SENTENZA N. 312
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 41, comma 1, del decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277 (Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212), promosso con ordinanza emessa il 15 maggio 1995 dal Pretore di Reggio Emilia, sezione distaccata di Guastalla, nel procedimento penale a carico di Alfieri Ruggero, iscritta al n. 486 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 1995.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 15 maggio 1996 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.
Ritenuto in fatto
1.-- Il Pretore di Reggio Emilia, sezione distaccata di Guastalla, con ordinanza del 15 maggio 1995, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 41, comma 1, del decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277 (Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212), deducendo che il precetto penale ivi contenuto sarebbe privo dei requisiti della determinatezza, in quanto imporrebbe al datore di lavoro "la riduzione al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, dei rischi derivanti dalla esposizione al rumore mediante l'adozione di non meglio specificate misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte", e contrasterebbe, quindi, con gli artt. 25 e 70 della Costituzione.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva, in primo luogo, che la disposizione censurata appare ispirata al cosiddetto principio della massima sicurezza, già sancito dall'art. 24 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l'igiene del lavoro), il quale stabiliva che "nelle lavorazioni che producono scuotimenti, vibrazioni o rumori dannosi ai lavoratori devono adottarsi i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuirne l'intensità".
A differenza di questa disposizione -- prosegue il rimettente -- l'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277 del 1991 impone al datore di lavoro l'obbligo di ridurre al minimo i rischi derivanti dall'esposizione dei lavoratori al rumore, con riferimento, oltre che alle prescrizioni e acquisizioni tecniche, anche ad altre generiche misure "organizzative e procedurali", con la conseguenza che, perfino nelle ipotesi in cui si sia al di sotto dei limiti di rumorosità stabiliti dal medesimo decreto, questo solo dato potrebbe non bastare ad esimere da colpa l'imprenditore.
Risulterebbe quindi evidente, ad avviso del giudice a quo, come l'art. 41, comma 1, sia in contrasto con il principio di determinatezza della legge penale, il quale trova la sua ratio nell'esigenza di garantire la sicurezza del cittadino, nei confronti del potere punitivo statuale.
Nell'osservanza della disposizione di cui all'art. 41, comma 1, il cittadino si troverebbe, infatti, nell'impossibilità di rintracciare una precisa regola di condotta da seguire. Né il giudice potrebbe identificare un limite di tollerabilità del rumore, in quanto violerebbe, così facendo, l'art. 70 della Costituzione, attribuendosi i poteri propri del legislatore.
Il giudice rimettente non ignora che questa Corte ha, a suo tempo, ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 24 del d.P.R. n. 303 del 1956 (sentenza n. 475 del 1988). Tuttavia, se può ritenersi, come affermato nella sentenza citata, che attraverso il riferimento contenuto in quella norma ai provvedimenti consigliati dalla tecnica, "l'imprenditore è perfettamente consapevole del comportamento che la legge esige" e che non si può parlare di genericità "quando il legislatore fa riferimento ai suggerimenti che la scienza specialistica può dare in un determinato momento storico", a suo avviso, tali rilievi non potrebbero essere de plano estesi all'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277 del 1991. In quest'ultima disposizione, infatti, come si è visto, si fa riferimento a misure "organizzative e procedurali", che sarebbe arduo per l'imprenditore individuare ed attuare, e, senza alcuna specificazione in proposito, si impone la "riduzione al minimo" del rischio, con la conseguenza che la determinazione di tale minimo sarebbe lasciata all'arbitrio del giudice.
Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che nel giudizio sottoposto al suo esame è contestata, tra l'altro, proprio la violazione dell'art. 41 del d.lgs. n. 277 del 1991, sanzionata dall'art. 50 dello stesso decreto.
2.-- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, eccependo in primo luogo la inammissibilità della questione, in quanto la stessa ripro- porrebbe, in relazione alla nuova disciplina recata dal d.lgs. n. 277 del 1991, un dubbio di legittimità costituzionale già prospettato in relazione all'art. 24 del previgente decreto legislativo 19 marzo 1956, n. 303, e deciso da questa Corte nel senso della infondatezza.
La questione sarebbe, comunque, infondata in quanto gli elementi normativi della fattispecie in esame apparirebbero particolarmente circoscritti e specificati, da un lato con il riferimento alle regole della tecnica e dell'esperienza e dall'altro con la stessa disciplina recata dal d.lgs. n. 277 del 1991 agli artt. 4, 5, 8 e 9, che, sulla scorta di indirizzi cogenti degli organismi comunitari, indicherebbero quali accorgimenti l'imprenditore è tenuto ad adottare fino al limite, non tanto e non solo di rendere tollerabile il rumore, quanto di ridurre al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dall'esposizione ad esso.
Considerato in diritto
1.-- Viene all'esame della Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 41, comma 1, del decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, che impone al datore di lavoro di ridurre "al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti da esposizione al rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte".
