ORDINANZA N. 151
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Riccardo CHIEPPA Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
- Valerio ONIDA “
- Carlo MEZZANOTTE “
- Fernanda CONTRI “
- Guido NEPPI MODONA “
- Piero Alberto CAPOTOSTI “
- Annibale MARINI “
- Franco BILE “
- Giovanni Maria FLICK “
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 297, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 21 agosto 2001 dal Tribunale di Napoli, VIII sezione penale, in funzione di giudice del riesame e quale giudice di rinvio, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2002 e del 26 marzo 2003 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.
Ritenuto che con ordinanza in data 21 agosto 2001, il Tribunale di Napoli, VIII sezione penale - chiamato a decidere, in funzione di giudice del riesame e quale giudice di rinvio, sull’appello avverso un’ordinanza del giudice per le indagini preliminari, con la quale era stata rigettata l’istanza di dichiarazione di inefficacia della misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di un imputato, ha sollevato, in riferimento all’articolo 13, quinto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che la disposizione in esso contenuta «si applichi anche a fatti diversi, in connessione non qualificata ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettere b) e c), cod. proc. pen., oggetto di ordinanze emesse in tempi diversi, sempre che di essi si accerti in modo incontestabile la sussistenza, a disposizione dell’autorità giudiziaria, di idonei indizi di colpevolezza già al momento dell’emissione del primo provvedimento cautelare»;
che il remittente riferisce di avere pronunciato, in data 10 ottobre 2000, ordinanza con la quale, in accoglimento del gravame proposto dall’imputato, aveva dichiarato l’inefficacia della misura custodiale sul presupposto che tale misura, disposta per associazione camorristica e concorso in omicidio, era intervenuta successivamente ad altra, applicata per un diverso delitto di omicidio, in relazione al quale il pubblico ministero era in possesso degli elementi sufficienti alla contestazione dei fatti già prima dell’emissione della precedente ordinanza cautelare, e che non fosse necessaria, ai fini dell’applicabilità dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., la sussistenza del nesso teleologico di cui all’art. 12, comma 1, lettere b) e c), limitatamente ai reati commessi per eseguire gli altri, richiamando il prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità;
che, riferisce ancora il remittente, l’ordinanza del 10 ottobre 2000 era stata annullata con sentenza in data 2 febbraio 2001 dalla Corte di cassazione, sezione quinta penale, con rinvio allo stesso Tribunale di Napoli per nuovo esame;
che nella citata sentenza, ricorda il remittente, la Corte di cassazione aveva affermato il principio secondo il quale il divieto delle contestazioni a catena opera allorquando sia stata disposta con più ordinanze la medesima misura cautelare per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza, sempre che in relazione a tali fatti sussista connessione ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettere b) e c), cod. proc. pen., limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri e sempre che si tratti di fatti desumibili dagli atti del procedimento prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione;
che, prosegue il giudice a quo, la Corte di cassazione aveva altresì riscontrato difetto di motivazione per avere il Tribunale omesso di indicare sulla base di quali concreti elementi era stato raggiunto il convincimento che l’attività di intercettazione fosse tale da integrare la sussistenza di elementi indizianti gravi, precisi e concordanti in ordine ai fatti tutti oggetto della seconda ordinanza di custodia cautelare, ivi compresa la individuazione dei partecipi ad un clan camorristico;
che, quanto al difetto di motivazione, il remittente, dopo ampia esposizione, conclude nel senso che deve ritenersi accertato, in punto di fatto, che tutti gli elementi posti a fondamento della richiesta di applicazione della misura cautelare in ordine ai reati oggetto della seconda ordinanza (quella in data 16 febbraio 2000) fossero già in possesso del pubblico ministero all’atto dell’adozione della prima ordinanza cautelare;
che, quanto al punto di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, il remittente rileva che, nell’affermare, nell’ordinanza annullata, il principio opposto, si era uniformato alla consolidata giurisprudenza di legittimità, in base alla quale la disciplina di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. è applicabile anche a fatti diversi, in connessione non qualificata ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettere b) e c), dello stesso codice, sempre che di essi si accerti in modo incontestabile la sussistenza, a disposizione dell’autorità giudiziaria, di idonei indizi di colpevolezza già al momento dell’emissione del primo provvedimento cautelare;
che, osserva ancora il giudice a quo, il tenore letterale dell’originaria formulazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. (“se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza […]”) non aveva impedito alla giurisprudenza, una volta identificato il contenuto della norma nel divieto delle cosiddette contestazioni a catena, di estenderne la portata anche all’ipotesi di più ordinanze concernenti fatti diversi anteriormente commessi, legati o meno dal vincolo della connessione, dal momento che la colpevole inerzia dell’autorità giudiziaria nella contestazione dei fatti oggetto della seconda ordinanza non poteva incidere negativamente sul diritto dell’imputato di ottenere la liberazione allo scadere del termine di custodia fissato dalla legge;
che nell’ordinanza di rimessione si rileva che l’applicazione del principio di diritto enunciato dalla sentenza rescindente della Corte di cassazione (che limita ai soli casi di reati legati dal vincolo di connessione qualificata l’applicabilità della disciplina dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., pur nell’ipotesi che anche per essi l’autorità giudiziaria disponesse degli elementi necessari e sufficienti per procedere alla contestazione già prima dell’emissione del primo provvedimento restrittivo), impone al giudice di rinvio, obbligato a rispettarlo, un’interpretazione della disposizione in contrasto con l’art. 13 della Costituzione, in quanto lascerebbe il pubblico ministero, già in possesso degli elementi sufficienti alla contestazione di reati non legati da connessione qualificata con quello oggetto della prima ordinanza, arbitro di procrastinare la contestazione, così prolungando a sua discrezione il termine di custodia, certo ed invalicabile, stabilito dalla legge;
che in questa situazione, l’unico rimedio per il giudice di rinvio sarebbe quello di sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale, riportandosi alle conclusioni rassegnate nel giudizio, di oggetto analogo, concluso con la sentenza n. 453 del 1997, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile;
che a parere della difesa dello Stato, la disposizione censurata deve essere interpretata in conformità alla sua ratio ispiratrice, che consiste nell’intento di evitare le “contestazioni a catena”;
che tale ratio dovrebbe portare a ritenere che la disposizione censurata non possa trovare applicazione quando si tratti del computo di termini di fase aventi decorrenza unitaria, in rapporto ai quali resta evidentemente esclusa la possibilità di un artificioso allungamento come conseguenza della successione temporale dei provvedimenti coercitivi.
