ORDINANZA N.332
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), dell’art. 225 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) e dell’art. 191 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 13 giugno 2000 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano nel procedimento penale a carico di G.S., iscritta al n. 678 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2001 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano ha sollevato tre distinti quesiti di legittimità costituzionale, rispettivamente riguardanti l’art. 41 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza); l’art. 225 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), nonchè, infine, l’art. 191 del codice di procedura penale;
che a tal proposito il rimettente premette di essere chiamato a delibare, in sede di udienza di convalida, la legittimità dell’arresto del titolare di un pubblico esercizio trovato in possesso di alcuni grammi di sostanza stupefacente, in esito ad una perquisizione eseguita a norma dell’art. 41 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, perquisizione effettuata sulla base di notizia confidenziale indicante l’esercizio dell’arrestato come luogo di occultamento di armi;
che, in realtà — prosegue l’ordinanza —, appariva "del tutto verosimile" che l’art. 41 del citato testo unico fosse "stato invocato in modo artificioso e che, comunque, la perquisizione non fosse stata affatto eseguita al fine di rinvenire armi (le quali mai avrebbero potuto trovarsi nel piccolo contenitore in cui si trovava la droga), ma proprio per trovare la droga in quel posto così provvidamente indicato dal confidente";
che, ciò premesso, il giudice a quo ritiene che l’ampiezza della nozione di armi, munizioni o materie esplodenti offerta dalla legislazione vigente abbia riflessi negativi sulla complessiva determinatezza della disposizione di cui all’art. 41 del r.d. n. 773 del 1931, la quale, nel consentire perquisizioni finalizzate al rinvenimento di detti oggetti, darebbe in pratica agli organi di polizia "carta bianca per … perquisizioni ad libitum";
che, inoltre, la medesima disposizione, permettendo alla polizia giudiziaria di agire anche sulla base di informazioni anonime o confidenziali o di semplici supposizioni, comporterebbe un sostanziale esonero dall’obbligo di motivazione del provvedimento, così aprendo "la porta alla possibilità di abusi";
che pertanto — conclude sul punto il giudice a quo — il citato art. 41 t.u.l.p.s. si porrebbe in contrasto con l’art. 14 della Costituzione, rendendo possibile "la violazione del domicilio in ipotesi in cui difetta il requisito che siano "stabiliti dalla legge i casi ed i modi"";
che a scrutinio di costituzionalità viene sottoposto pure l’art. 225 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, recante le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del nuovo codice di procedura penale, per violazione della legge di delega e, dunque, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione;
che il rimettente rimarca, in particolare, come, nella originaria stesura del nuovo codice di rito, l’operatività dell’art. 41 del r.d. n. 773 del 1931 fosse stata eliminata in piena adesione al numero 31) dell’art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, ove si stabiliva che le perquisizioni da parte della polizia giudiziaria potessero consentirsi solo "in casi predeterminati di necessità ed urgenza": sicchè la norma di coordinamento impugnata, nel sancire successivamente la perdurante efficacia dello stesso art. 41 del r.d. n. 773 del 1931, si porrebbe in contrasto con il criterio direttivo ora indicato;
che, infine, il giudice a quo solleva, in riferimento all’art. 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen., nella parte in cui tale disposizione — alla luce, anche, della interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità — consente la utilizzazione di prove che derivano, non solo in via diretta, ma anche "in via mediata", da un atto posto in essere in violazione di divieti, e, in particolare, nella parte in cui consente l’utilizzazione del risultato di una perquisizione nulla;
che in proposito — puntualizza il rimettente — se é ben vero che, secondo l’insegnamento della Corte di cassazione, il sequestro deve essere mantenuto anche in presenza di una nullità della perquisizione, "però deve essere altrettanto vero che il rinvenimento effettuato mediante un atto illegale non può essere utilizzato come prova a carico dell’indagato";
che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.
