recisione del rapporto tra i Comuni e le ASL
divenute enti pubblici autonomi sotto il controllo della Regione, rinvenendosi invece
pronunce di segno opposto, ovvero auspicanti un
intervento legislativo per adeguare le incompatibilità al nuovo assetto
istituzionale.
Ad avviso del giudice a
quo, il censurato intervento abrogativo, di per sé non incompatibile con la
potestà del Governo delegato di emanare testi unici aventi
efficacia normativa o innovativa, avrebbe "nella specie ecceduto i limiti della
delega, non risultando necessitato dalla finalità di coordinamento della
legislazione vigente”.
7. – Si è costituito in giudizio Roberto Gaetani,
attore popolare nel procedimento a quo,
sostenendo la fondatezza della questione sollevata.
Richiamati ed illustrati gli
argomenti dell’ordinanza di remissione, la parte osserva in particolare che la ratio
dell’incompatibilità in esame andrebbe ravvisata non solo nel conflitto di
interessi potenziale, derivante dal rapporto Comuni – ASL, ma altresì nell’art.
97 della Costituzione, che impone di assicurare il buon andamento
dell’amministrazione.
Nel caso specifico, infatti, al compenso mensile (di circa 14
milioni di lire) percepito dal medico convenzionato a fronte di un forte
impegno, comprendente l’obbligo di reperibilità e assistenza continua, si
aggiungerebbe, per l’onere di fare il sindaco in una città di oltre 30.000
abitanti, l’ulteriore compenso mensile di lire 7
milioni, laddove "la convenzione sottoscritta preclude al medesimo di svolgere
incarichi non occasionali” con altre amministrazioni pubbliche.
Un ulteriore conflitto di interessi,
infine, sarebbe ravvisabile tra il sindaco e il dirigente dell’ASL, dovendo la
Conferenza dei sindaci valutarne l’operato ai fini della riconferma
dell’incarico, mentre al dirigente dell’ASL spetta il compito di valutare
l’operato del sindaco medico, specie in ordine al rispetto dell’orario di
lavoro.
8. – Si è costituito il Sindaco eletto Erminio Marinelli, che ha chiesto che la questione sia dichiarata
inammissibile o, comunque, infondata.
Anzitutto, ad avviso della parte, il remittente non avrebbe
adeguatamente motivato in ordine alla rilevanza, non avendo
spiegato perché, in caso di fondatezza della questione, la domanda proposta nel
giudizio a quo sarebbe accolta.
Ulteriore motivo di
inammissibilità sarebbe la natura additiva della pronuncia postulata.
La questione sarebbe poi infondata, perché le norme di
delega, nell’autorizzare il Governo a "riunire e coordinare le disposizioni
legislative vigenti”, avrebbero inteso fosse espunto,
e perciò abrogato, ciò che non è più attuale e compatibile con lo stadio
evolutivo della materia. Il modello di testo unico cui il giudice remittente si
riferirebbe è quello cosiddetto compilativo,
costituente in realtà una rara avis (viene richiamata la legge delega costituzionale
10 novembre 1971, n. 1, art. 66), mentre per definizione, secondo la migliore
dottrina, il testo unico dovrebbe possedere carattere innovativo, e quindi
efficacia normativa equiordinata, perché ritoccare i
testi legislativi è sempre opera di legislazione, soprattutto quando al Governo
è attribuito un compito di coordinamento.
9. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata ed allegando, in proposito, l’atto di intervento nel
giudizio incidentale introdotto dal Tribunale di Forlì (r.o.
n. 12 del 2003).
10. – In prossimità dell’udienza di discussione ha depositato
memoria Erminio Marinelli, Sindaco di Civitanova
Marche e convenuto nel giudizio a quo,
il quale, sottolineando le differenze tra la questione
sollevata dal Tribunale di Macerata e quella, sollevata dal Tribunale di Forlì,
la cui discussione è fissata per la medesima udienza (identità solo parziale
delle disposizioni impugnate, dei parametri costituzionali, e del rapporto
dell’eletto con l’ASL – rispettivamente libero-professionale e di dipendenza),
ha chiesto che questa Corte, nell’esame della presente questione non estenda il
thema decidendum.
