SENTENZA N.336
ANNO 2002
Commento alla decisione di
Davide Amadei
(per gentile concessione della Rivista telematica Judicium, Il processo civile in Italia e in Europa)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Franco BILE "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 612 del codice di procedura civile promosso, con ordinanza del 21 agosto 2001, dal Tribunale di Treviso nel procedimento civile vertente tra Zambon Anna e Zambon Maria Luigia, iscritta al n. 930 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso di un procedimento di opposizione all’esecuzione promosso dalla signora Anna Zambon avverso la procedura esecutiva iniziata dalla signora Maria Luigia Zambon per l’esecuzione di obblighi di fare sulla base di un verbale di conciliazione giudiziale, nel quale veniva contestato che fosse possibile nel nostro ordinamento considerare il verbale di conciliazione giudiziale titolo esecutivo idoneo a consentire l’esecuzione di obblighi di fare, il Tribunale di Treviso ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 del codice di procedura civile, nella parte in cui – secondo il “diritto vivente” – non prevede l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare sulla base di un verbale di conciliazione giudiziale sotto il controllo del giudice dell’esecuzione.
Il remittente osserva, in primo luogo, che il diritto vivente sul quale si fonda la questione – e che, a suo avviso, è vincolante per il giudice di merito, provenendo dalla Corte di cassazione cui è assegnata la funzione di nomofilachia – poggia su argomenti molto deboli.
Il primo – che è costituito dal dato letterale (secondo cui il termine “sentenza” non potrebbe estendersi al verbale di conciliazione) – è superato dalla stessa Corte di cassazione che ha ritenuto di estendere il termine sentenza a qualsiasi provvedimento di condanna. Al riguardo il remittente precisa che il verbale di conciliazione, ancorché non sia assimilabile quanto agli effetti ad una sentenza passata in giudicato, è da considerare un titolo esecutivo contrattuale simile agli atti notarili, al quale il legislatore può attribuire effetti ulteriori e non limitati a quelli di semplice titolo contrattuale esecutivo valido solo per le somme di denaro in esso contenute (come accade per gli atti notarili e simili ex art. 474, secondo comma, numero 3, cod. proc. civ.). Del resto, al verbale di conciliazione si attribuisce titolo anche per l’esecuzione per consegna e rilascio, secondo quanto affermato dalla stessa Corte di cassazione nella sentenza n. 1135 del 1950 ed in conformità a quanto stabilito per l’esecuzione degli sfratti nelle regioni Basilicata e Campania dall’art. 10, decimo comma, del decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, convertito nella legge 25 marzo 1982, n. 94.
Altro argomento con cui si nega l’idoneità del verbale di conciliazione quale titolo ai sensi dell’art. 612 cod. proc. civ. è rappresentato dal rilievo che solo un provvedimento del giudice può contenere l’accertamento positivo della fungibilità – e quindi della coercibilità – dell’obbligo di fare; tale argomento, osserva il remittente, porta ad escludere in modo assoluto la liceità di fondare una esecuzione di obblighi di fare o non fare sulla base di un verbale di conciliazione.
Il Tribunale di Treviso osserva che l’art. 612 cod. proc. civ., come emerge dal suddetto diritto vivente, si pone in contrasto con numerosi principi costituzionali.
Il primo e fondamentale principio che viene violato è quello di razionalità–uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevole disparità di trattamento che ne deriva tra il soggetto che ha ottenuto un verbale di conciliazione, evitando il giudizio, e colui che preferisce affrontare il giudizio ed aspettare la sentenza, dovendo il primo fare affidamento sulla controparte per quanto riguarda l’esecuzione degli accordi presi o rivolgersi nuovamente al giudice, oltretutto senza una effettiva ragione che giustifichi tale disparità; non trovando la denunciata diversità di trattamento una motivazione ragionevole neppure nell’argomento dinanzi citato del necessario accertamento circa l’eseguibilità da effettuare da parte del giudice solo con la sentenza. Tale argomento, infatti, si pone in contraddizione con altra giurisprudenza della Corte di cassazione, altrettanto consolidata, con cui si sostiene che il giudice dell’esecuzione può sempre dichiarare la non eseguibilità per i fatti sopravvenuti del titolo esecutivo, anche dopo la sua emanazione, sul principale rilievo che la parte esecutata potrebbe fare opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ. per contestare l’eseguibilità del titolo per fatto sopravvenuto.