Considerato che il giudice a quo impugna l’art. 41 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) con esclusivo riferimento all’art. 14 della Costituzione, lamentando la sostanziale indeterminatezza dei presupposti che, alla stregua della norma impugnata, legittimerebbero la polizia giudiziaria a procedere a perquisizione domiciliare, con conseguente violazione del precetto costituzionale che impone una tassativa determinazione per legge dei "casi" nei quali tale atto é consentito;
che, peraltro, é lo stesso rimettente a puntualizzare — nella esposizione in fatto — che la perquisizione é stata nella specie eseguita, non all’interno di una abitazione, ma "presso il bar dell’indagato" e che lo stupefacente, poi sequestrato, é stato rinvenuto "in un piccolo contenitore posto sul bancone";
che, a fronte di tali circostanze, il giudice a quo ha totalmente omesso di indicare le ragioni per le quali ritiene che la perquisizione di cui trattasi sia stata operata presso un luogo qualificabile come "domicilio" agli effetti di quanto prescritto dal parametro evocato, sicchè l’atto di rimessione risulta, in parte qua, del tutto privo di motivazione in ordine all’indispensabile requisito della rilevanza, con conseguente inammissibilità del quesito sottoposto all’esame di questa Corte;
che palesemente priva di fondamento si rivela la censura di eccesso di delega mossa all’art. 225 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, nella parte in cui ha stabilito che continuano ad osservarsi le disposizioni di cui al citato art. 41 del r.d. n. 773 del 1931: censura prospettata dal rimettente in riferimento all’art. 2, numero 31), della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), ove si prevedeva che le perquisizioni da parte della polizia giudiziaria potessero consentirsi solo in casi predeterminati di necessità ed urgenza;
che, infatti, questa Corte non ha mancato in passato di sottolineare come la disposizione dettata dall’art. 41 del r.d. n. 773 del 1931 appaia giustificata dalla esigenza di porre gli organi di polizia giudiziaria "in grado di provvedere con prontezza ed efficacia in ordine a situazioni (quali la detenzione clandestina o comunque abusiva di armi, munizioni o materie esplodenti) idonee, per loro stessa natura, ad esporre a grave pericolo la sicurezza e l’ordine sociale", reputando, quindi, l’impugnata normativa in linea, non soltanto con le previsioni dettate dall’art. 14 Cost., ma anche con la disciplina stabilita in via generale dal codice di rito dell’epoca "per quanto attiene ai presupposti che eccezionalmente consentono, in ipotesi di necessità e di urgenza, la ricerca e l’assicurazione delle prove da parte della polizia giudiziaria" (v. sentenze n. 110 del 1976 e n. 173 del 1974);
che per quanto attiene infine alla questione relativa all’art. 191 cod. proc. pen., va osservato come il giudice rimettente fondi il dubbio di costituzionalità sulla considerazione per cui, avendo il legislatore stabilito in materia di perquisizione precise modalità costituenti "condizioni minime essenziali per garantire il cittadino da abusi", la relativa inosservanza dovrebbe comportare la totale inutilizzabilità dell’atto: epilogo, questo, che risulterebbe peraltro ostacolato dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il sequestro deve essere mantenuto anche in presenza di una nullità della perquisizione;
che da ciò il rimettente desume il contrasto del citato art. 191 del codice di rito con l’art. 24 Cost., nella parte in cui "consente l’utilizzazione di prove che derivino, non solo in via diretta, ma anche in via mediata da un atto posto in essere in violazione di divieti, ed in particolare l’utilizzazione del risultato di una perquisizione nulla";
che, al riguardo, occorre tuttavia rilevare come la disciplina dettata dalla norma impugnata sia frutto di una precisa scelta del legislatore delegato volta a dissolvere — come si precisa nella Relazione al Progetto preliminare — il senso di "profonda insoddisfazione" espresso dalla dottrina "circa il modo di operare della nullità in rapporto a divieti probatori che il regime delle sanatorie costringe a ritenere come non scritti, quando é acquisita una prova contra legem … ed il vizio non viene tempestivamente eccepito";
che tale finalità é stata in particolare perseguita delineando "un regime normativo che esclude in via generale l’utilizzabilità delle prove acquisite in violazione di uno specifico divieto probatorio": un regime che, pertanto, supera il profilo del vizio dell’atto processuale e delle relative conseguenze sanzionatorie in termini di invalidità, diretta o derivata, per incidere — attraverso l’autonoma categoria della inutilizzabilità — non sull’atto processuale illecito, in sè e per sè considerato, ma direttamente sulla sua idoneità giuridica a svolgere funzione di prova;
che alla stregua di simili rilievi traspare dunque con evidenza che la soluzione prospettata dal giudice a quo finisce per confondere fra loro fenomeni — quali quelli della nullità e della inutilizzabilità — tutt’altro che sovrapponibili, mirando in definitiva il rimettente a trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema delle nullità: sicchè, in definitiva, l’accoglimento del quesito comporterebbe, da parte di questa Corte, l’esercizio di opzioni che l’ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di più, che — quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra gli atti probatori — ammette, già sul piano logico, un’ampia varietà di possibili configurazioni e alternative;
che, pertanto, la questione da ultimo indicata deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara:
1) la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e dell’art. 191 del codice di procedura penale, sollevate, rispettivamente in riferimento agli artt. 14 e 24 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano con l’ordinanza in epigrafe;
2) la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 225 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 27 settembre 2001.