Sottolinea poi
aspetti di contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza di rimessione,
osservando, infine, che la questione sarebbe, in realtà, diretta a censurare
l’esercizio della discrezionalità del legislatore, richiedendo alla Corte un
intervento additivo.
Considerato in diritto
1.–
Il Tribunale di Forlì (r.o.
n. 12 del 2003) e il Tribunale di Macerata (r.o. n.
33 del 2003), nel corso di due giudizi promossi con azione popolare per far
dichiarare la decadenza del Sindaco, rispettivamente dei Comuni di Forlì e di
Civitanova Marche, per incompatibilità, nel primo caso, con l’ufficio di
dirigente medico di primo livello (ex primario) nel locale Ospedale, nel
secondo caso con la funzione di medico di base convenzionato con la Azienda
sanitaria locale nel cui territorio è compreso il Comune, hanno sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 274, comma 1, lettera l, del decreto legislativo 18 agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali),
nella parte in cui, abrogando la legge 23 aprile 1981, n. 154 (salve le sole
disposizioni ivi previste per i consiglieri regionali), ha fatto venir meno la
causa di incompatibilità già prevista dall’art. 8, n. 2, della medesima legge
n. 154 del 1981 fra la carica di Sindaco del Comune il cui territorio coincide
con quello dell’unità sanitaria locale, o di Sindaco di Comune con popolazione
superiore a 30.000 abitanti che concorre a costituire l’unità sanitaria locale,
e la qualità di dipendente dell’unità sanitaria locale medesima o di
professionista con essa convenzionato.
Il Tribunale di Forlì formula la
censura con riguardo alla parte della norma che non fa salva l’incompatibilità
"almeno quanto alla funzione di primario di divisione nella locale unità
sanitaria”; ed estende la questione altresì agli artt. 63
e 66 del d.lgs. n. 267 del 2000 nella parte in cui gli stessi, disciplinando,
rispettivamente, le incompatibilità con la carica di Sindaco e le
incompatibilità con la carica di Sindaco di uffici delle aziende sanitarie ed
ospedaliere, non prevedono l’incompatibilità della carica di Sindaco con la
funzione di primario di divisione nella locale unità sanitaria.
Il
Tribunale di Macerata censura invece l’art. 274, comma 1,
lettera l, del testo unico
sull’ordinamento degli enti locali (nella parte in cui comporta l’abrogazione
dell’art. 8, n. 2, della legge n. 154 del 1981), nonché l’art. 275 dello stesso
testo unico, contenente la "norma finale” in base alla quale, salvo che sia
diversamente disposto e fuori dei casi di abrogazione per incompatibilità, il
riferimento fatto da altre norme a disposizioni espressamente abrogate dal
testo unico si intende alle corrispondenti disposizioni del testo unico
medesimo.
Entrambi
i giudici remittenti sollevano la questione in
riferimento all’art. 76 (nonché all’art. 77, per quanto riguarda il Tribunale
di Macerata) della Costituzione, ritenendo che la disposta abrogazione della
norma sulla predetta causa di incompatibilità sia viziata da eccesso di delega,
in quanto non consentita dai limiti della delega conferita al Governo con
l’art. 31 della legge 3 agosto 1999, n. 265, per l’adozione di "un testo unico
nel quale sono riunite e coordinate le disposizioni legislative vigenti in
materia di ordinamento dei comuni e delle province” (comma 1), avendo riguardo,
fra le altre, alla legge n. 154 del 1981 (comma 3, lettera e). In siffatta delega di coordinamento non potrebbe infatti ritenersi compresa la facoltà di innovare abrogando
norme esistenti, e in ogni caso l’abrogazione contestata non sarebbe
necessitata dalle finalità di coordinamento, o non risponderebbe a nessuna
esigenza di coordinamento e di coerenza dell’assetto normativo.
Il solo Tribunale di Forlì lamenta
altresì la violazione degli artt. 3 e 97 della
Costituzione, osservando che l’abrogazione della incompatibilità fra la carica
di Sindaco e la funzione di primario ospedaliero, "anche se ricompresa nel
potere normativo delegato al Governo”, urta contro i principi di imparzialità e
di buon andamento della pubblica amministrazione e non si giustifica sotto il
profilo dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, per quanto concerne la
qualità di primario ospedaliero, in relazione alle cause di incompatibilità
previste invece per le nuove figure dirigenziali sanitarie (direttore generale,
direttore amministrativo e direttore sanitario delle aziende sanitarie). Ciò in
quanto, pur dopo la riforma delle unità sanitarie locali, operata con il d.lgs.
