Sentenza n. 104/2003

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SENTENZA N.104

ANNO 2003

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Riccardo CHIEPPA, Presidente

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

- Francesco AMIRANTE        

- Ugo DE SIERVO     

- Romano VACCARELLA    

- Paolo MADDALENA          

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri) e 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) e dell’art. 45, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promossi con ordinanze del 9 ottobre 2001 dal Tribunale di Trieste nel procedimento civile vertente tra Rigo Rossella e la Regione Friuli-Venezia Giulia e del 24 luglio 2001 dal Tribunale di Ivrea nel procedimento civile vertente fra l’INPS e Bersano Giovanni ed altra iscritte rispettivamente ai nn. 165 e 294 del registro ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17 e n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visti gli atti di costituzione di Rigo Rossella, dell’INPS, della Regione Friuli-Venezia Giulia nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 novembre 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante;

uditi l’avvocato Franco Berti per Rigo Rossella e l’avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di una controversia di lavoro promossa da Rossella Rigo Vanon nei confronti della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, sua datrice di lavoro, il Tribunale di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, dell’art. 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), e dell’art. 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro).

Il giudice a quo specifica che la ricorrente, avendo ottenuto, insieme con il proprio marito, l’affidamento preadottivo di due bambini nati rispettivamente nel 1991 e nel 1994, ha chiesto in sede cautelare di poter essere ammessa a fruire dei periodi di riposo giornaliero di cui all’art. 10 della legge n. 1204 del 1971. Il provvedimento, concesso dal medesimo giudice remittente in sede cautelare, è stato poi annullato dal Tribunale a seguito di reclamo.

Instauratosi il giudizio di merito, il giudice a quo, nel sollevare la presente questione, ricorda di aver accolto l’istanza cautelare della ricorrente in base al convincimento per cui il termine annuale previsto dall’impugnato art. 10 deve decorrere, in caso di affidamento preadottivo, non dalla nascita, bensì dall’ingresso effettivo del minore in famiglia. A tale convincimento egli precisa di essere giunto sulla base di una lettura sistematica delle norme vigenti, compiuta alla luce delle sentenze di questa Corte n. 1 del 1987, n. 332 del 1988, n. 341 del 1991 e n. 179 del 1993. Le misure di protezione originariamente previste per la sola madre biologica, infatti, sono state estese, grazie alla legge n. 903 del 1977 ed alle citate sentenze, tanto in favore del padre che dei genitori adottivi ed affidatari, facendo decorrere i termini di fruibilità per questi ultimi dal momento dell’effettivo ingresso del minore nella famiglia.

Nelle more del giudizio, tuttavia, sono entrati in vigore la legge 8 marzo 2000, n. 53, ed il testo unico approvato con decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151; quest’ultimo ha chiarito (art. 45) che le disposizioni relative ai riposi giornalieri si applicano anche in caso di adozione e di affidamento "entro il primo anno di vita del bambino". Siffatta disposizione, unitamente al carattere non innovativo del menzionato testo unico, desumibile dall’art. 15 della legge n. 53 del 2000 (che contiene la relativa delega), induce il remittente a ritenere che anche per il passato i permessi in questione potessero essere goduti dal genitore affidatario solo entro il primo anno di vita del bambino.

E’ proprio tale limitazione temporale, peraltro, a far sorgere nel remittente dubbi di legittimità costituzionale delle norme impugnate. Nella quasi totalità dei casi, infatti, i bambini dati in affidamento preadottivo o in adozione entrano nella famiglia quando hanno già compiuto il primo anno di età, sicché i permessi in oggetto finirebbero con l’essere prerogativa pressoché esclusiva dei genitori biologici, con evidente violazione del principio di eguaglianza. Oltre a ciò, l’anzidetta limitazione si pone in contrasto anche con l’art. 37 Cost. perché la madre adottiva, qualora non possa (per motivi economici) o non voglia avvalersi della c.d. astensione facoltativa (oggi congedo parentale), si trova nella sostanziale impossibilità di assistere il minore che le è stato affidato; sicché non le resta altra soluzione che la permanenza nel posto di lavoro, con tutti gli effetti negativi che inevitabilmente derivano a carico del figlio.