Considerato che il Tribunale di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’articolo 13, quinto comma, della Costituzione, dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, per le ipotesi di provvedimenti cautelari «a catena» restrittivi della libertà personale, i termini di custodia, commisurati alla più grave delle contestazioni, decorrano dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza anche nei casi in cui i fatti che ne costituiscono il fondamento e quelli posti a base della successiva misura siano tra loro in rapporto di connessione non qualificata (non siano stati cioè commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, o per eseguire altri reati), sempre che di questi ultimi fatti si accerti in modo incontestabile la sussistenza, a disposizione dell’autorità giudiziaria, già al momento dell’emissione del primo provvedimento cautelare;
che il medesimo giudice a quo si dichiara consapevole del fatto che l’interpretazione, testuale e restrittiva, fatta propria dall’ordinanza di rimessione, non costituisce affatto diritto vivente, poiché è contrastata da numerose pronunce di legittimità le quali, in relazione alle misure cautelari «a catena», hanno affermato la retrodatazione del termine di decorrenza della custodia cautelare al primo provvedimento restrittivo in ogni ipotesi di connessione tra i reati contestati, e quindi anche al di là delle fattispecie di connessione teleologica a cui la disposizione censurata sembrerebbe circoscriverla mediante il richiamo all’«art. 12, comma 1, lettere b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguirne altri»;
che, sebbene la disposizione fosse in astratto suscettibile di interpretazione costituzionalmente conforme, il remittente si è indotto a sollevare questione di legittimità costituzionale onde sottrarsi al principio di diritto fissato dalla Corte di cassazione al quale era vincolato come giudice di rinvio;
che tuttavia, nelle ipotesi in cui i principî costituzionali vengano invocati dal giudice di rinvio per contrastare il principio di diritto affermato in fase di legittimità ed evitarne l’applicazione, la motivazione della rilevanza della questione deve essere particolarmente rigorosa;
che la Corte di cassazione, nell’enunciare il punto di diritto di cui si discorre, ha rilevato che il Tribunale di Napoli risultava essersi limitato a recepire la tesi difensiva dell’inserimento di tutti i fatti delittuosi nell’ambito di lotte camorristiche, senza indicare alcun concreto elemento che comprovasse la sussistenza del nesso teleologico tra i delitti in relazione ai quali era stato emesso il primo provvedimento restrittivo e quelli che avevano formato oggetto del secondo;
che, più precisamente, la Corte di legittimità aveva censurato la pronuncia di merito sotto l’ulteriore profilo che questa avesse omesso di indagare il rapporto esistente tra i primi delitti e quelli oggetto della seconda contestazione, e in particolare la fattispecie associativa;
che, su tale specifico punto, l’ordinanza di rimessione si è limitata ad affermare, senza motivarla, la reciproca autonomia dei delitti di omicidio oggetto della prima e della seconda ordinanza di custodia cautelare, soggiungendo che la giurisprudenza di legittimità sarebbe pressoché concorde nell’escludere la configurabilità del vincolo della connessione qualificata tra il delitto associativo e i delitti compiuti dagli associati;
che con quest’ultima affermazione il remittente si sottrae al dictum della Cassazione, che, censurando la mancanza di motivazione sul punto, aveva invece mostrato inequivocamente di orientarsi in senso difforme dalla giurisprudenza citata dall’ordinanza di rimessione;
che poiché, secondo l’interpretazione resa nella specie dal supremo collegio, il divieto di contestazioni «a catena» è indubbiamente operante nel caso di reati legati dal vincolo di connessione qualificata, per dimostrare il carattere concreto di una questione di legittimità costituzionale tendente ad estendere tale divieto alle ipotesi di unicità della fonte probatoria (nel caso esaminato, le intercettazioni ambientali), il remittente avrebbe dovuto esporre le ragioni per le quali, tra il delitto di omicidio oggetto della prima ordinanza cautelare e i delitti di omicidio e associazione per delinquere, oggetto della seconda, non sussistesse alcun rapporto di connessione qualificata, così da rendersi necessaria, per conferire effettività ai principî espressi dall’art. 13 della Costituzione, una sentenza di accoglimento di questa Corte;
che pertanto la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile per motivazione carente sulla rilevanza.
Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 297, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’articolo 13, quinto comma, della Costituzione, dal Tribunale di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2003.