Sentenza n. 275 del 2001

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SENTENZA N. 275

ANNO 2001

 

Commento alla decisione di

 

Daniela Bolognino

Il riparto di giurisdizione nel pubblico impiego alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 275/2001

 

(per gentile concessione della Rivista elettronica Amministrazione in cammino)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente       

- Fernando SANTOSUOSSO          

- Massimo VARI                              

- Riccardo CHIEPPA                       

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA                  

- Carlo MEZZANOTTE       

- Guido NEPPI MODONA  

- Piero Alberto CAPOTOSTI           

- Annibale MARINI             

- Franco BILE                                  

- Giovanni Maria FLICK                  

ha pronunciato la seguente               

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), promosso con ordinanza emessa il 22 settembre 2000 dal Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Ingenito Vittorio e il Ministero delle finanze, iscritta al n. 753 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 aprile 2001 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza del 22 settembre 2000 (r.o. n. 753 del 2000) il Tribunale di Genova, giudice monocratico del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), che ha modificato l’art. 68, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nella parte in cui ha devoluto al giudice ordinario le controversie concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, per l’asserita violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione, per eccesso di delega, con riferimento alla previsione della delega di cui all’art. 11, comma 4, lettera g), della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), che ha individuato la precisa finalità consistente nel "devolvere, entro il 30 giugno 1998, al giudice ordinario, tenuto conto di quanto previsto dalla lettera a), tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ancorchè concernenti in via incidentale atti amministrativi presupposti, ai fini della disapplicazione".

L’ordinanza é stata pronunciata nel corso di un giudizio (promosso con ricorso 27 luglio 1999) avente ad oggetto l’impugnazione di un atto di revoca di incarico dirigenziale (d.m. 20 luglio 1998) proposta da un dipendente del Ministero delle finanze.

In particolare, con decreto ministeriale del 20 luglio 1998 era stata revocata nei confronti del ricorrente, con effetto decorrente dal 9 giugno 1997, la reggenza di divisione presso la direzione regionale delle entrate della Liguria (conferita con d.m. 29 settembre 1993) e, con successivo provvedimento del 27 gennaio 1999, comunicato il 3 marzo 1999, era stata revocata, con la medesima decorrenza, la corrispondente retribuzione di posizione. Il ricorrente con la sua domanda giudiziale chiedeva che fosse dichiarata l’illegittimità dei predetti provvedimenti di revoca, condannando il Ministero a ripristinare a proprio favore il pregresso regime economico.

Ritiene il giudice a quo che l’atto di conferimento di un incarico dirigenziale, al pari dell’atto di revoca, abbia natura di provvedimento amministrativo.

Questa natura risulterebbe, anzitutto, dalla lettura dell’art. 19, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, così come modificato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) secondo cui gli incarichi di segretario generale di Ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente sono conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente. La partecipazione delle più elevate cariche dello Stato dimostrerebbe che l’atto di conferimento non può avere mera natura privatistica e che appartiene necessariamente alla figura dell’atto autoritativo. Nè argomenti contrari potrebbero - sempre secondo il Tribunale - desumersi dal successivo comma 5 del predetto art. 19, che prevede un procedimento più snello per il conferimento dell’incarico dirigenziale di fascia inferiore: anche in questo caso il ruolo assunto dal decreto del dirigente generale sarebbe incompatibile con la qualifica di atto paritetico, poichè le norme del citato testo di legge, nel loro complesso, non consentirebbero di fare una distinzione tra l’uno e l’altro tipo di incarico dirigenziale, al fine di restringere ad una sola figura tra quelle enunciate la connotazione pubblicistica.

La natura provvedimentale del conferimento dell’incarico, osserva il giudice rimettente, non é neppure posta in discussione dalla circostanza che ad esso si accompagna un contratto stipulato con il dirigente. Questo fenomeno avrebbe carattere accessorio e la funzione del provvedimento di conferimento resterebbe quella mirata alla specifica considerazione dell’interesse pubblico.

Atteso che identica natura di provvedimento amministrativo presenta l’atto di revoca, che oltretutto soggiace al medesimo procedimento di adozione, ne seguirebbe l’estraneità di questo settore aggiuntivo di giurisdizione ai criteri indicati dalla legge delega. Il decreto delegato, dunque, ampliando la giurisdizione del giudice ordinario fino al giudizio sull’impugnazione di siffatto provvedimento, sarebbe andato ben oltre i limiti all’uopo prefissati.