Il Tribunale di Trieste, pertanto, chiede che le norme impugnate vengano dichiarate costituzionalmente illegittime "nella parte in cui non prevedono a favore delle madri adottive o affidatarie in preadozione il diritto di fruire dei periodi di riposo giornaliero entro l’anno dall’effettivo ingresso del bambino nella famiglia adottiva o affidataria".

2.1 — Si è costituita in giudizio la ricorrente Rossella Rigo Vanon, chiedendo che la questione venga decisa nel senso indicato dal remittente.

Rileva la parte privata che, ove venisse accolta l’interpretazione restrittiva indicata dal Tribunale di Trieste, le norme impugnate non potrebbero sottrarsi alle indicate censure di illegittimità costituzionale. La legislazione protettiva della maternità, infatti, non si limita a prendere in considerazione le esigenze fisiologiche del minore, bensì tiene presenti anche quelle relazionali ed affettive, tanto che i termini di ammissione al congedo obbligatorio e facoltativo, sebbene collegati all’età del minore adottando, decorrono dal momento in cui questi compie il proprio ingresso nella famiglia. E non si vede per quale motivo analoga previsione non debba valere anche per i permessi di cui all’art. 10 della legge n. 1204 del 1971.

2.2 — In prossimità dell’udienza la parte privata Rossella Rigo Vanon ha presentato un’articolata memoria, insistendo per l’accoglimento delle rassegnate conclusioni.

Premette la parte che la vicenda processuale in oggetto si è svolta prima dell’entrata in vigore del testo unico di cui al d. lgs. n. 151 del 2001 e che il diritto dei genitori adottivi di fruire dei permessi giornalieri deve ritenersi già previsto dall’ordinamento ancor prima dell’entrata in vigore del testo unico medesimo.

La Rigo Vanon richiama innanzitutto il dibattito svoltosi in seno alla giurisprudenza di legittimità relativamente all’estensibilità in favore dei genitori adottivi ed affidatari delle provvidenze di cui alla legge n. 1204 del 1971 per il periodo anteriore all’entrata in vigore della legge n. 903 del 1977 – il cui art. 6 ha espressamente risolto il quesito in senso favorevole (almeno a partire da quella data) – e ricorda la sentenza n. 332 del 1988 di questa Corte con la quale sono state dichiarate costituzionalmente illegittime (quindi, con effetto retroattivo) una serie di norme della legge n. 1204 del 1971 nella parte in cui non estendevano le provvidenze ivi previste ai genitori adottivi ed anche agli affidatari provvisori, fissando in tutti i casi i termini di fruizione dalla data di effettivo ingresso del minore nella famiglia.

La parte privata prosegue poi richiamando altre pronunce di questa Corte di fondamentale importanza nella materia in questione, ossia le sentenze n. 1 del 1987, n. 341 del 1991 e n. 179 del 1993.

Alla luce della giurisprudenza costituzionale evocata, la parte privata ritiene che la disciplina di cui all’art. 10 della legge n. 1204 del 1971 debba applicarsi anche in favore dei genitori adottivi ed affidatari, attraverso un procedimento interpretativo di carattere "logico-sistematico" che collega le norme esistenti, così come riviste dalla Corte costituzionale, con i principi fondamentali dell’ordinamento.

Secondo la parte privata, del resto, sarebbe molto difficile, sul piano della legittimità costituzionale, dare una spiegazione accettabile del perché la fruibilità dei permessi giornalieri debba essere ristretta anche per i bambini adottivi al solo primo anno di vita, dettando una regola che in concreto renderebbe l’istituto pressoché inapplicabile e che risulterebbe incomprensibile da un punto di vista logico, oltre che in contrasto con l’obiettivo fondamentale di salvaguardare nel modo migliore l’evoluzione psico-fisica del minore. Siffatta interpretazione restrittiva, d’altra parte, risulterebbe in evidente contrasto con tutti i parametri costituzionali invocati dal giudice remittente.

