ORDINANZA N. 234
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 81, comma 9, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), promosso con ordinanza emessa il 9 aprile 2001 dal Tribunale di Brescia nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Maria Rosa Pasolini e l'Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), iscritta al n. 520 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 2001.
Visti l'atto di costituzione dell'INPS, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 23 aprile 2002 il Giudice relatore Franco Bile;
uditi l'avvocato Fabio Fonzo per l'INPS e l'avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che con ordinanza in data 9 aprile 2001, il Tribunale di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 81, comma 9, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), che nello stesso giudizio a quo aveva già prospettato e che questa Corte aveva dichiarato inammissibile, per difetto di motivazione sulla rilevanza, con ordinanza n. 279 del 2000;
che il rimettente - dopo avere indicato nell’epigrafe dell’ordinanza che il giudizio concerne due cause riunite di opposizione a decreti ingiuntivi, vertenti fra Maria Rosa Pasolini, in qualità di opponente, e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), in qualità di opposta - riferisce di avere, con sentenza parziale del 19 marzo 2001, revocato i decreti ingiuntivi, condannato l’INPS a restituire alla opponente le somme indebitamente versate per la regolarizzazione contributiva delle posizioni di due lavoratori, e disposto con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio <<in ordine alla domanda dell’opponente di riconoscimento degli interessi legali sulle somme indebitamente versate>>;
che il rimettente rileva a tale ultimo riguardo che nel corso del giudizio é intervenuta la norma impugnata, la quale - dopo avere stabilito la validità delle clausole di riserva di ripetizione, subordinate agli esiti del contenzioso per il riconoscimento del proprio debito, apposte alle domande di condono previdenziale, presentate ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, nonchè la possibilità che sulla base di tali clausole si possa chiedere l’accertamento negativo del relativo debito - ha disposto che sulle eventuali somme da rimborsarsi da parte degli enti impositori non sono dovuti interessi;
che, ad avviso del rimettente, tale disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, per violazione del principio di eguaglianza e di quello di ragionevolezza;
che, al riguardo, il rimettente richiama la sentenza di questa Corte n. 417 del 1998, osservando che essa ha posto il principio per cui, pur non imponendo la Costituzione una meccanica estensione dei principi di cui all’art. 2033 del codice civile, all’assicurato debbono essere riconosciuti, in misura non simbolica da determinarsi discrezionalmente dal legislatore, gli interessi sulla contribuzione indebitamente versata;
che tale principio, pur se espresso con riferimento ad altra normativa, dovrebbe trovare applicazione anche con riguardo alla norma impugnata, che nega del tutto gli interessi, <<senza neppure che sia rinvenibile una valida ragione per siffatto diniego assoluto>>;
che l’esclusione degli interessi sarebbe affetta comunque da <<grave contraddittorietà intrinseca>>, quand’anche la norma censurata fosse espressione di una volontà sanzionatoria o <<integrasse un’ipotesi di natura pseudo-transattiva>> - nel senso che lo Stato da un lato consenta l’apposizione delle clausole di riserva alla domanda di condono e dall’altro neghi il diritto agli interessi in caso di accertamento giudiziale dell’insussistenza del debito contributivo - poichè nessuna logica giuridica giustificherebbe il diniego degli interessi su somme indebitamente versate per un debito risultato inesistente;
che, secondo il rimettente, la norma censurata sarebbe diretta, in realtà, a contrastare l’orientamento, espresso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 4918 del 1998, nel senso dell’invalidità delle clausole di riserva;
che il rimettente ritiene la questione rilevante, oltre che non manifestamente infondata, in quanto il giudizio sulla residua domanda relativa agli interessi, a seguito della sentenza parziale di accoglimento della domanda di ripetizione delle somme versate dalla Pasolini in sede di regolarizzazione contributiva, non potrebbe essere definito senza la sua risoluzione;
che é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato memoria, nella quale ha sostenuto che la questione sarebbe manifestamente infondata, in quanto, tra l’altro, il condono sarebbe un’opzione non obbligata, ma ampiamente discrezionale ed il rimettente non considererebbe che i soggetti che ricorrono al condono sono fruitori di una normativa <<premiale>>, essendo ammessi a godere dei benefici della riduzione e rateizzazione della somma dovuta, onde il mancato riconoscimento degli interessi risponderebbe a criteri di equità sostanziale e risulterebbe coerente sotto il profilo logico-giuridico, tenuto conto che non sarebbe dato comprendere quale utilità l’ente creditore potrebbe avere nel ricevere a tacitazione della sua pretesa una somma ridotta - spesso in misura notevole - rispetto a quella che sarebbe dovuta in mancanza di condono, ove poi la somma dovesse restituirsi con l’aggiunta dei frutti e degli interessi legali dalla domanda di restituzione dell’indebito;
che si é costituito l’INPS, depositando memoria, nella quale - premesso che la norma censurata non sarebbe di interpretazione autentica, ma avrebbe carattere innovativo e retroattivo, estendendosi ai periodi precedenti la sua entrata in vigore - asserisce che per tale ragione la norma sarebbe ragionevole, per il bilanciamento che il legislatore avrebbe fatto, da un lato attribuendo, in difformità dal diritto vivente della Cassazione emergente dalla sentenza citata, a chi aveva fatto il condono il diritto al rimborso di quanto versato indebitamente, e dall’altro escludendo che su tali somme decorrano interessi.
