Ordinanza n. 187/2001+

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ORDINANZA N.187

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI                     

- Riccardo CHIEPPA             

- Gustavo ZAGREBELSKY              

- Valerio ONIDA                    

- Carlo MEZZANOTTE                     

- Guido NEPPI MODONA                

- Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Annibale MARINI               

- Franco BILE             

- Giovanni Maria FLICK                    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 280 e 391, comma 5, del codice di procedura penale, promosso, nell'ambito di un procedimento penale, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina con ordinanza emessa il 20 settembre 1999, iscritta al n. 459 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2000.

  Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 26 aprile 2001 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 280 e 391, comma 5, del codice di procedura penale nella parte in cui, per i reati di cui all’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., non consentono l’applicazione di misure cautelari coercitive fuori dei casi di arresto in flagranza di reato;

che il rimettente, premesso di essere investito della richiesta del pubblico ministero di applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di persona indagata per truffa continuata (art. 640 cod. pen.), rileva che per tale reato, punibile con pena fino a tre anni di reclusione, ai sensi degli artt. 278 e 280 cod. proc. pen. non può essere applicata alcuna misura cautelare "a tutela della collettività e delle potenziali vittime di futuri illeciti che verosimilmente il prevenuto continuerà a perpetrare", nonostante sussistano le condizioni dell'art. 273 cod. proc. pen. e le esigenze cautelari di cui all'art. 274 cod. proc. pen.;

che a parere del giudice a quo l'impossibilità di applicare una misura cautelare all’indagato, solamente perchè non é stato arrestato in flagranza di reato, violerebbe in primo luogo il "principio di cui all’art. 2 Cost., in base al quale compito primario della Repubblica [...] é quello di garantire i diritti inviolabili dell’uomo, tra cui rientra senza dubbio quello a vedere protetta la propria sicurezza dalla commissione di fatti puniti come reato";

che secondo il rimettente la tutela della sicurezza dei cittadini comporterebbe "il necessario intervento dell’autorità giudiziaria per limitare l’altrui libertà personale nei casi in cui ciò sia assolutamente indispensabile, anche con l’applicazione di misure cautelari", la cui "necessaria sussistenza" sarebbe implicita nella previsione di limiti massimi della carcerazione preventiva contenuta nell’art. 13, quinto comma, Cost.;

che nel caso in esame la preclusione all’emissione di misure cautelari sarebbe inoltre in contrasto con il principio di ragionevolezza e di eguaglianza "nel trattamento di situazioni identiche", in quanto condurrebbe a "conseguenze paradossali", quali la possibilità di emettere una misura coercitiva all’esito dell’udienza di convalida anche se l’arresto non é stato convalidato, ovvero per fatti delittuosi di minore gravità solo perchè accompagnati dall'arresto in flagranza o in "quasi flagranza", mentre per fatti più gravi la misura sarebbe impedita solamente perchè "la fortuna o l’abilità impediscono l’accertamento in flagranza dei delitti";

che l'irragionevolezza del divieto di ricorrere a misure coercitive risulterebbe particolarmente evidente in casi, come quello di specie, in cui si procede contro l'autore di innumerevoli truffe, "commesse in breve arco temporale ai danni di ignare vittime con assoluta certezza della reiterazione, anche attuale, della medesima condotta [...], con grave pregiudizio della sicurezza delle future e potenziali vittime le quali al potenziale danno del reato eventualmente subito aggiungerebbero la beffa dell’impossibilità normativa di intervenire in sede cautelare nei confronti dell’indagato [...]";

che gli effetti delle disposizioni censurate sarebbero ancor più "lesivi della tutela della sicurezza dei cittadini nel presente momento storico, nel quale il notevole lasso di tempo per giungere ad un provvedimento definitivo di condanna e l’assoluta incertezza circa la sua effettiva esecuzione rendono impossibile rimettersi alla sola decisione esecutiva di condanna per ottenere l’interruzione di gravi condotte criminali, imponendo - nei casi in cui la legge lo consente - il ricorso a misure cautelari (non necessariamente di natura detentiva)";

che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o, comunque, infondata;