3.— Si è costituita in giudizio la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, parte convenuta nel giudizio a quo, chiedendo che la prospettata questione venga dichiarata inammissibile o infondata.

L’inammissibilità deriverebbe dalla completa carenza di motivazione in punto di rilevanza, poiché il remittente non ha neppure precisato quale sia stata l’effettiva data di ingresso dei minori nella famiglia della ricorrente.

Nel merito, la parte osserva che la parificazione tra genitori biologici e genitori adottivi è stata compiuta dalle leggi vigenti in riferimento al congedo di maternità ed al congedo parentale (che attualmente indicano l’astensione obbligatoria e quella facoltativa).

I riposi giornalieri di cui all’art. 10 della legge n. 1204 del 1971 hanno, invece, una finalità ben diversa, che è quella di accudire il neonato nella fase immediatamente successiva alla nascita; tale necessità di assistenza diretta si conclude, secondo la valutazione del legislatore, col compimento del primo anno di vita. Estendere la fruibilità di tali permessi entro l’anno dall’effettivo ingresso del minore nella famiglia significa snaturare la portata dell’istituto, compiendo una valutazione che è di politica legislativa; anche per le madri biologiche, d’altra parte, i permessi non sono più concedibili una volta trascorso il primo anno di vita del bambino, restando alle medesime la sola facoltà di avvalersi del congedo parentale, di modo che nessuna diversità di trattamento può essere ravvisata nel sistema vigente.

Da tanto consegue l’infondatezza della questione.

4.— E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto difensivo di contenuto identico a quello della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.

5.— Il Tribunale di Ivrea – adìto in sede di reclamo avverso il provvedimento d’urgenza concesso dal giudice monocratico, ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., col quale veniva riconosciuto al ricorrente, padre adottivo di un minore, il diritto alla fruizione dei riposi giornalieri entro l’anno dall’ingresso del bambino nella famiglia – ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29, 30, 31, 37 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53).

Osserva il giudice a quo che l’impugnato provvedimento d’urgenza è stato emesso in primo grado in base al convincimento per cui i riposi giornalieri previsti dall’art. 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e dall’art. 3, comma 5, della legge n. 53 del 2000, possono essere fruiti dai genitori adottivi non entro l’anno dalla nascita del minore, bensì entro l’anno dal momento in cui lo stesso ha fatto il suo effettivo ingresso nella famiglia. In sede di reclamo, proposto dall’Istituto nazionale della previdenza sociale, tanto quest’ultimo quanto il datore di lavoro hanno eccepito l’erroneità del provvedimento favorevole al lavoratore, sostenendo che il quadro normativo complessivo, da leggersi alla luce del sopravvenuto art. 45 del d. lgs. n. 151 del 2001, imponeva di limitare la concessione dei permessi in questione al primo anno di vita del bambino.

Ciò premesso in punto di fatto, il Tribunale di Ivrea, accogliendo e facendo propria l’eccezione avanzata in sede di reclamo dal lavoratore (che insisteva nel contempo per la conferma dell’impugnato provvedimento), ha ritenuto di dover sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 45 "nella parte in cui dispone che le norme in materia di riposi di cui agli artt. 39, 40, 41 dello stesso decreto si applicano anche in caso di adozione e di affidamento soltanto entro il primo anno di vita del bambino" (comma 1).

Nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale remittente ricorda che la normativa sui permessi giornalieri di maternità trovava in origine il proprio fondamento nell’esigenza dell’allattamento; tale esigenza, benché non superata, può tuttavia considerarsi non più esclusiva alla luce sia di quanto sostenuto da questa Corte nella sentenza n. 179 del 1993 sia del testo dell’art. 6-ter della legge n. 903 del 1977, introdotto con la menzionata legge n. 53 del 2000. Non si tratta, infatti, soltanto di permettere alla madre (o al padre) di badare alle fondamentali esigenze fisiche del bambino, ma anche di curare l’aspetto relazionale del rapporto genitoriale, favorendo il contatto affettivo fra il genitore ed il figlio. L’art. 39 del d. lgs. n. 151 del 2001, d’altra parte, sembra aver recepito tale mutamento di prospettiva, facendo riferimento agli asili nido piuttosto che alle camere di allattamento.