30 dicembre 1992, n. 502, e poi integrata con il d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229,
che ha comportato un "arretramento dei poteri gestori” dei Comuni nei confronti
delle aziende sanitarie operanti sul loro territorio, permarrebbero funzioni di
controllo e di indirizzo dei Comuni nei confronti di
tali aziende, e un ruolo rilevante del Sindaco, da solo o nel più ampio
contesto della conferenza dei sindaci, nella formazione del programma,
nell’indirizzo sanitario e nel controllo contabile della azienda, con una
conseguente "immanente possibilità di conflitto di interessi tra Sindaco e
componente della struttura sanitaria”.
2.–
Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni parzialmente uguali, ed è
quindi opportuno riunire i giudizi perché siano definiti con unica pronunzia.
3.–
Devono in primo luogo disattendersi le eccezioni di inammissibilità
che le parti private, da diverse ed opposte prospettazioni,
avanzano nei riguardi della questione sollevata dal Tribunale di Forlì.
La
parte ricorrente nel giudizio a quo
lamenta che il Tribunale abbia ritenuto applicabile alla specie la disciplina
risultante dal testo unico del 2000, anziché quella vigente all’epoca della elezione del Sindaco, avvenuta nel 1999, quando cioè
era ancora in vigore l’art. 8, n. 2, della legge n. 154 del 1981, che sanciva
l’incompatibilità con la carica di Sindaco per i dipendenti della unità
sanitaria locale: onde la questione sollevata sul testo unico sarebbe priva di
rilevanza.
Questa
Corte non ha ragione di discostarsi dall’indirizzo della giurisprudenza di
legittimità, cui esplicitamente si conforma l’ordinanza
di rimessione, secondo cui nel giudizio promosso per l’accertamento in sede
giurisdizionale della causa di incompatibilità dell’amministratore locale si applica
la disciplina normativa, in tema di incompatibilità, vigente nel momento in cui
viene a scadere il termine ultimo entro il quale l’interessato può rimuovere la
causa di incompatibilità: momento che – ai sensi dell’art. 7, quinto comma,
della legge n. 154 del 1981, aggiunto dall’art. 20 della legge n. 265 del 1999,
dopo la parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 9-bis del d.P.R.
16 maggio 1960, n. 570, pronunciata da questa Corte con la sentenza n. 160 del
1997, proprio per garantire la salvaguardia del diritto di elettorato
passivo – coincide con la scadenza del
termine di dieci giorni dalla notificazione del ricorso.
Non
vale opporre che la causa di incompatibilità,
sussistente al momento dell’elezione, non potrebbe essere esclusa in forza di
una norma sopravvenuta, in base al principio tempus regit actum (intendendosi
per atto l’elezione). Infatti l’incompatibilità, a
differenza della ineleggibilità, che vizia la stessa investitura elettorale,
può essere rimossa dall’interessato anche successivamente all’elezione,
attenendo ad un divieto di esercizio contemporaneo della carica elettiva e
dell’ufficio incompatibile, ed è quindi logico che, fin quando ancora pende il
termine per la sua rimozione, la sopravvenienza di una nuova norma che faccia
venir meno la causa di incompatibilità comporti l’impossibilità di pronunciare
la decadenza.
4.–
A sua volta la parte privata resistente nel giudizio a quo eccepisce la inammissibilità della
questione per difetto di motivazione della rilevanza, in quanto il remittente
avrebbe erroneamente e artificiosamente motivato la reiezione di due eccezioni
preliminari che lo stesso resistente aveva avanzato nel giudizio principale, concernenti
rispettivamente la tardività del ricorso introduttivo e la nullità della
notifica dell’atto di riassunzione, dopo la sospensione intervenuta in pendenza
del primo giudizio di costituzionalità, conclusosi con l’ordinanza n. 398
del 2002 di questa Corte.