Le norme del d.lgs. n. 29 del 1993, ed in particolare l’art. 68 con riferimento all’art. 2, prevedono che i provvedimenti amministrativi di organizzazione, che si collocano in una fase nettamente anteriore rispetto al momento gestionale, sono conosciuti dal giudice ordinario in via solo incidentale e sono disapplicati se ritenuti illegittimi. Non é dunque prevista alcuna impugnazione, nè alcun annullamento del provvedimento amministrativo, ma solo la disapplicazione, in una logica che risulterebbe chiaramente sovvertita con la scelta di affidare al medesimo giudice anche il giudizio sull’impugnazione del conferimento e della revoca degli atti dirigenziali.

La mancanza di copertura nella legge delega della disposizione censurata risulterebbe altresì dal fatto che, venendo in gioco in tal caso un provvedimento amministrativo in senso proprio, il diritto soggettivo verrebbe degradato al rango di interesse legittimo e che, ciononostante, si affiderebbe al giudice ordinario una giurisdizione di annullamento sugli interessi legittimi del tutto innovativa, in chiara violazione dei limiti segnati nella delega stessa. Secondo il Tribunale di Genova si tratterebbe non solo del difetto di delega legislativa, ma addirittura di un contrasto della norma impugnata con i criteri fissati nella legge di delegazione e richiamati in precedenza. La ratio dell’art. 11, comma 4, lettera g), della legge 15 marzo 1997, n. 59 sarebbe, invero, quella di attribuire al giudice ordinario solo le controversie in tema di diritti soggettivi, senza una vera cognizione sugli interessi legittimi; prova ne sia che gli atti amministrativi sono conosciuti solo in via incidentale e solo ai fini della eventuale disapplicazione di quelli illegittimi.

Nè la chiara distanza tra i limiti segnati dalla legge delega ed il contenuto innovatore dell’art. 18 del d.lgs. n. 387 del 1998 - sempre secondo il giudice a quo - potrebbe essere colmata aderendo alla tesi secondo cui gli atti di conferimento e di revoca degli incarichi dirigenziali non hanno attitudine alla degradazione dei diritti soggettivi ad interessi legittimi. L’effetto di degradazione sarebbe espressione di un principio generale, che non risulta in questo caso affatto modificato dalla legge delega.

I dubbi sulla legittimità costituzionale della norma, peraltro, sono accentuati, a parere del rimettente, dal rilievo che l’effetto della disapplicazione dell’atto non potrebbe mai risolversi nel radicale suo annullamento: la disapplicazione avrebbe come conseguenza o la mera rimozione degli effetti che un provvedimento produce nei confronti di un terzo o la caducazione degli effetti che discendono da una fattispecie complessa, di cui l’atto disapplicato é parte integrante. In nessun caso, comunque, questo schema potrebbe riproporsi quando al giudice si affida il potere di giudicare dell’impugnazione di un atto amministrativo (il conferimento dell’incarico o la sua revoca), con l’inevitabile conseguenza del suo eventuale annullamento, in contrasto col principio generale di cui all’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (all. E) (Legge sul contenzioso amministrativo). D’altronde sarebbe evidente, rispetto ad una revoca di incarico illegittima, la insufficienza di una mera disapplicazione come strumento di tutela; in sostanza, qui non si tratterebbe solo di disapplicare l’atto presupposto, per poter dare un assetto diverso al rapporto di gestione, dal momento che lo stesso atto amministrativo é assunto ad oggetto immediato del giudizio.

La questione, deduce infine il Tribunale, é rilevante, perchè, se fondata, comporterebbe la dichiarazione di difetto di giurisdizione e l’attribuzione della controversia al Tribunale amministrativo regionale.

2.- Avanti alla Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, in primo luogo, ha chiesto che venga dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale, in quanto, ai sensi dell’art. 45, comma 17, del d.lgs. n. 80 del 1998, le controversie in materia di pubblico impiego indicate all’art. 68 del d.lgs. n. 29 del 1993 restano comprese nella giurisdizione del giudice amministrativo se relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998.