A tale evoluzione della tutela della maternità e della paternità si è affiancata una crescente attenzione del legislatore nei confronti della famiglia adottiva, tradottasi in una serie di norme che di fatto equiparano i genitori adottivi a quelli biologici.

Sulla base di tali premesse, al Tribunale remittente la norma censurata pare in contrasto con i numerosi parametri costituzionali citati. Innanzitutto con l’art. 3 Cost., inteso sia come principio di eguaglianza che come principio di ragionevolezza, perché il legislatore ha fissato un medesimo termine di fruibilità dei permessi in oggetto mentre è evidente che l’inserimento del bambino nella famiglia adottiva avviene, a differenza che per la famiglia biologica, in un momento successivo alla nascita, sicché la parità di trattamento finisce col tradursi in un evidente ostacolo alla crescita armoniosa del figlio adottivo, a dispetto di tutte le indicazioni provenienti proprio dalla giurisprudenza costituzionale; e ciò è tanto più irrazionale in quanto il legislatore, nel regolare il congedo per la malattia del figlio, ha dimostrato di tener presente la diversa situazione dei figli adottivi, consentendo ai genitori di assentarsi fino al compimento del sesto anno di età da parte del minore.

Altrettanto evidente appare al Tribunale il contrasto con gli artt. 29, 30 e 31 Cost., norme tutte finalizzate alla protezione della famiglia e della filiazione; l’art. 45 impugnato, infatti, dimostra di trascurare le esigenze di carattere affettivo e relazionale del figlio che sono senz’altro presenti anche nel caso della filiazione adottiva, dettando una regola che nella grande maggioranza dei casi finirà col non poter essere utilizzata, perché la complessità della procedura di adozione è tale che l’effettivo ingresso del minore nella famiglia avviene quando il medesimo ha già compiuto il primo anno di vita. Ragioni del tutto analoghe inducono a ritenere violato l’art. 37 Cost., perché la norma in oggetto contrasta con l’obiettivo di protezione della lavoratrice madre (e del lavoratore padre) alla luce delle sentenze costituzionali n. 179 del 1993 e n. 341 del 1991, le quali hanno chiarito che le esigenze di equilibrata crescita del minore rendono necessaria la presenza di entrambi i genitori, con un criterio che vale anche in rapporto all’affidamento ed all’adozione.

Ultima censura ravvisata dal remittente è la violazione dell’art. 77 Cost. sotto il profilo dell’eccesso di delega: in contrasto con i criteri direttivi fissati dall’art. 15, comma 1, lettera c), della legge n. 53 del 2000 – secondo cui il legislatore delegato aveva il potere di modificare le norme esistenti soltanto allo scopo di garantirne la coerenza logica e sistematica – la norma impugnata pone, infatti, un limite per l’applicabilità delle disposizioni sui riposi giornalieri nel caso di adozioni o affidamenti non previsto dalla previgente normativa.

La questione si palesa rilevante, d’altra parte, perché, stante l’immediata applicabilità ratione temporis dell’art. 45 del d. lgs. n. 151 del 2001, in caso di rigetto della proposta questione da parte della Corte, il Tribunale non potrebbe che accogliere il reclamo, annullando la prima ordinanza cautelare e negando la sussistenza del diritto del padre ricorrente a fruire dei periodi di riposo in esame, essendo stati i medesimi concessi in relazione ad un momento in cui il minore adottato aveva già compiuto il primo anno di età (mentre non era ancora trascorso il primo anno dall’ingresso nella famiglia).

6.— Si è costituito in giudizio l’INPS, chiedendo che la questione venga dichiarata non fondata.