Anche
queste eccezioni non possono essere condivise. Mentre la totale assenza di ogni
pronuncia del giudice a quo sulla eccezione (logicamente preliminare) di tardività del
ricorso, di cui pure lo stesso giudice dava atto, ha giustificato la
dichiarazione di inammissibilità, per difetto di motivazione sulla rilevanza,
della questione proposta la prima volta dal Tribunale di Forlì (ord. n. 398 del 2002), ora, in presenza di una motivazione
espressa, con la quale il remittente ha respinto dette eccezioni preliminari,
non spetta a questa Corte valutare la correttezza delle relative statuizioni
del giudice, trattandosi di questioni che attengono strettamente al giudizio
principale.
5.–
Parimenti non sono fondate le eccezioni di inammissibilità
della questione sollevate dalla parte privata resistente nel giudizio
principale davanti al Tribunale di Macerata.
La
motivazione della rilevanza è sufficiente, né sarebbe logico chiedere che il
giudice a quo argomenti circa
l’influenza che avrebbe sull’esito della causa l’eventuale
accoglimento della questione sollevata, concernendo questa proprio la
legittimità costituzionale della norma che ha fatto venir meno, per
abrogazione, la causa di incompatibilità di cui si discute nel giudizio.
La
censura mossa non attiene poi affatto al merito
politico della norma denunciata, ma alla sua ipotizzata incostituzionalità per
eccesso di delega, e dunque per violazione dell’art. 76 della Costituzione. Né
può rilevare l’iniziale errore (poi corretto) del ricorrente nell’indicazione
della legge di delega, avendo comunque l’ordinanza di
rimessione – che unicamente definisce la questione rimessa a questa Corte –
esattamente individuato la disposizione che ha conferito la delega.
6.–
Infine non ha pregio la tesi (avanzata dalla difesa erariale in entrambi i
giudizi, e dalla parte privata resistente nel giudizio promosso dal Tribunale
di Macerata) secondo cui si chiederebbe a questa Corte una pronuncia additiva
comportante una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore: i giudici a quibus
prospettano una pronuncia che produca, in forza della sua asserita
incostituzionalità, la caducazione della norma abrogatrice dell’art. 8, n. 2, della legge n. 154 del 1981,
con conseguente reviviscenza di tale norma, e dunque della causa di incompatibilità oggi soppressa dal legislatore delegato.
7.
– Nel merito, le questioni non sono fondate.
La
causa di incompatibilità prevista dall’art. 8, n. 2,
della legge n. 154 del 1981 venne stabilita (in aggiunta a quelle più generali
e "tradizionali” previste dall’art. 3 della stessa legge, sulla falsariga di
cause di ineleggibilità già previste dalla legislazione preesistente: art. 15
del d.P.R. n. 570 del 1960) nel contesto di un assetto
normativo nel quale l’unità sanitaria locale era configurata, dalla legge
istitutiva del servizio sanitario nazionale, come "struttura operativa”, priva
di personalità giuridica, del Comune o dei Comuni associati, il cui territorio
coincideva con quello dell’unità sanitaria medesima (artt. 10, 14 e 15 della
legge 23 dicembre 1978, n. 833); organi di governo dell’USL erano l’assemblea
generale, costituita dal Consiglio comunale nel caso di USL monocomunale,
o dall’assemblea della Comunità montana o dell’associazione dei Comuni nel caso
di USL pluricomunale, e dal comitato di gestione
eletto dall’assemblea, ovvero in determinate ipotesi gli organi della Comunità
montana o il consiglio circoscrizionale (art. 15 della legge n. 833 del 1978).
Pertanto i dipendenti delle USL, ancorché inquadrati in ruoli regionali, erano
formalmente dipendenti di una struttura del Comune o dei Comuni associati, e i
professionisti convenzionati con la USL avevano come
soggetto giuridico di riferimento il Comune o i Comuni associati.
In
questo quadro, si comprende che il legislatore, nel regolare i rapporti fra
elettorato passivo comunale e personale delle USL, o con esse convenzionato,
abbia ritenuto, con scelta discrezionale giustificata dagli stretti rapporti di
dipendenza e di compenetrazione fra USL e Comuni, di stabilire una specifica
causa di incompatibilità con le cariche di Sindaco e
assessore del Comune (nel caso di USL monocomunale o infracomunale), o dei Comuni con popolazione superiore a
30.000 abitanti ricompresi nella USL (nel caso di USL pluricomunale),
oltre che con le cariche negli organi di governo della USL (componente del
comitato di gestione, presidente dell’assemblea generale, presidente o
componente della giunta della Comunità montana o componente del consiglio
circoscrizionale nel caso in cui a tali organismi fossero attribuiti i poteri
di gestione della USL): che è appunto quanto disponeva l’art. 8 della legge n.