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione impugnata violerebbe gli artt. 25 e 70 Cost., per contrasto con i principî di riserva di legge in materia penale e di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, in quanto porrebbe a carico del datore di lavoro un obbligo del tutto generico e indeterminato, che fa riferimento oltre che alle prescrizioni ed acquisizioni tecniche, anche ad altre non meglio specificate misure "organizzative e procedurali", senza contestualmente fissare un valore limite di tollerabilità del rumore.
2.-- La questione è infondata nei sensi di cui appresso si dirà.
Ai fini dell'inquadramento della fattispecie, oggetto del presente giudizio, giova ricordare che la disposizione impugnata è inserita in un più ampio contesto normativo, formato dalla complessa disciplina sulla protezione dei lavoratori contro i rischi di esposizione al rumore, dettata dal citato decreto legislativo in attuazione della direttiva n. 86/188 CEE del 12 maggio 1986.
Sulla premessa che l'esposizione al rumore costituisce per il lavoratore un grave fattore di rischio, con tale decreto legislativo il datore di lavoro è chiamato all'adempimento di obblighi che non sono enunciati generi- camente, ma sono descritti in maniera assai puntuale e dettagliata e sanzionati penalmente (art. 50).
In primo luogo è imposto al datore di lavoro il dovere di procedere alla periodica valutazione del rumore nei luoghi di lavoro, attraverso personale competente, con strumentazione adeguata, consultando anche i lavoratori o i loro rappresentanti (art. 40). Per i luoghi dove l'esposi- zione quotidiana al rumore supera determinati valori (90 dBA per l'esposizione quotidiana personale e 140 dB per la pressione acustica istantanea non ponderata), sono prescritte segnaletiche appropriate e, ove possibili, perimetrazioni e limitazioni di accesso (art. 41, commi 2 e 3).
Un obbligo generale di informare il lavoratore sui rischi derivanti all'udito è imposto, invece, solo se l'esposizione personale al rumore sia superiore a 80 dBA, e l'informazione deve riguardare le misure adottate, le misure di protezione alle quali i lavoratori devono conformarsi, la funzione dei mezzi protettivi individuali, le loro modalità d'uso e le circostanze nelle quali ne è richiesto l'impiego, nonché il significato dei controlli sanitari previsti e della preventiva e periodica valutazione del rumore (art. 42, comma 1).
Nei casi di esposizione superiore a 85 dBA, oltre al dovere di informazione, è imposto al datore di lavoro il dovere di provvedere a che i lavoratori ricevano una adeguata formazione sull'uso dei mezzi individuali di protezione dell'udito (art. 42, comma 2), che sono forniti dal datore di lavoro, e devono essere adeguati (art. 43). Sono inoltre previste, ma solo a partire da un livello di esposizione superiore a 80 dBA, visite preventive e controlli sanitari, la cui frequenza è stabilita dal medico competente e non può comunque essere inferiore ad un determinato periodo (art. 44).
Ma la tecnica legislativa, caratterizzata da una serie di prescrizioni puntuali e dettagliate, nelle quali i comportamenti che il datore di lavoro deve osservare ai diversi livelli di rumore sono minuziosamente descritti, è contraddetta e sopravanzata, nell'art. 41, comma 1, da una tecnica esattamente opposta: quella della previsione generale e di principio, anch'essa penalmente sanzionata nell'art. 50, caratterizzata più dalla predeterminazione dei fini che il datore di lavoro deve raggiungere, che dalla individuazione dei comportamenti che egli è tenuto ad osservare, e suscettibile pertanto di ampliare la discrezionalità dell'interprete. "Il datore di lavoro -- dispone, infatti, al comma 1, come si è detto, il citato art. 41 -- riduce al minimo, in relazione alle conoscenza acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dall'esposizione al rumore, mediante misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte".
E' questa disposizione, assai più della complessa disciplina di dettaglio contenuta nel decreto, a fare luce sulla reale valutazione del legislatore circa le potenzialità lesive delle lavorazioni rumorose. Il rumore, anche ai livelli in cui non scatta alcuno specifico obbligo di protezione, neppure individuale, costituisce per il lavoratore un fattore di rischio, sicché la sua riduzione al minimo è comunque doverosa.
Una simile valutazione, che il legislatore italiano, nell'attuare la corrispondente direttiva comunitaria, ha inequivocamente compiuto, non può essere contrastata da questa Corte. La cogenza dei valori espressi dall'art. 41 della Costituzione -- secondo il quale l'iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana -- è certamente tale da giustificare una valutazione negativa, da parte del legislatore, dei comportamenti dell'imprenditore che, per imprudenza, negligenza o imperizia, non si adoperi, anche al di là degli obblighi specificamente sanzionati, per ridurre l'esposizione al rischio dei propri dipendenti.
Per questa ragione, l'eliminazione dell'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277 del 1991 dal nostro ordinamento, sollecitata dal giudice a quo, comporterebbe anche l'eliminazione del generale dovere di protezione che esso pone a carico del datore di lavoro e segnerebbe così un arretramento, e non un avanzamento, sul piano della concretizzazione dei principî costituzionali.