Osserva l’ente previdenziale che i riposi giornalieri dei quali si discute sono stati istituiti con lo scopo primario di consentire l’allattamento del bambino, ossia per soddisfare un’esigenza di alimentazione e di crescita, tanto che in passato parecchie aziende avevano creato le apposite camere di allattamento. Mutato radicalmente l’assetto della società, tali permessi sono stati concessi anche ai padri lavoratori, sicché alla funzione originaria dei medesimi se ne sono affiancate altre, le quali tuttavia non hanno eliminato la ratio fondamentale per cui essi costituiscono un vero e proprio diritto del lavoratore. Se, d’altronde, la funzione alimentare non fosse a base dei riposi in questione, non si capirebbe il motivo per il quale in caso di parto plurimo la legge prevede il raddoppio della durata degli stessi (art. 41 del d. lgs. n. 151 del 2001).

Alla luce di siffatta ricostruzione, quindi, appare del tutto ragionevole il termine annuale, decorrente dal momento della nascita, che il legislatore ha fissato per la fruibilità di tali permessi; decorso il primo anno di vita, infatti, si sarà compiuto lo "svezzamento", il che consentirà al genitore di tornare al normale orario di lavoro salva la possibilità di godere del congedo parentale.

Del pari infondati paiono all’INPS i profili di violazione degli artt. 29, 30, 31 e 37 Cost., perché la tutela della maternità e della paternità è ampiamente assicurata nel nostro ordinamento da altri e ben più importanti istituti – quali il congedo per maternità, quello parentale e quello per le malattie del figlio – che testimoniano l’equilibrio complessivo del sistema vigente e che consentono di restringere l’ambito temporale dei permessi di allattamento, senza timori di violazione di alcun parametro costituzionale, nei limiti fissati dalla norma impugnata.

7.— E’ intervenuto anche in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della questione.

La difesa erariale rileva che l’ordinanza del Tribunale di Ivrea non pare aver compreso il vero obiettivo che il legislatore si è prefisso di raggiungere con la norma impugnata. La ratio legis, infatti, non è tanto quella di fornire un’ulteriore protezione al genitore lavoratore, quanto piuttosto quella di garantire un’adeguata assistenza al bambino nella prima e più delicata fase della sua esistenza. A tale scopo la fruibilità dei permessi è stata estesa anche al padre, indirettamente dimostrando che la finalità dell’allattamento al seno è solo uno degli obiettivi, ma non l’unico, che la norma intende perseguire. Tuttavia il legislatore si è anche preoccupato di contemperare le esigenze di assistenza del bambino con quelle del lavoro, limitando il godimento dei permessi giornalieri al primo anno di vita del minore; nessuna disparità di trattamento è ravvisabile, perciò, tra figli adottivi e figli cresciuti dai genitori biologici, perché la norma ha ritenuto che le esigenze primarie di accudimento del neonato cessino al compimento del primo anno di età. Sindacare la scelta compiuta, estendendo la portata della norma nel senso auspicato dal remittente, significherebbe entrare in una sfera riservata alla discrezionalità del legislatore, per di più creando una fattispecie dagli incerti confini applicativi.

Le considerazioni svolte dimostrano anche, secondo la difesa erariale, l’inesistenza della presunta violazione dell’art. 77 Cost. sotto il profilo dell’eccesso di delega; la norma impugnata, infatti, in conformità al criterio direttivo di cui all’art. 15, comma 1, lettera c), della legge n. 53 del 2000, non mira affatto ad introdurre nell’ordinamento una norma nuova, bensì soltanto ad assicurare la coerenza logica complessiva del sistema normativo vigente.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di Trieste ed il Tribunale di Ivrea sottopongono all’esame della Corte due questioni che, quantunque aventi ad oggetto disposizioni diverse (ratione temporis), sono nella sostanza di identico contenuto.

In particolare, il Tribunale di Trieste dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, dell’art. 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), e dell’art. 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro); il Tribunale di Ivrea, invece, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 (comma 1) del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), in riferimento agli artt. 3, 29, 30, 31, 37 e 77 della Costituzione.

Fondamento di entrambe le questioni è il dubbio riguardante la fruizione dei permessi giornalieri in favore dei genitori adottivi e degli affidatari, che la legislazione vigente limita al primo anno di vita del bambino, così come per i figli biologici. Ad avviso dei Tribunali remittenti, invece, in caso di adozione o di affidamento tali permessi dovrebbero essere fruibili a partire dalla data di effettivo ingresso del minore nella famiglia, pur rimanendo fermo l’attuale limite annuale, sussistendo altrimenti violazione sotto vari profili dei menzionati parametri costituzionali.