154 del 1981.
La configurazione giuridica delle
unità sanitarie locali venne però profondamente mutata dal d.lgs. n. 502 del
1992, nell’ambito di un disegno poi ulteriormente sviluppato e modificato dal
d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517, e dal d.lgs. n. 229 del 1999. Reciso il
"cordone ombelicale” fra Comuni e USL, non più "strutture operative” dei medesimi,
la USL venne configurata come azienda dipendente dalla
Regione, strumentale per l’erogazione dei servizi sanitari attribuiti alla
competenza della Regione medesima, dotata di personalità giuridica pubblica e
di autonomia imprenditoriale, rappresentata e gestita sotto ogni aspetto da un
direttore generale nominato dalla Regione (art. 3 del d.lgs. n. 502 del 1992).
I Comuni e i loro organi (Sindaci o, nelle USL pluricomunali,
conferenza dei Sindaci) hanno mantenuto poteri di intervento,
fra l’altro nella forma di definizione delle "linee di indirizzo per
l’impostazione programmatica delle attività”, di esame dei bilanci, di verifica
dell’ "andamento generale dell’attività”, di contributo alla definizione dei
piani programmatici, di parere sulla verifica dei risultati conseguiti, di
proposta o parere per la decadenza o la revoca del direttore generale, di
nomina di uno dei membri del collegio sindacale, il quale collegio presenta
relazioni sull’andamento dell’attività al Sindaco o alla conferenza dei sindaci
(art. 3, comma 14, art. 3-bis, commi
6 e 7, art. 3-ter, commi 1 e 3, del
d.lgs. n. 502 del 1992). Tuttavia il complessivo assetto del governo, della
gestione e del finanziamento delle aziende sanitarie mostra che i Comuni sono
coinvolti fondamentalmente solo in quanto enti
esponenziali delle collettività locali, chiamati ad esprimerne le esigenze
rispetto all’organizzazione e allo svolgimento dei servizi, ma non come
amministrazioni responsabili, direttamente o indirettamente, dell’erogazione
dei servizi medesimi e della gestione aziendale.
In
questo nuovo quadro, il legislatore della riforma delle USL si preoccupò bensì
di disciplinare lo status del
direttore generale della USL (e dei direttori
amministrativo e sanitario che lo coadiuvano), stabilendo, oltre che la
ineleggibilità di tali soggetti a membro del Parlamento e dei consigli
regionali, provinciali e comunali, la incompatibilità degli uffici medesimi con
le cariche di membro delle predette assemblee nonché di Sindaco e di assessore
comunale (indipendentemente dagli specifici legami territoriali della singola
azienda con singoli Comuni: art. 3, comma 9, del d.lgs. n. 502 del 1992); non
intervenne invece (presumibilmente anche in vista della sede in cui operava,
che era quella di deleghe per il riordino dei servizi sanitari, e non
dell’ordinamento degli enti locali) a coordinare con il nuovo assetto delle USL
la preesistente disciplina delle incompatibilità con le cariche elettive
locali, prevista dall’art. 8 della legge n. 154 del 1981.
In
sede applicativa ci si pose il problema di quale fosse la sorte di tale norma,
e anzi l’amministrazione degli Interni espresse più volte, attraverso risposte
a quesiti, la convinzione che il mutato rapporto fra USL e Comuni avesse
comportato la cessazione della incompatibilità per il
venir meno della sua ratio.
La tesi dell’abrogazione tacita della citata norma non venne però condivisa
dalla giurisprudenza, in particolare da quella di legittimità, la quale ritenne
che non fosse venuta meno la ragione ispiratrice della specifica causa di incompatibilità alla carica di Sindaco, "in quanto, pur
nell’arretramento dei poteri gestori di dette unità sanitarie (ora ASL)
operanti sul territorio, in corrispondenza all’avanzamento dei poteri delle
Regioni…i rapporti tra Comune e ASL non sono stati del tutto recisi”,
permanendo un ruolo del Sindaco o della conferenza dei sindaci da cui
deriverebbe l’immanente possibilità di conflitto di interessi tra Sindaco e
componente della struttura sanitaria (cfr., fra le altre, Cass., 20 ottobre
2001, n. 12862).
