ORDINANZA N.165
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, commi 13 e 14, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza emessa il 1° agosto 2000 dal Tribunale di Padova nel procedimento civile vertente tra Blessing Ady e il Prefetto di Padova, iscritta al n. 674 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2001 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.
Ritenuto che il Tribunale di Padova, con ordinanza emessa in data 1° agosto 2000 (r.o. n. 674 del 2000), nel corso di un procedimento civile promosso da uno straniero che aveva impugnato, in base all’art. 13, commi 13 e 14, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), il provvedimento di divieto di reingresso nel territorio dello Stato italiano, emesso nei suoi confronti dal Prefetto di Padova contestualmente al decreto di espulsione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 13 e 14, del citato d.lgs. n. 286 del 1998;
che il regime normativo contemplato dalle norme impugnate, nel prevedere che lo straniero espulso non possa rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’interno (comma 13), dispone che detto divieto opera per un periodo di cinque anni, salvo che il pretore o il Tribunale amministrativo regionale, con il provvedimento che decide sul ricorso avverso il provvedimento di espulsione, ne determinino diversamente la durata per un periodo non inferiore a tre anni, sulla base di motivi legittimi addotti dall’interessato e tenuto conto della complessiva condotta tenuta dallo stesso sul territorio dello Stato;
che, ad avviso del Tribunale rimettente, detta previsione, che riconoscerebbe il potere del giudice di rideterminare la durata del divieto di reingresso dello straniero espulso solo nel caso in cui lo stesso giudice decida sul ricorso avverso il provvedimento di espulsione, escludendolo in caso di impugnazione del solo provvedimento relativo alla entità della durata del divieto di cui si tratta, sarebbe anzitutto in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, poichè lederebbe il diritto di difesa ed escluderebbe la tutela giurisdizionale contro l’atto amministrativo prefettizio che determina in cinque anni la durata del divieto di reingresso;
che inoltre - sempre secondo l’ordinanza di rimessione - il regime giuridico impugnato violerebbe il principio di ragionevolezza, non comprendendosi la ragione per la quale la valutazione della congruità della durata del divieto di cui si tratta dovrebbe essere di esclusiva competenza del giudice e non potrebbe, invece, essere compiuta dal prefetto contestualmente alla emanazione del decreto di espulsione; la disciplina in questione sarebbe anche in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, in quanto lederebbe il diritto di ogni uomo di vedere valutato il proprio comportamento, oltre a costringere lo straniero a subire la emanazione di un provvedimento di divieto di reingresso per la durata di cinque anni, e ad instaurare un procedimento giurisdizionale del tutto inutile, nonostante le ovvie difficoltà legate alla sua condizione;
che il giudice rimettente prospetta, inoltre, la violazione dell’art. 102 della Costituzione, per contrasto con il principio della separazione dei poteri, in quanto la normativa di cui si tratta demanderebbe al giudice un’attività non giurisdizionale, ma sostanzialmente amministrativa, quale quella attinente alla valutazione della congruità della durata del divieto di reingresso per un periodo di cinque anni, in contrasto, altresì, con il principio di buon andamento dell’amministrazione della giustizia, di cui all’art. 97 della Costituzione;
che nel giudizio innanzi alla Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità o infondatezza della questione, rilevando che i dubbi di legittimità costituzionale avanzati dal rimettente derivano da una interpretazione inesatta della normativa denunziata; al riguardo, osservando, per un verso, che lo stesso comma 13 dell’art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede la possibilità di un autonomo giudizio amministrativo sulla durata del divieto di reingresso, di competenza del Ministro dell’interno, che può accordare una speciale autorizzazione per un reingresso in epoca anteriore allo spirare del quinquennio previsto; per l’altro, che non risulta nella normativa alcuna preclusione ad un’impugnazione giurisdizionale dell’espulsione limitata alla durata del divieto di reingresso;
che, quanto alla circostanza che il legislatore abbia previsto la possibilità di riduzione in sede amministrativa, ad opera del ministro quale superiore gerarchico del prefetto, della durata, stabilita legislativamente, del divieto di cui si tratta, anzichè rimettere al prefetto la valutazione della durata ritenuta volta per volta più congrua, detta scelta rientrerebbe - sempre secondo l’Avvocatura generale dello Stato - nella discrezionalità politica del legislatore.
Considerato che l’ordinanza che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale si basa su un erroneo presupposto interpretativo, cioé l’esistenza di una preclusione, per lo straniero espulso, di ricorrere al giudice per ottenere esclusivamente la rideterminazione della durata del divieto di reingresso;
che in realtà il complesso delle disposizioni in esame (art. 13) presuppone la possibilità di un’ampia tutela giurisdizionale contro il decreto di espulsione e le intimazioni e prescrizioni, comunque connesse, contenute nello stesso decreto di espulsione, tra cui quella espressamente fissata dalla legge di non rientrare nel territorio dello Stato, per un periodo di cinque anni, salvo il potere espressamente attribuito al giudice (ordinario o amministrativo, a seconda delle ipotesi di espulsione prefettizia o ministeriale) di sindacato giurisdizionale, con facoltà, in sede di impugnativa, di ridurre a non meno di un triennio detto periodo quinquennale;
che risulta evidente il disegno legislativo di concentrare la tutela giurisdizionale attraverso una tempestiva impugnazione del decreto di espulsione, anche riguardo alle prescrizioni consequenziali previste dalla norma, come risulta confermato dalla concentrazione operata nel caso di espulsione con accompagnamento immediato associato alla "misura di cui al comma 1 dell’art. 14" (art. 13, comma 9, seconda parte);
che pertanto deve ritenersi che la norma denunciata consenta allo straniero di limitare l’impugnativa contro l’espulsione a profili attinenti al solo periodo di interdizione quinquennale di rientrare nel territorio dello Stato italiano;
che rientra nella discrezionalità del legislatore l'attribuzione ad un giudice (sia amministrativo, sia ordinario; nella fattispecie, la normativa si riferisce, a seconda delle ipotesi di espulsione, ad entrambi), in sede di decisione di ricorso giurisdizionale, del potere di annullare (nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa: art. 113, terzo comma, Costituzione) un atto amministrativo - e l’annullamento può essere anche parziale -, affidandogli (ove ritenuto rispondente ad esigenze di speditezza), anche il potere di determinare il contenuto di durata di una prescrizione (nella specie effetto interdittivo), fissando alcuni criteri di legittimità, pur lasciando spazio ad una valutazione discrezionale;
che tale scelta non appare manifestamente irragionevole, quando - come nella fattispecie - lo stesso legislatore ritenga che detti strumenti processuali rispondano alla esigenza di rafforzare la effettività, la tempestività e l’ampiezza della tutela giurisdizionale, specie se questa tutela coinvolga diritti della persona;
che non spetta al giudice, investito di un potere giurisdizionale, di compiere una diversa valutazione di scelte di politica legislativa, avendo il legislatore effettuato una opzione - che non può ritenersi manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria o in contrasto con il principio del buon andamento dell’amministrazione - di riservare per singoli casi (mediante autorizzazione) in via amministrativa al Ministro dell’interno la deroga della durata quinquennale del divieto di rientro e di consentire un sindacato giurisdizionale del giudice sulla misura standard interdittiva adottata dal decreto di espulsione;
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata, con riferimento a tutti i profili denunciati.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 13 e 14, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata, in riferimento agli artt. 24, 113, 2, 3, 102 e 97 della Costituzione, dal Tribunale di Padova con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Riccardo CHIEPPA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2001.