Ordinanza n. 152 del 2002

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ORDINANZA N.152

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 112, quinto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), promossi con due ordinanze emesse il 20 febbraio 2001 dalla Corte di appello di Venezia, iscritte ai nn. 278 e 279 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2001.

Visti gli atti di costituzione dell'INAIL nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 26 marzo 2002 il Giudice relatore Massimo Vari;

uditi l'avvocato Nicola D'Angelo per l'INAIL e l'avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che la Corte d'appello di Venezia, con due distinte ordinanze (r.o. nn. 278 e 279 del 2001), entrambe emesse il 20 febbraio 2001 ed aventi la stessa motivazione in punto di diritto, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 112, quinto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), "in riferimento all'art. 444 codice di procedura penale", denunciandone il contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione;

che le ordinanze sono state emesse nel corso dei gravami interposti dall'INAIL per la riforma delle sentenze di primo grado del Tribunale di Venezia, che hanno dichiarato decaduto il medesimo Istituto dall'intentata azione di regresso, "per essere trascorsi oltre tre anni dalla data in cui si era concluso, con sentenza di applicazione concordata della pena, il procedimento penale contro" i responsabile civili di un infortunio sul lavoro;

che, a tal riguardo, il rimettente evidenzia che gli appelli proposti dall'INAIL si incentrano sull'asserita violazione dell'art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, nel senso che, a fronte di sentenza emessa "a seguito di patteggiamento" (art. 444 cod. proc. pen.), essendo questa equiparata a sentenza di condanna (art. 445 cod. proc. pen.), il giudice di primo grado avrebbe dovuto applicare, nella fattispecie sottoposta alla sua cognizione, il termine triennale di prescrizione ("validamente interrotta" nel caso di specie) stabilito "nella seconda parte del comma quinto di detto articolo" e non già il termine di decadenza "disciplinato dalla prima parte del medesimo comma, rispetto al quale non sono ammessi atti interruttivi";

che, tanto premesso, il giudice a quo assume che, dopo l'intervento delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 3288 del 1997), "la distinzione tra termine di decadenza e termine di prescrizione nell'ambito del quinto comma del menzionato art. 112 può qualificarsi diritto vivente", rilevando la prima ipotesi in "mancanza di un accertamento del fatto-reato da parte del giudice penale", mentre l'ipotesi della prescrizione "é caratterizzata dall'esistenza di tale accertamento contenuto nella sentenza penale di condanna";

che, inoltre, il rimettente, nel rilevare che il quinto comma dell'art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965 non contempla espressamente il caso di procedimento penale definito con sentenza "di patteggiamento", ritiene "arduo" equiparare detta sentenza "alle "sentenze di non doversi procedere" di cui alla prima parte del comma", non senza, peraltro, riconoscere "che sussiste la eadem ratio, e cioé l'esigenza di pervenire a un rapido accertamento delle responsabilità del fatto-reato";

che, peraltro, si argomenta ancora nelle ordinanze, "la diversa opzione interpretativa" ¾ sostenuta dall'INAIL e, ultimamente, dalla stessa Corte di cassazione (con sentenza n. 14734 del 1999) ¾ per cui, agli effetti del denunciato art. 112, quinto comma, la sentenza di patteggiamento é ricondotta a una sentenza di condanna, "non risulta convincente perchè appare in contrasto sia con l'orientamento prevalente che riserva tale equiparazione ai soli effetti propriamente penali", sia con la ratio dello stesso art. 112, individuata, dalla menzionata decisione delle sezioni unite della cassazione, "nell'esigenza di garantire un rapido accertamento delle responsabilità del fatto-reato nei rapporti tra Istituto, assicurato e datore di lavoro, e, nell'interesse di quest'ultimo, senza consentire indefinitamente all'Istituto di interrompere la prescrizione con aggravio della possibilità di prova";

che, pertanto, dovendosi ragionevolmente escludere "la soluzione radicale di negare all'ipotesi di patteggiamento l'applicabilità sia del termine di decadenza sia di quello (breve) di prescrizione", il rimettente ritiene che la disposizione denunciata contrasti con i "diritti costituzionali a una efficace difesa in giudizio (art. 24 della Costituzione) e a un uguale trattamento di situazioni giuridiche consimili (art. 3 della Costituzione)" e ciò a motivo del "diverso, deteriore trattamento che fatalmente consegue in danno del presunto responsabile civile dell'infortunio dal fatto che l'art. 112, quinto comma, nel fissare all'INAIL termini di decadenza per agire in regresso nelle ipotesi in cui manca un accertamento del fatto-reato, non ha incluso l'ipotesi del procedimento penale chiuso con sentenza di patteggiamento";

che si é costituito l'INAIL, parte appellante nei giudizi a quibus, concludendo per l'inammissibilità o per la manifesta infondatezza delle questioni;

che é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto una declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza.

Considerato, preliminarmente, che le ordinanze denunciano entrambe la stessa disposizione, in base ad identiche censure, sicchè i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia;

che il giudice a quo, nel sollevare le questioni, muove dal presupposto che l'interpretazione seguita dalla giurisprudenza di legittimità sull'art. 112, quinto comma, del d.P.R. n. 1124 del 1965, in ordine alla disciplina relativa ai termini per esercitare l'azione di regresso da parte dell'INAIL, costituisca diritto vivente, nel senso che detta azione, ove manchi un accertamento del fatto-reato da parte del giudice penale, é soggetta (prima parte del comma quinto dell'art. 112) a termine triennale di decadenza, mentre laddove sussista il menzionato accertamento la stessa azione é soggetta (ultima parte del comma quinto dell'art. 112) a termine triennale di prescrizione;

che, nell'aderire espressamente a siffatto orientamento, il rimettente, tuttavia, adduce, per un verso, la difficoltà ermeneutica di equiparare la sentenza di patteggiamento alle sentenze di non doversi procedere di cui alla prima parte del comma quinto dell'art. 112, pur ravvisando la medesima ratio ¾ "e cioé l'esigenza di pervenire a un rapido accertamento delle responsabilità del fatto-reato" ¾ tra i due menzionati tipi di pronunce; per altro verso, afferma, motivatamente, di non condividere quell'interpretazione, fatta propria da un'unica decisione della cassazione, secondo la quale la sentenza pronunciata dal giudice penale a norma dell'art. 444 cod. proc. pen. deve reputarsi di condanna, con la conseguenza che il termine di cui all'art. 112, quinto comma, del d.P.R. n. 1124 del 1965 deve ritenersi di prescrizione;

che, così opinando, il rimettente fornisce, a supporto dei proposti incidenti di costituzionalità, una motivazione perplessa, giacchè, da un lato, dubita della equiparazione, agli effetti disciplinati dalla disposizione denunciata, della sentenza di patteggiamento a quelle di non doversi procedere, ma, dall'altro, esprime netta contrarietà che, ai medesimi predetti effetti, la stessa sentenza di patteggiamento possa reputarsi sentenza di condanna;

che, inoltre, il giudice a quo, pur palesando chiaramente quale sia l'interpretazione della norma censurata che predilige e che reputa maggiormente conforme al dettato costituzionale, si risolve, nonostante ciò, a proporre le questioni, sì da utilizzare il giudizio di costituzionalità allo scopo di ottenere da questa Corte un avallo dell'opzione interpretativa ritenuta preferibile e, dunque, per un fine estraneo a detto giudizio (tra le molte, ordinanza n. 351 del 2001);

che, pertanto, sotto entrambi gli esaminati profili, le questioni vanno dichiarate manifestamente inammissibili.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 112, quinto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Venezia con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2002.