Analogamente
il Consiglio di Stato, chiamato a rendere parere sulla questione, espresse
bensì l’avviso che, a seguito della trasformazione delle USL in enti vigilati
dalla Regione, "lo stesso presupposto della incompatibilità
sembra essere venuto meno”, ma che ciò non autorizzasse a ritenere intervenuta
l’abrogazione tacita della norma sulla incompatibilità, poiché nessuna
disposizione sopravvenuta consentiva all’interprete di "formulare ipotesi di
abrogazioni non solo implicite, ma anche indirette, perché conseguenti non ad
un riordino complessivo della materia elettorale, ma al riordino di altra
materia” (Sez. I, parere 5 aprile 2000, n. 309/99).
8.–
In questa situazione è intervenuta la delega per il nuovo testo unico
sull’ordinamento degli enti locali, conferita al Governo con l’art. 31 della legge n. 265 del 1999 perché venissero "riunite e
coordinate le disposizioni legislative vigenti in materia di ordinamento dei
Comuni e delle Province e loro forme associative” (comma 1) in un testo che
avrebbe dovuto contenere fra l’altro "le disposizioni sull’ordinamento in senso
proprio e sulla struttura istituzionale, sul sistema elettorale, ivi comprese
l’ineleggibilità e l’incompatibilità…” (comma 2); nella redazione del testo
unico si sarebbe dovuto avere riguardo in particolare, oltre che alla stessa
legge n. 265 del 1999, ad una serie di altre leggi fra le quali veniva
esplicitamente menzionata la legge n. 154 del 1981 (comma 3, e specificamente
lettera e).
Si
è trattato dunque di una delega complessiva, ad ampio raggio, espressamente
destinata a investire, per la prima volta, anche la materia delle
ineleggibilità e delle incompatibilità, e mirata al "coordinamento”, non solo
formale, delle disposizioni vigenti, risalenti a leggi emanate in epoche molto
diverse fra loro.
Per
quanto riguarda il tema qui considerato, il Governo delegato si trovava di
fronte ad una legislazione, quella del 1981, dettata in vista di un preciso
assetto istituzionale delle unità sanitarie locali, rispetto al quale si era a
suo tempo ritenuto opportuno dettare una specifica disciplina delle
incompatibilità, evidentemente collegata a quell’assetto. Il profondo mutamento
di quest’ultimo, intervenuto con il d.lgs. n. 502 del 1992 e con i successivi
provvedimenti, non consentiva di ritenere immutata la ratio o il fondamento
giustificativo della incompatibilità in parola, che
riguardava tutti i dipendenti delle
USL e i professionisti con esse convenzionati, visti come appartenenti ad una
struttura facente capo ai Comuni, singoli o associati. Né vi erano disposizioni
sopravvenute che si facessero carico di coordinare tale disciplina con la nuova
configurazione delle strutture del servizio sanitario, eventualmente anche
introducendo, come solo il legislatore avrebbe potuto fare, una disciplina più
articolata delle incompatibilità, fondata su eventuali diverse rationes, e
riferita a specifiche figure di appartenenti a dette strutture.
Indubbiamente
l’assenza di nuovi interventi legislativi concernenti tale incompatibilità
rendeva difficile ragionare in termini di sopravvenuta abrogazione implicita
della norma del 1981: tesi questa, infatti, come si è
detto, non accolta nella giurisprudenza ordinaria e amministrativa. Ma nella
sede legislativa delegata ciò non solo non impediva, bensì anzi sollecitava, in
vista della finalità di coordinamento anche sostanziale attribuita al testo
unico, una riconsiderazione della disciplina, che tenesse conto dei mutati
rapporti istituzionali fra USL e Comuni, e operasse dunque anche quel
coordinamento fra i due sistemi normativi, relativi rispettivamente alla organizzazione delle USL e all’ordinamento dei Comuni,
che prima di allora il legislatore non aveva avuto occasione di attuare.