Un altro principio che viene violato, seppure in via indiretta, è quello costituzionalizzato dall’art. 10 della Costituzione secondo cui pacta sunt servanda, che è da combinare con il principio della ragionevolezza della durata dei processi di cui all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1950, n. 848 (recte: legge 4 agosto 1955, n. 848). Il suddetto principio – che ha come corollario la necessità che il legislatore non imponga inutili carichi processuali che impediscano una effettiva tutela in tempi ragionevoli – trova nel processo civile italiano un pendant nel principio secondo cui il processo non deve andare a danno della parte che ha ragione, il quale, a sua volta, si collega con il principio di cui all’art. 113 della Costituzione, combinato con quello generale di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Viene, inoltre, leso il principio di cui all’art. 24 della Costituzione, che garantisce la tutela giurisdizionale “effettiva” e che impone, quindi, un controllo su quelle procedure che ritardano o ostacolano inutilmente l’esercizio dell’azione, senza essere finalizzate alla tutela di interessi di ordine generale (cfr. sentenza n. 276 del 2000). Non si comprende quale sarebbe l’interesse di carattere generale sotteso al divieto di avvalersi del verbale di conciliazione giudiziale come titolo per eseguire gli obblighi di fare e non fare, il vaglio della cui eseguibilità sarebbe sempre comunque demandato al giudice dell’esecuzione mediante l’opposizione all’esecuzione proponibile dalla parte, il cui esito sarebbe poi oggetto di possibile appello o di ricorso per cassazione, atteso che verterebbe sul diritto a procedere all’esecuzione.
Osserva, infine, il remittente che lo stesso legislatore costituzionale ha voluto esplicitare il principio della ragionevole durata del processo modificando l’art. 111 Cost., che, quindi, sarebbe anch’esso violato.
Da ultimo il Tribunale di Treviso riporta alcuni principi che sarebbero stati affermati da questa Corte nella sentenza n. 276 del 2000 in merito alla utilità del tentativo di conciliazione ed osserva che “l’istituto della conciliazione, sebbene trascurato da troppo tempo da una prassi che tuttora non sembra aver colto la sua importanza, può costituire il fondamento su cui far sorgere un processo civile che sia in grado di dare le risposte che la società chiede, a patto che non ci sia disparità di trattamento quanto alla tutela offerta dall’ordinamento tra chi sceglie la conciliazione e chi preferisce aspettare la sentenza”.
Il remittente conclude affermando che, per quel che riguarda la rilevanza, essa risulta ictu oculi dal fatto che la norma impugnata regola la fattispecie dedotta in giudizio.
2.— Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
La difesa erariale osserva che, mostrando il remittente di dissentire dall’interpretazione giurisprudenziale assunta a presupposto della sollevata questione di legittimità costituzionale, egli, ritenendosi vincolato alla suddetta interpretazione che non condivide, ha “rinunziato ad esercitare l’opzione ermeneutica di sua competenza e ha obliterato il canone fondamentale che vuole privilegiata, se ritenuta possibile, una interpretazione conforme a Costituzione”.
D’altra parte, qualora si volessero considerare le indicazioni fornite dal remittente non come elementi di una possibile diversa interpretazione della norma impugnata, ma come prospettazioni di una auspicata ridefinizione di questa, la questione sarebbe comunque inammissibile sotto il profilo che il quesito sottoposto all’esame di questa Corte “impingerebbe in scelte riservate al legislatore – non arbitrarie né altrimenti violative di canoni costituzionali – tra quelle astrattamente configurabili in ordine alla disciplina delle procedure esecutive e alla strutturazione del sistema di tutela per l’adempimento coattivo degli obblighi di fare o non fare (accertamento giudiziale sulla loro coercibilità preventiva rispetto alla formazione del titolo esecutivo ovvero successiva in sede di opposizione all’esecuzione)”.
Considerato in diritto
1.— Il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Treviso dubita della legittimità costituzionale dell’art. 612 del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 113 Cost., in quanto esclude che il verbale di conciliazione possa costituire titolo esecutivo efficace ai fini dell’esecuzione degli obblighi di fare o non fare.
2.— La questione non è fondata ai sensi delle considerazioni che seguono.
Si osserva anzitutto che il giudice remittente non ha fornito una propria interpretazione della norma censurata, ma ha richiamato il diritto vivente, costituito da alcune sentenze della Corte di cassazione, a suo avviso sostanzialmente vincolanti per gli altri interpreti.
A ben vedere, però, l’asserito diritto vivente si sostanzia in poche pronunce del giudice di legittimità, delle quali quelle più recenti (Cass., n. 10713 del 1994; Cass., n. 258 del 1997) fanno propri in modo acritico principi enunciati in sentenze risalenti a circa mezzo secolo (Cass., n. 3637 del 1954; Cass., n. 1531 del 1955).
Il primo argomento, di carattere letterale, viene dedotto dall’ incipit della norma censurata, il quale recita: «chi intende ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o di non fare…». La disposizione, facendo riferimento espressamente soltanto all’esecuzione di una sentenza, escluderebbe la possibilità di esperire l’esecuzione di obblighi di fare o di non fare sulla base di titoli esecutivi diversi dalle sentenze ed in particolare del verbale di conciliazione.
L’argomento, come del resto rileva lo stesso remittente, è debole, tanto che la norma viene generalmente intesa come idonea a disciplinare l’esecuzione non soltanto delle sentenze, ma anche di altri provvedimenti che di queste non hanno forma e contenuto, quali, ad esempio, le ordinanze emesse in sede di procedimenti per denuncia di nuova opera o di danno temuto, nonché, secondo un indirizzo giurisprudenziale, dei provvedimenti concernenti l’affidamento dei minori (Cass., n. 292 del 1979; Cass., n. 5374 del 1980).