La controversia esaminata dal giudice a quo rientrerebbe, secondo l’interveniente, nell’ambito applicativo della norma transitoria, poichè concernerebbe una revoca di incarico dirigenziale conferito nel 1995 ed avente effetti decorrenti dal 9 giugno 1997.

In breve, la giurisdizione apparterrebbe senz’altro al giudice amministrativo, senza necessità di applicare la norma censurata dal giudice rimettente. La questione sollevata, dunque, non sarebbe rilevante. La situazione dedotta nel giudizio principale, oltretutto, non sarebbe qualificata, proprio a causa della sua collocazione cronologica, dalla stipulazione del contratto individuale (e dalle connesse peculiari forme di tutela); sicchè ne risulterebbe confermata la non pertinenza delle considerazioni svolte dal Tribunale di Genova in ordine ad una disciplina predisposta per tutt’altra fattispecie.

La questione di costituzionalità, inoltre, sarebbe inammissibile per una seconda ragione, dovuta al fatto che il rimettente avrebbe formulato censure in via ipotetica, senza esercitare alcuna opzione nell’ambito dell’alternativa prospettata sulla portata della norma denunziata: rispettivamente considerata nell’ordinanza sia come attributiva al giudice ordinario di una "giurisdizione esclusiva", sia come derogatoria del principio della degradazione di diritti soggettivi ad interessi per effetto di provvedimento autoritativo.

Nel merito, poi, la questione sarebbe anche infondata.

In primo luogo, la scelta del legislatore delegato sarebbe perfettamente compatibile con i limiti stabiliti in termini generali dalla delega, che avrebbe riservato congrui margini di discrezionalità al Governo.

Più in particolare, l’art. 11, comma 4, della legge n. 59 del 1997 andrebbe letto nel suo complesso ed alla luce del rinvio fatto dalla lettera g) alla precedente lettera a), così ravvisando la chiara volontà di devolvere al giudice ordinario tutte le situazioni giustiziabili inerenti il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, senza limiti derivanti dall’esistenza di atti amministrativi.

L’atto di conferimento di un incarico dirigenziale, oggetto a sua volta di apposito contratto, rappresenterebbe una modalità di svolgimento del rapporto di lavoro ormai contrattualizzato. L’affidamento e la revoca dell’incarico, si osserva, sono eventi che non originano o risolvono un rapporto diverso da quello considerato dal legislatore, bensì determinano e fanno cessare obbligazioni particolari ad tempus, sempre definite contrattualmente. Le controversie in oggetto, dunque, rientrerebbero senza distinzioni in quelle relative ai rapporti di lavoro, cui si riferirebbe senza alcuna esclusione la norma delegante.

Il dipendente potrebbe sempre ottenere dal giudice ordinario (ivi compreso il caso di specie) tutte le misure necessarie a soddisfare la sua domanda di tutela, con esclusione della rilevanza della pregiudizialità amministrativa, riservata ai casi sporadici di impugnative proposte da terzi diversi dal dipendente. La cognizione del giudice ordinario verrebbe esercitata direttamente sul rapporto, in relazione a posizioni soggettive non più discriminabili secondo la nuova disciplina sostanziale, spettando al giudice di adottare tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati.

Questa opzione del legislatore, delegante e delegato, sarebbe oltretutto coerente con le finalità di concentrazione e semplificazione che ne hanno ispirato, in linea più generale, gli obiettivi di fondo.

Considerato in diritto

1.- La questione incidentale di legittimità costituzionale riguarda l’art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), che ha modificato l’art. 68, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e specificamente concerne la parte in cui detta norma ha devoluto al giudice ordinario le controversie concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, e viene prospettata sotto il profilo del difetto di delega legislativa e della violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione, con specifico riferimento alla norma delegante di cui all’art. 11, comma 4, lettera g), della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa). Questa ultima norma di delega avrebbe individuato la precisa finalità consistente nel "devolvere, entro il 30 giugno 1998, al giudice ordinario, tenuto conto di quanto previsto dalla lettera a), tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ancorchè concernenti in via incidentale atti amministrativi presupposti, ai fini della disapplicazione".

2.- Preliminarmente deve essere esaminata la duplice eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri.