che, in particolare, l'Avvocatura rileva che i parametri costituzionali in riferimento ai quali é stata prospettata la questione sono evocati in modo erroneo: da un lato, l'art. 2 Cost. non consacra affatto il diritto inviolabile "ad una generica sicurezza"; dall'altro, l'art. 3 Cost. presuppone l'omogeneità delle ipotesi messe a confronto, mentre l'assoggettamento a misura precautelare configura una "plausibile differenziazione" rispetto alla situazione in cui l'indagato sia libero;

che secondo l'Avvocatura la disciplina censurata é pertanto conforme ai principi costituzionali enunciati dagli artt. 13 e 27 Cost., dai quali discende che la carcerazione preventiva, da considerare situazione "eccezionale", é ispirata alla logica della extrema ratio e a criteri di adeguatezza e proporzionalità.

Considerato che il rimettente lamenta che il combinato disposto degli artt. 280 e 391, comma 5, del codice di procedura penale consenta di applicare una misura cautelare coercitiva nei confronti di persona sottoposta ad indagini per uno dei reati elencati dall'art. 381, comma 2, cod. proc. pen. (nel caso di specie, per il delitto di truffa) solo ove la stessa sia stata arrestata in flagranza di reato, e non anche quando si proceda nei confronti di indagato in stato di libertà;

che ad avviso del giudice a quo tale preclusione si pone in contrasto con l'art. 2 della Costituzione, in base al quale sarebbe compito primario della Repubblica (e quindi del legislatore e dell'autorità giudiziaria) garantire i diritti inviolabili dell'uomo, tra cui rientra il diritto a "vedere protetta la propria sicurezza dalla commissione di fatti puniti come reato" mediante interventi dell'autorità giudiziaria limitativi dell'altrui libertà personale;

che sarebbe violato anche l'art. 3 Cost., in quanto la disciplina che impedisce di disporre misure coercitive sol perchè l'abilità o la fortuna ha consentito all'indagato di evitare l'arresto in flagranza, anche se ha commesso fatti in concreto più gravi di quelli per cui gli autori sono stati arrestati in flagranza, risulterebbe intrinsecamente priva di ragionevolezza, e determinerebbe inoltre paradossali disparità di trattamento nelle ipotesi in cui per il medesimo fatto la possibilità di applicare una misura cautelare sia condizionata dalla circostanza che l'autore del reato é stato colto in flagranza;

che l'art. 2 Cost. é evocato erroneamente, posto che tra i diritti inviolabili dell'uomo non rientra l'aspettativa dei consociati di vedere tutelata la propria sicurezza mediante una disciplina legislativa - quale quella auspicata dal rimettente - volta a generalizzare il ricorso alle misure cautelari limitative della libertà personale;

che, quanto alle censure riferite all'art. 3 Cost., il rimettente pone a raffronto situazioni di fatto e processuali non omogenee, quali quelle dell'indagato, sia pure per il medesimo titolo di reato, arrestato in flagranza ovvero in stato di libertà;

che di tale diversità di situazioni il legislatore ha tenuto opportunamente conto, stabilendo appunto che quando l'arresto in flagranza é stato eseguito per uno dei reati indicati nell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen., le misure coercitive possono essere disposte anche al di fuori dei limiti edittali di pena stabiliti dall'art. 280 cod. proc. pen., all'evidente e non irragionevole fine di coordinare la facoltà di procedere all'arresto in flagranza con la possibilità di disporre all'esito della convalida, e dunque solamente quando l'arresto risulti legittimamente eseguito, misure coercitive (v. sentenza n. 4 del 1992 e ordinanza n. 148 del 1998);

che spetta esclusivamente alla discrezionalità del legislatore determinare, nel rispetto del principio della riserva di legge stabilito dall'art. 13, secondo comma, Cost., i casi in cui il giudice può disporre restrizioni della libertà personale, ed é pure riservata alla discrezionalità del legislatore la determinazione dei casi eccezionali di necessità e urgenza in cui possono essere adottati provvedimenti provvisori limitativi della libertà personale ai sensi dell'art. 13, terzo comma, Cost. (cfr. sentenza n. 188 del 1996);

che pertanto la questione va dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 280 e 391, comma 5, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria l'8 giugno 2001.