3.— Parimenti non inoppugnabili sono le ragioni di ordine sistematico che vengono portate per giustificare l’interpretazione fornita.
A suo sostegno viene addotto anzitutto il divieto di procedere alla distruzione della cosa fabbricata in violazione dell’obbligo di non fare qualora ciò sia di pregiudizio all’economia nazionale (art. 2933, secondo comma, cod. civ.).
In secondo luogo, si prospetta l’ipotesi che l’obbligo abbia ad oggetto una prestazione infungibile.
Nell’un caso e nell’altro, secondo coloro che propugnano l’opinione in esame, sarebbe necessaria la valutazione da parte del giudice.
A tali argomentazioni si può replicare che l’art. 183, primo comma, cod. proc. civ., stabilisce che alla conciliazione si può pervenire se la natura della causa lo consente. E’ quindi non illogico ritenere che nelle situazioni prospettate – pregiudizio all’economia nazionale derivante dalla distruzione dell’opera, infungibilità della prestazione – sia la stessa conciliazione ad essere impedita.
4.— L’interpretazione diversa da quella del giudice a quo è rafforzata da una pluralità di convergenti riflessioni.
La conciliazione è da sempre inquadrata tra gli strumenti predisposti ad finiendas lites. Qualora si escludesse l’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione avente ad oggetto gli obblighi di cui all’art. 612 cod. proc. civ., si costringerebbe la parte a ripercorrere la strada di un processo di cognizione, così negando il valore di accelerazione della definizione della controversia che costituisce la principale caratteristica della conciliazione.
Ma è proprio a siffatta caratteristica che si deve il favore accordato alla conciliazione dagli interventi legislativi più recenti. A riguardo vanno ricordate le modifiche apportate agli artt. 183 e 185 cod. proc. civ. con gli artt. 17 e 89 della legge 26 novembre 1990, n. 353, ed in particolare le disposizioni che prevedono la possibilità di rinnovare il tentativo di conciliazione in qualunque momento dell’istruzione.
Ad attestare il favore che gli interventi legislativi più recenti accordano alla conciliazione possono anche essere menzionate le norme che la disciplinano in alcuni procedimenti speciali quali quelli davanti al giudice di pace (artt. 320 e 322 cod. proc. civ.), al giudice onorario aggiunto (legge 22 luglio 1997, n. 276, art. 13), nonché, di particolare rilievo, le norme che regolano il tentativo di conciliazione in materia di lavoro (legge 11 maggio 1990, n.108, art. 5, comma 1; decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, art. 65).
Ritiene questa Corte che l’art. 612, primo comma, cod. proc. civ. possa essere letto nel senso che esso consenta il procedimento di esecuzione disciplinato dalle disposizioni che lo seguono anche se il titolo esecutivo sia costituito dal verbale di conciliazione, in quanto le eventuali ragioni ostative devono essere valutate non ex post, e cioè nel procedimento di esecuzione, bensì, se esse preesistono, in sede di formazione dell’accordo conciliativo da parte del giudice che lo promuove e sotto la cui vigilanza può concludersi soltanto se la natura della causa lo consente.
In presenza di un verbale di conciliazione, cui il codice di rito attribuisce in linea di principio efficacia di titolo esecutivo (art. 185, secondo comma, e art. 474, secondo comma, numero 1), si deve ritenere che le eventuali ragioni di ineseguibilità in forma specifica dell’obbligo siano state già considerate ed escluse, ferma restando la possibilità di far valere quelle sopravvenute.
Non è superfluo soggiungere che i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione ai sensi degli artt. 612 e seg. cod. proc. civ. possono essere oggetto di opposizione per motivi sopravvenuti in caso di conciliazioni giudiziali, per motivi anche preesistenti in ipotesi di conciliazioni conclusesi al di fuori del controllo del giudice.
Tale lettura esclude il denunciato contrasto con gli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, Cost. (i parametri di cui agli artt. 10 e 113 Cost. sono evidentemente non pertinenti rispetto alla questione proposta), contrasto che potrebbe profilarsi sul rilievo che escludere l’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione avente ad oggetto gli obblighi di fare o non fare costituirebbe un irragionevole seppur parziale sacrificio del diritto di difesa, del quale gli strumenti per ottenere in concreto “il bene della vita” conteso costituiscono aspetto essenziale, nonché una protrazione dei tempi del processo altrettanto irragionevole.
E poiché, come questa Corte ha più volte affermato (cfr., ex plurimis, sentenze n. 307 e n. 312 del 1996), tra diverse interpretazioni di una norma deve preferirsi quella conforme a Costituzione, dovendo pervenirsi alla dichiarazione di illegittimità costituzionale non perché della norma in questione si possa adottare un’interpretazione che ne determinerebbe la incostituzionalità, ma soltanto se della medesima non sia possibile fornire un’interpretazione conforme ai precetti costituzionali, ai sensi delle considerazioni svolte la questione va dichiarata infondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 113 della Costituzione, dal Tribunale di Treviso con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2002.