L’eccezione é infondata sotto i diversi aspetti prospettati. Infatti, la disciplina transitoria della devoluzione delle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche pone come elemento discriminante la data del 30 giugno 1998, di modo che tutte le anzidette questioni attinenti al periodo di rapporto di lavoro successivo a detta data sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro (art. 45, comma 17, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80). Questo elemento temporale é stato inteso dalla giurisprudenza di legittimità come riferito non al momento in cui é sorta o é stata conferita la posizione giuridica tutelata, ma al momento in cui si é verificata la lesione della stessa posizione giuridica soggettiva: ove, quindi, la lesione del diritto del lavoratore sia prodotta da un atto (provvedimentale o negoziale che sia) dell’amministrazione, deve farsi riferimento, ai fini della individuazione dell'organo titolare di giurisdizione, all’epoca della emanazione dell’atto (v. Cass., sezioni unite, 24 febbraio 2000, n. 41).

Di conseguenza, il giudice a quo non poteva risolvere il giudizio nel senso del mantenimento della giurisdizione al giudice amministrativo sulla base dell’art. 45 del d.lgs. n. 80 del 1998, in quanto la revoca delle funzioni di reggenza dirigenziale era stata disposta con d.m. 20 luglio 1998, cui aveva fatto seguito il provvedimento di recupero retributivo nel 1999, cioé in epoca successiva al 30 giugno 1998.

Neppure é fondata la eccezione di inammissibilità della questione per una asserita formulazione incerta o ancipite da parte del giudice a quo, essendone evidente la prospettazione - in nessun aspetto contraddittoria o perplessa - sotto il profilo esclusivo dell’eccesso e del difetto di delega legislativa in una successione logica e priva di ambiguità dei profili denunciati, imperniati sull'ambito della delega e sulla natura del conferimento degli incarichi dirigenziali, nonchè sul potere di disapplicazione di atto amministrativo presupposto.

3.- La questione di legittimità costituzionale é priva di fondamento.

Occorre, anzitutto, precisare che il principio della disapplicazione, desunto dal giudice a quo dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, sul contenzioso amministrativo, ed il relativo limite ai poteri del giudice ordinario di fronte ad un atto amministrativo illegittimo non costituiscono una regola di valore costituzionale, che il legislatore ordinario sarebbe tenuto ad osservare in ogni caso.

Infatti, resta rimesso alla scelta discrezionale del legislatore ordinario - suscettibile di modificazioni in relazione ad una valutazione delle esigenze della giustizia e ad un diverso assetto dei rapporti sostanziali - il conferimento ad un giudice, sia ordinario, sia amministrativo, del potere di conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica amministrazione o di incidere sui rapporti sottostanti, secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste (argomentando dall’art. 113, terzo comma, della Costituzione: ordinanze n. 140 e n. 165 del 2001).

La scelta del legislatore si inquadra nella tendenza a rafforzare la effettività della tutela giurisdizionale, in modo da renderla immediatamente più efficace, anche attraverso una migliore distribuzione delle competenze e delle attribuzioni giurisdizionali, a seconda delle materie prese in considerazione (v. ordinanza citata n. 140 del 2001).

In realtà, quale sia la configurazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ed in particolare quello dei dirigenti (per i quali può riscontrarsi un elemento concorrente di preposizione ad un ufficio pubblico), certamente il legislatore delegante e quello delegato, in attuazione della delega, hanno voluto modellare e fondare tutti i rapporti dei dipendenti della amministrazione pubblica (compresi i dirigenti) secondo "il regime di diritto privato del rapporto di lavoro", traendone le conseguenze anche sul piano del riparto della giurisdizione, a tutela degli stessi dipendenti, in base ad una esigenza di unitarietà della materia. Ciò é previsto, con le esclusioni tassativamente circoscritte, dal comma 4 dell’art. 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nel testo risultante dalle successive modifiche introdotte dall’art. 33 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 sul pubblico impiego), dall’art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 ed infine dall’art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387.

D’altro canto il legislatore ha voluto che, sia pure tenendo conto della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali, le posizioni soggettive degli anzidetti dipendenti delle pubbliche amministrazioni, compresi i dirigenti di qualsiasi livello, fossero riportate, quanto alla tutela giudiziaria, nell’ampia categoria dei diritti di cui all’art. 2907 cod. civ. come intesa dalla più recente giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sezioni unite, n. 41 del 2000).