Considerato che il rimettente prospetta la questione di legittimità costituzionale adducendo che la norma impugnata sarebbe lesiva del principio di eguaglianza, in quanto per un verso comporterebbe una disparità di trattamento fra la particolare situazione giuridica creditoria per indebito contributivo da essa regolata e le altre situazioni nascenti da indebito contributivo, e per altro verso porrebbe una disciplina intrinsecamente irragionevole;
che la disparità di trattamento viene ravvisata mediante il richiamo al principio affermato da questa Corte nella sentenza n. 417 del 1998, secondo cui non é costituzionalmente legittima una disciplina del credito per il pagamento indebito di contributi previdenziali che disconosca totalmente, a fronte della generale previsione in materia di restituzione di indebito di cui all’art. 2033 del codice civile, gli interessi sulle somme da restituirsi, essendo costituzionalmente possibile per il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, soltanto incidere sulla quantificazione degli interessi;
che il suddetto richiamo non appare pertinente alla particolare fattispecie di credito per restituzione di indebito contributivo regolata dalla norma censurata onde l’applicazione ad essa del principio di cui alla citata sentenza non é costituzionalmente imposta;
che innanzi tutto, come ammette lo stesso rimettente, la norma censurata – che introduce una disciplina nuova applicabile a tutte le situazioni non ancora esaurite - é stata introdotta in un contesto giurisprudenziale, nel quale, sulla base della normativa previgente, l’inammissibilità del cosiddetto condono con riserva era pacifica;
che tale nuova disciplina, in conformità alla stessa qualificazione normativa del condono previdenziale come agevolazione, riconosce ai soggetti interessati un’agevolazione ulteriore di cui essi non potevano godere in base al diritto vivente, cioé la facoltà di apporre al condono la clausola di riserva di ripetizione;
che, in conseguenza, la situazione di chi, dopo avere eseguito il condono previdenziale con riserva, abbia poi ottenuto l’accertamento dell’insussistenza del proprio debito contributivo e il conseguente riconoscimento del credito per la restituzione di quanto pagato, non può essere considerata alla stessa stregua di quella di chi risulti altrimenti creditore per avere indebitamente pagato somme a titolo di contributi previdenziali, giacchè solo nel primo caso e non anche nel secondo l’esecuzione del pagamento (poi risultato indebito) é collegata alla fruizione di una specifica agevolazione;
che del resto la fattispecie dell’indebito contributivo correlato al condono previdenziale con riserva presenta ulteriori peculiarità, sia per la dipendenza del condono da una valutazione di convenienza del preteso debitore (che altrimenti potrebbe mantenere l’atteggiamento di contestazione integrale del debito contributivo, correndo l’alea di un giudizio sul punto), sia per la circostanza che il pagamento eseguito in esecuzione del condono si profila comunque come parziale rispetto a quello in contestazione;
che i profili ora segnalati evidenziano ragioni sufficienti a giustificare l’assoggettamento della fattispecie ad un trattamento diverso, quanto agli interessi, rispetto ad altre ipotesi di ripetizione di indebito;
che i medesimi profili di specificità della fattispecie inducono ad escludere che la negazione degli interessi sia lesiva del principio di ragionevolezza, in quanto la scelta del legislatore di ammettere un’agevolazione in precedenza negata e di escludere nel contempo gli interessi sulle somme versate, ove il pagamento eseguito a titolo di condono con riserva si riveli non dovuto, appare espressione di un bilanciamento fra l’interesse soddisfatto con il riconoscimento della agevolazione e l’interesse a non aggravare la posizione dell’ente per il caso in cui il pagamento venga poi riconosciuto indebito;
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 81, comma 9, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), sollevata dal Tribunale di Brescia, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Franco BILE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2002.