In
questo quadro la scelta del legislatore delegato, di abrogare l’art. 8 della legge n. 154 del 1981 senza riprodurne il contenuto
nel testo unico, e quindi di far venir meno la causa di incompatibilità,
limitandosi invece a riprodurre le cause di ineleggibilità e di incompatibilità
previste dal d.lgs. n. 502 del 1992 per le nuove cariche delle USL, non può
ritenersi eccedere l’ambito del compito di coordinamento conferito con la legge
di delega. Coordinare (non solo formalmente) vuol dire
infatti anche adeguare la disciplina al nuovo quadro complessivo,
derivato dal sovrapporsi, nel tempo, di norme dettate in vista di situazioni e
di assetti diversi, anche eliminando dai testi legislativi norme la cui ratio originaria
non trova più rispondenza nell’ordinamento, e che quindi non appaiono più
razionalmente riconducibili, quanto meno nella loro portata originaria,
all’assetto in vigore.
9.–
Le considerazioni finora svolte conducono a ritenere infondata la questione
anche sotto il profilo, sollevato dal Tribunale di Forlì, degli articoli 3 e 97 della Costituzione.
Il
remittente ritiene che l’assenza della incompatibilità
fra la carica di Sindaco e l’ufficio di primario di divisione nel locale
ospedale violi gli indicati principi costituzionali.
In realtà, da un lato, non si può
dire che la funzione del sanitario, che ha essenzialmente compiti
di direzione tecnica di servizi, e non di gestione dell’azienda, lo collochi
istituzionalmente in una posizione di interferenza o conflitto potenziale con
le funzioni di Sindaco del Comune, tale da rendere costituzionalmente
necessaria la incompatibilità dal punto di vista dei principi di imparzialità e
di buon andamento dell’amministrazione: specie se si tiene presente che la
eleggibilità alle cariche rappresentative locali è contenuto di un diritto, che
può essere compresso solo in vista di esigenze costituzionalmente rilevanti, il
cui apprezzamento richiede per lo più – anche se non sempre necessariamente –
una interposizione del legislatore.
Dall’altro
lato, il confronto che viene operato con la posizione
del direttore generale e dei direttori amministrativo e sanitario della USL,
per i quali sussiste la incompatibilità con tutte le cariche elettive locali,
regionali e nazionali, evoca un tertium comparationis non idoneo, poiché non sussiste certo
omogeneità di posizioni fra titolari degli uffici preposti alla gestione
dell’azienda USL e dipendenti di questa con compiti tecnico-sanitari, come i
primari; né è confrontabile, per portata e ratio, la incompatibilità sancita
per i primi con le cariche elettive ad ogni livello e indipendentemente dal
rapporto territoriale, con quella che il remittente vorrebbe reintrodurre
rispetto alla sola carica di Sindaco del Comune, il cui territorio coincide con
quello in cui opera l’azienda.
10.–
Le conclusioni raggiunte in ordine alla disposizione
abrogativa di cui all’art. 274, comma 1, lettera l, del d.lgs. n. 267 del 2000 valgono, evidentemente, anche in
relazione agli artt. 63 e 66 dello stesso testo unico, impugnati dal Tribunale
di Forlì nella parte in cui non prevedono la predetta causa di incompatibilità.
11.–
Deve invece essere dichiarata inammissibile la questione sollevata dal
Tribunale di Macerata in ordine all’art. 275 del testo
unico di cui al d.lgs. n.267 del 2000: l’impugnazione, che non è sorretta da
alcuna specifica motivazione, concerne una disposizione la cui unica portata è
quella di sostituire alle norme abrogate quelle corrispondenti del testo unico,
ai fini dei richiami ad esse che siano contenuti in altre disposizioni
normative.
per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a)
dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 274, comma 1, lettera l, del decreto legislativo 18 agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali),
sollevate rispettivamente, in riferimento agli artt. 3, 76 e 97 della
Costituzione, dal Tribunale di Forlì e, in riferimento agli artt. 76 e 77 della
Costituzione, dal Tribunale di Macerata con le ordinanze indicate in epigrafe;
b)
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 63 e 66 del predetto d.lgs. n. 267 del 2000,
sollevata, in riferimento agli artt. 3, 76 e 97 della Costituzione, dal
Tribunale di Forlì con l’ordinanza in epigrafe;
c)
dichiara inammissibile
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 del predetto d.lgs. n.
267 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione,
dal Tribunale di Macerata con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 4 giugno 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2003.