2.— Le due questioni si differenziano sostanzialmente soltanto da un punto di vista di cronologia delle norme impugnate, perché le leggi n. 1204 del 1971 e n. 903 del 1977 sono state trasfuse, assieme a molte altre, nel testo unico di cui al d. lgs. n. 151 del 2001; il Tribunale di Trieste ha impugnato le norme previgenti, mentre quello di Ivrea ha impugnato l’art. 45 del testo unico. Le questioni, pertanto, possono essere riunite e decise con una sola pronuncia.

3.— La questione proposta del Tribunale di Trieste è inammissibile per un duplice ordine di ragioni.

Da un lato, infatti, il giudice a quo non ha descritto in modo adeguato la fattispecie sottoposta al suo esame; in particolare, ha omesso di indicare una dato essenziale ai fini della rilevanza, ossia la data di effettivo ingresso nella famiglia della ricorrente dei due bambini destinatari dell’affidamento preadottivo; d’altro canto, poi, egli, pur mostrando di conoscere la legge n. 53 del 2000 ed il d. lgs. n. 151 del 2001, non ha tuttavia fornito alcuna motivazione sulla ragione che lo ha indotto a sottoporre all’esame della Corte due norme espressamente abrogate dall’art. 86 del decreto da ultimo menzionato. In tal modo il giudice remittente ha dimenticato che, secondo pacifica giurisprudenza di questa Corte (v. da ultimo l’ordinanza n. 204 del 2002), lo scrutinio di legittimità costituzionale avente ad oggetto norme abrogate prima della rimessione della questione è possibile solo a condizione che si dia conto delle ragioni per le quali tale scrutinio mantiene la sua rilevanza nel giudizio principale.

Né, d’altronde, per sopperire alle suddette lacune dell’ordinanza, è possibile fare ricorso alle allegazioni delle parti.

4.— La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Ivrea va esaminata, logicamente, innanzitutto sotto il profilo preliminare dell’eccesso di delega; ad avviso del giudice a quo, infatti, poiché il testo unico di cui al d. lgs. n. 151 del 2001 non avrebbe potuto avere contenuto innovativo – in forza dei criteri direttivi contenuti nell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge delega n. 53 del 2000 – l’art. 45 impugnato, nello stabilire il limite del primo anno di vita del bambino anche per i genitori adottivi e per gli affidatari, avrebbe oltrepassato i limiti della delega stessa.

Questa censura è inammissibile.

Il giudice remittente prospetta infatti il vizio di eccesso di delega nel convincimento che il limite di un anno dalla nascita del bambino non fosse già previsto dall’art. 10 della legge n. 1204 del 1971 e sia stato quindi introdotto ex novo illegittimamente dalla norma censurata, ma di tale convincimento il Tribunale di Ivrea non fornisce alcuna motivazione, con la conseguenza che la questione, sotto il profilo qui esaminato, è inammissibile.

5.― La questione prospettata dal Tribunale di Ivrea θ invece fondata per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sia sotto il profilo dell’eguaglianza, perché la norma censurata assoggetta a eguale trattamento situazioni diverse, sia sotto quello della intrinseca irragionevolezza.

Si premette che l’istituto dei riposi giornalieri, senza indugiare sulla normativa anteriore alla Costituzione, aveva la sua originaria disciplina nell’articolo 9 della legge 26 aprile 1950, n. 860, ed era regolato come strumento finalizzato esclusivamente all’allattamento. La norma richiamata attribuiva il diritto a tali permessi soltanto alle madri che allattavano direttamente i propri bambini, prevedendo le pause in funzione di quell’unica necessità, tanto che la predisposizione, da parte del datore di lavoro, delle cosiddette camere di allattamento e dell’asilo nido obbligava le lavoratrici ad allattare in sede, senza possibilità di uscire dai locali aziendali.

I riposi giornalieri erano quindi concepiti come complementari alle altre misure dirette alla protezione della maternità biologica oltre che parzialmente sostitutivi dell’astensione dal lavoro post partum.