3.-- E' vero, tuttavia, che il diritto del lavoratore a ricevere adeguata protezione non è il solo valore in gioco.
La sicurezza del lavoro costituisce certamente un limite all'autonomia dell'imprenditore, ma quando sul fondamento di tale limite si intende basare una fattispecie criminosa, viene in considerazione l'indefettibile principio costituzionale di necessaria determinatezza delle previsioni della legge penale.
Ed è nella considerazione di questo principio che il giudice a quo rivolge all'art. 41, comma 1, del decreto legislativo, la sua censura: nell'imporre l'adozione di misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili, la disposizione renderebbe eccessivamente indeterminati i doveri dell'imprenditore.
Questa Corte, come ricorda il medesimo giudice a quo, ha già affrontato la questione, in parte analoga, della legittimità costituzionale dell'art. 24 del d.P.R. n. 303 del 1956, che regolava in precedenza la materia, denunciato anch'esso per violazione del principio di determinatezza della norma penale, perché prescriveva, nelle lavorazioni che producono scuotimenti, vibrazioni o rumori dannosi ai lavoratori, l'adozione di provvedimenti "consigliati dalla tecnica per diminuirne l'intensità". E la questione fu risolta nel senso di ritenere consentito al legislatore penale, poiché ciò non comporta violazione del principio sancito dall'art. 25 della Costituzione, far riferimento a nozioni che hanno la loro fonte in altri settori dello scibile, restando, in questi casi, la fattispecie penale sufficientemente determinata (sentenza n. 475 del 1988).
Ma l'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277 del 1991 allarga notevolmente lo spettro dei comportamenti rilevanti e li investe con norma penale di scopo, che fa riferimento non più solo ai provvedimenti suggeriti dalla tecnica -- come l'art. 24 del d.P.R. n. 303 del 1956 -- ma anche alle misure organizzative e procedurali concretamente attuabili.
Non viene quindi in questione un profilo particolare della attività di impresa, ma quasi la sua totalità. Ciò che è normalmente oggetto di discrezionalità dell'imprenditore, salvi i limiti posti dalla legge e dalla contrat- tazione collettiva, è qui suscettibile di trasformarsi in attività penalmente vincolata, nel suo insieme, al raggiungimento di un fine; con la conseguenza che, per la pluralità dei mezzi il cui impiego viene teleologicamente orientato dalla previsione di una pena e per le pressoché indefinite possibilità di una loro combinazione, finisce con l'essere il giudice penale -- e di fatto spesso il suo perito -- ad assumere quella discrezionalità.
La sola via per rendere indenne l'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277 del 1991 dalla denunciata violazione dell'art. 25 della Costituzione è, allora, quella di fornirne, in sede applicativa, una lettura tale da restringere, in maniera considerevole, la discrezionalità dell'interprete. Tutto ciò nella consapevolezza che, attesa la scelta del legislatore di sanzionare penalmente il generale dovere di protezione della sicurezza dei lavoratori, che trova nell'art. 41 della Costituzione il suo fondamento, il principio di determinatezza incide sulla fattispecie penale, di necessità, in maniera peculiare.
Tale principio viene ad essere, invero, soddisfatto non già attraverso la descrizione dettagliata dei comportamenti penalmente vietati, ma con un restringimento della discrezionalità dell'interprete, la quale, rispetto a norme che impongono la realizzazione di risultati (minimizzazione del rischio di esposizione al rumore o, se si preferisce, massimizzazione della sicurezza), è, per la struttura di queste, bensì riducibile, ma non sopprimibile. E il modo per restringere, nel caso in esame, la discrezionalità dell'interprete è ritenere che, là dove parla di misure "concretamente attuabili", il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive. Ed è in questa direzione che dovrà, di volta in volta, essere indirizzato l'accertamento del giudice: ci si dovrà chiedere non tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard di produzione industriale, o specificamente prescritta.
L'art. 41 della Costituzione e il pregnante dovere, che da esso è desumibile, di protezione dei lavoratori, potrebbe, è vero, pretendere dall'imprenditore assai di più e giustificare una raffigurazione legislativa che assegni all'impresa il compito di realizzare innovazioni finalizzate alla sicurezza, nella quale il ruolo di impulso fosse assegnato al giudice civile ed alla pubblica amministrazione. Ma la scelta di sanzionare penalmente, con una norma generale e onnicomprensiva, tutte le fattispecie in cui l'imprenditore si sottragga a questo ruolo, ha di necessità il suo contrappeso costituzionale, che è dato dall'esigenza di restringere, in una interpretazione costituzionalmente vincolata, le potenzialità della disposizione, per non vanificare il canone di determinatezza della fattispecie penale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 41, comma 1, del decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277 (Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212), sollevata, in riferimento agli artt. 25 e 70 Cost., dal Pretore di Reggio Emilia, sezione distaccata di Guastalla, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.
Mauro FERRI, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in cancelleria il 25 luglio 1996.