Tale tutela é piena, in quanto il giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, é abilitato ad adottare, "nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati", con capacità di produrre anche effetti costitutivi o estintivi del rapporto di lavoro (art. 68 n. 29 del d.lgs. 1993, nel testo vigente dopo le modifiche introdotte dall'art. 18 del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387). La cognizione del giudice del lavoro comprende tutti i vizi di legittimità, senza che sia possibile operare distinzioni tra norme sostanziali e procedurali, di modo che allo stesso giudice ordinario resta affidata la pienezza della tutela, estesa a tutte le garanzie procedimentali del rapporto previste dalla legge e dai contratti e quindi comprendente anche i vizi formali.

Nè l’esistenza di un atto amministrativo presupposto, nelle controversie relative ai rapporti di impiego dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, può costituire limitazione alla competenza del giudice ordinario, quale giudice del lavoro, potendo questi conoscerlo in via incidentale, ai fini della disapplicazione (art. 68 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo citato, in relazione alla delega contenuta nell’art. 11, comma 4, lettere a) e g) della legge 15 marzo 1997, n. 59, risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 1 della legge 16 giugno 1998, n. 191 recante "Modifiche ed integrazioni alle leggi 15 marzo 1997, n. 59 e 15 maggio 1997, n. 127, nonchè norme in materia di formazione del personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in materia di edilizia scolastica"), anche quando, nei casi previsti, questo atto presupposto rientri nella sfera assegnata alla giurisdizione amministrativa. Tuttavia é, comunque, escluso che possa sorgere una pregiudizialità amministrativa o una esigenza di sospensione del processo civile per il fatto della pendenza di impugnazione dell’atto avanti al giudice amministrativo.

4.- La tutela giurisdizionale del rapporto di lavoro dei dirigenti, ormai senza alcuna esclusione di livelli - essendo scomparsa ogni differenziazione anche rispetto alla dirigenza generale - é stata attratta nella devoluzione al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, in capo al quale si concentra la titolarità della giurisdizione sulle posizioni soggettive dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, salve le eccezioni previste.

Infatti, per un verso, in ordine al rapporto di lavoro dei dirigenti occorre tenere presenti i mutamenti della disciplina sostanziale dello stesso per effetto del combinato disposto degli art. 11, comma 4, lettere a), b) e d), nonchè comma 6, della legge 15 marzo 1997, n. 59 nel testo vigente, delle modifiche subite dall’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (richiamato tra i criteri direttivi dall’art. 11, comma 4, della citata legge n. 59 del 1997 e contestualmente modificato dal comma 6 dello stesso art. 11 sempre nel testo vigente) ed infine dell’art. 2, comma 4, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, come modificato dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80.

Tra le esclusioni dal regime di diritto privato del rapporto di lavoro non figura più la posizione dei "dirigenti generali ed equiparati", di modo che tutta la dirigenza, nei diversi livelli, é soggetta, come gli altri dipendenti delle amministrazioni pubbliche, al regime di diritto privato (salve le specifiche diverse disposizioni contenute nel citato d.lgs. n. 80 del 1998) con il riconoscimento di posizioni di diritto soggettivo nel senso già specificato.

Sotto il correlativo profilo della tutela giurisdizionale delle posizioni dei dirigenti (senza alcuna distinzione), i principi ed i criteri direttivi della delega legislativa (come modificati dalle disposizioni surrichiamate) prevedono, consequenzialmente, l’affidamento delle relative controversie di lavoro "alla giurisdizione del giudice ordinario secondo le disposizioni che regolano il processo del lavoro", dovendo essere ricomprese in "tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni" (art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59, nel testo vigente, in relazione all’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, sempre nel surrichiamato testo in vigore).

Pertanto, la disposizione denunciata, che espressamente ricomprende tra le controversie relative ai rapporti di lavoro devolute al giudice ordinario quelle concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali (senza distinzione di livello), risulta completamente in linea con i principi ed i criteri direttivi che il legislatore delegante aveva voluto fissare per l’emanazione delle disposizioni correttive ed integrative. In realtà si tratta di una norma di chiusura e di completamento delle previsioni, sostanzialmente innovativa per la sola dirigenza generale ed equiparata, perfettamente adeguata alla espressa indicazione, contenuta nella delega, di perfezionare "l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato", unificando la tutela giurisdizionale anche per i dirigenti, senza alcuna distinzione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, dal Tribunale di Genova, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2001.