Il successivo articolo 10 della legge n. 1204 del 1971 dimostra già un cambiamento di prospettiva. Infatti, la fruizione dei riposi risulta non più strettamente connessa all’esigenza puramente fisiologica dell’allattamento, tanto che la norma non obbliga più la lavoratrice ad utilizzare le strutture eventualmente predisposte dal datore di lavoro, quali le camere di allattamento e gli asili nido, e comincia a dare rilievo all’aspetto affettivo e relazionale del rapporto madre-figlio.

E’ indubbio, quindi, che gli istituti a protezione della maternità nascono e vivono per un certo tempo in un contesto sociale e ordinamentale nel quale da un canto l’adozione, ed in particolare quella dei minorenni, ha scarsa applicazione e svolge una funzione ben diversa da quella che avrebbe successivamente assunto, dall’altro il ruolo del padre nella società e nella famiglia è ancora concepito come del tutto secondario riguardo alla crescita e alla educazione dei figli nei primi anni della loro vita, sicché ciò che ha preminente rilievo è pur sempre la maternità biologica. In tale periodo è soltanto la giurisprudenza ordinaria che, non senza oscillazioni e contrasti, estende ai genitori adottivi i benefici previsti per i genitori naturali.

6.― Il quadro muta radicalmente a partire dagli anni settanta per effetto di una serie di leggi di riforma (diritto di famiglia, paritΰ di trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro, adozione dei minori) e di alcune decisioni di questa Corte.

Limitando l’indagine a ciò che più specificamente riguarda la questione in esame, l’art. 6 della legge n. 903 del 1977 ha esteso alle madri adottive o affidatarie gli istituti dell’astensione dal lavoro obbligatoria e facoltativa e l’art. 7 ha attribuito anche al padre lavoratore il diritto all’astensione facoltativa, ma solo a determinate condizioni.

Ciò che occorre soprattutto sottolineare è che la legge, stabilendo che i benefici potevano essere goduti, in caso di adozione o affidamento, nel primo anno d’ingresso del bambino nella famiglia dell’adottante o dell’affidatario, anche se limitatamente all’ipotesi che il bambino non avesse superato i sei anni di età, ha attribuito rilievo alla diversità di esigenze del bambino adottato rispetto a quelle proprie del bambino che vive con i genitori naturali o con almeno uno di questi.

7.― Questa Corte θ stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme disciplinanti gli istituti a protezione della maternità e dei minori, in particolare sotto il profilo della loro mancata o non totale estensione al padre lavoratore oppure ai genitori legali (adottanti o affidatari).

Per effetto di una serie di decisioni, tutte di accoglimento, il diritto all’astensione obbligatoria ed ai riposi giornalieri, a determinate condizioni, è stato esteso al padre lavoratore (sentenza n. 1 del 1987); il diritto all’astensione facoltativa è stato riconosciuto alla madre affidataria provvisoria e quello all’astensione obbligatoria alla madre affidataria in preadozione (sentenza n. 332 del 1988); il diritto all’astensione nei primi tre mesi dall’ingresso del bambino nella famiglia è stato attribuito al padre lavoratore affidatario di minore per i primi tre mesi successivi all’ingresso del bambino nella famiglia in alternativa alla madre (sentenza n. 341 del 1991); il diritto ai riposi giornalieri, infine,è stato esteso, in via generale ed in ogni ipotesi, al padre lavoratore in alternativa alla madre consenziente, per l’assistenza al figlio nel suo primo anno di vita (sentenza n. 179 del 1993).

8.― Da quanto sinteticamente esposto risulta che gli istituti dell’astensione dal lavoro, obbligatoria e facoltativa, ora denominati congedi, e quello dei riposi giornalieri oggi non hanno più l’originario necessario collegamento con la maternità naturale e non hanno più come esclusiva funzione la protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore, ma sono diretti anche, come questa Corte ha già più volte affermato nelle motivazioni delle sentenze suindicate, ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità.

Ciò che più rileva, ai fini della soluzione della presente questione, è la piena coincidenza tra la ratio delle decisioni di questa Corte appena richiamate e l’attività del legislatore. Questi, nel momento in cui ha esteso misure previste in caso di filiazione naturale alla filiazione adottiva ed all’affidamento ha avvertito che l’età del minore diveniva un elemento, se non trascurabile, certamente secondario, mentre veniva in primo piano il momento dell’ingresso del minore nella famiglia adottiva o affidataria, in considerazione delle difficoltà che tale ingresso comporta sia riguardo alla personalità in formazione del minore, soggetta al trauma del distacco dalla madre naturale o a quello del soggiorno in istituto, sia per i componenti della famiglia adottante o affidataria.

9.― Il d. lgs. n. 151 del 2001, il cui articolo 45 θ censurato dal Tribunale di Ivrea, ha coordinato e razionalizzato tutta la disciplina di tutela delle lavoratrici e dei lavoratori connessa alla maternità e paternità dei figli naturali, adottivi e in affidamento, nonché le misure di sostegno economico alla maternità e alla paternità (art. 1), ribadendo, nei casi di adozione e di affidamento, la rilevanza del momento dell’ingresso del minore nella famiglia per quanto concerne la fruizione dei congedi (v. art. 26, comma 2; art. 31; art. 36, comma 2, del medesimo decreto).

Le difese della Presidenza del Consiglio e dell’INPS, pur convenendo sull’evoluzione e sul mutamento di funzioni che gli istituti a sostegno della maternità e della paternità hanno avuto nel corso degli ultimi decenni, sostengono che quello dei riposi giornalieri conserva pur sempre un collegamento con le necessità connesse alla prima età del minore, come sarebbe dimostrato dall’art. 41 del d. lgs. n. 151 del 2001, secondo cui la durata dei riposi è raddoppiata in caso di parto plurimo.

Tale tesi non può essere accolta.

I riposi giornalieri, una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del bambino, hanno la funzione, come si è detto, di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell’armonico e sereno sviluppo della sua personalità. Essi, pertanto, svolgono una funzione omogenea a quella che assolvono i congedi e, più specificamente, i congedi parentali. Ora, per questi il legislatore ha ritenuto rilevante, in caso di adozione o di affidamento, il momento dell’ingresso del minore nella famiglia, considerando l’età del minore, peraltro diversamente disciplinata a seconda delle varie ipotesi di adozioni o affidamenti (per l’adozione internazionale v. gli artt. 27 e 37 del d. lgs. n. 151 del 2001), esclusivamente come un limite alla fruizione dei benefici. Ne consegue che restringere il diritto ai riposi per gli adottanti e gli affidatari al primo anno di vita del bambino non soltanto è intrinsecamente irragionevole, ma è anche in contrasto con il principio di eguaglianza, perché l’applicazione agli adottanti ed agli affidatari della stessa formale disciplina prevista per i genitori naturali finisce per imporre ai primi ed ai minori adottati o affidati un trattamento deteriore, attesa la peculiarità della loro situazione.

Nè può indurre a diversa conclusione la richiamata disposizione sulla disciplina dei riposi in caso di parto plurimo, poiché non solo le esigenze fisiche ma anche quelle affettive richiedono un tempo maggiore quando debbono essere soddisfatte riguardo a più persone.

Deve essere, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 45 del d. lgs. n. 151 del 2001, per contrasto con 1’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che i riposi giornalieri di cui agli articoli 39, 40 e 41 dello stesso decreto si applichino, in caso di adozione o di affidamento, entro il primo anno dall’ingresso effettivo del minore nella famiglia.

Rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire eventualmente dei limiti alla fruizione dei riposi correlati all’età del minore adottato o affidato.

Restano assorbiti gli altri profili di censura.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 45, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui prevede che i riposi di cui agli artt. 39, 40 e 41 si applichino, anche in caso di adozione e di affidamento, "entro il primo anno di vita del bambino" anziché "entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia";

dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), e dell’art. 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, dal Tribunale di Trieste con l’ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 marzo 2003.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Depositata in Cancelleria l'1 aprile 2003.