Ordinanza n. 34

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ORDINANZA N. 34

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 14, comma 2, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), e dell’art. 148 del codice penale militare di pace (Diserzione), promosso con ordinanza emessa il 4 maggio 1999 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino nel procedimento penale a carico di C. V., iscritta al n. 543 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 13 dicembre 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino ha sollevato, con ordinanza del 4 maggio 1999, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), e dell’art. 148 cod. pen. mil. pace (Diserzione), "nella parte in cui é previsto che [al] soggetto il quale, dopo essersi assentato arbitrariamente dal reparto, abbia manifestato – una volta trascorsi i cinque giorni per la penale rilevanza dell’assenza – motivi di coscienza che lo inducano a rifiutare il servizio militare di leva, debba essere ascritto sia il reato militare di diserzione, sia quello di rifiuto del servizio militare di leva previsto e punito dall’art. 14 della legge 8 luglio 1998, n. 230, anzichè solo quest’ultimo reato";

che, secondo quanto riferisce in fatto l’ordinanza di rinvio, nel processo principale dinanzi al giudice rimettente é stata esercitata azione penale nei confronti dell’imputato per il reato di diserzione impropria [art. 148, numero 2), cod. pen. mil. pace], per essersi questi assentato dal reparto ininterrottamente dal 1° luglio 1998; dopo l’esercizio dell’azione penale, l’imputato si é presentato presso un notaio dichiarando di non voler svolgere il servizio militare per motivi di coscienza collegati a convincimenti morali e religiosi; a seguito dell’espressione di tale rifiuto del servizio motivato da ragioni di coscienza mai in precedenza fatte valere, il pubblico ministero presso il giudice militare ha segnalato il fatto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario, potendosi delineare l’ipotesi del reato previsto dall’art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998, che ha ricompreso nella fattispecie del rifiuto del servizio anche le manifestazioni di esso successive all’incorporazione [in ciò divergendo dalla preesistente disciplina (legge n. 772 del 1972)];

che appunto della possibile successione di due incriminazioni - e sanzioni - nei confronti di uno stesso soggetto, per il reato militare di diserzione dinanzi al giudice militare prima e per il reato di rifiuto del servizio per motivi di coscienza dinanzi al giudice ordinario poi, il giudice rimettente dubita, sul piano della costituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione;

che, rileva infatti il rimettente, in tutti i casi – come quello di specie - in cui un soggetto arruolato e incorporato si assenta dal reparto ingiustificatamente per più di cinque giorni e poi manifesta, persistendo l’assenza dal servizio, la volontà di rifiutare globalmente il servizio militare già assunto, adducendo a motivo del proprio rifiuto uno di quelli legalmente previsti (art. 1 della legge n. 230 del 1998), può darsi una duplice incriminazione e sanzione penale, nelle due diverse sedi giudiziarie, militare e ordinaria, non operando tra i due reati, comune e militare, il regime della connessione dei procedimenti a norma dell’art. 13 cod. proc. pen., nè tantomeno essendo possibile sul piano giuridico ritenere che l’adduzione dei motivi del rifiuto del servizio possa retroagire al momento in cui il soggetto aveva realizzato il comportamento contrario allo svolgimento del servizio di leva allontanandosi o non rientrando in reparto, poichè – rileva ancora il rimettente - il fatto costitutivo del reato militare di diserzione si é realizzato in ogni suo elemento una volta decorso il termine di cinque giorni previsto dalla norma incriminatrice, là dove la disciplina dell’obiezione di coscienza non stabilisce alcun termine ad quem per l'espressione del rifiuto, che può essere manifestato in qualsiasi momento;

che tuttavia, secondo il giudice a quo, posto che i due reati rivestono la medesima obiettività giuridica, corrispondente all’interesse dello Stato di curare l’assolvimento degli obblighi militari in vista dell’effettività della prestazione militare, l’applicazione delle due norme incriminatrici e l’irrogazione delle relative sanzioni contrasterebbe, per un primo profilo, con l’art. 3 della Costituzione, perchè in tal modo può verificarsi un sensibile aggravamento del trattamento sanzionatorio conseguente alla condotta di rifiuto, al quale può aggiungersi la pena prevista per la diserzione, e ciò soltanto in dipendenza di un elemento temporale, consistente nell’espressione dei motivi di coscienza prima o dopo il maturare del termine di cinque giorni necessario per l’integrazione del reato militare di diserzione; con discriminazione in danno dell’obiettore che manifesti le ragioni del proprio rifiuto della prestazione militare dopo il termine stabilito per l’integrazione del reato di diserzione, rispetto all’obiettore che manifesti il proprio motivato rifiuto prima di assumere il servizio militare ovvero comunque prima dell’anzidetto termine di cinque giorni;

che il giudice rimettente ravvisa un ulteriore profilo di contrasto con l’art. 3 della Costituzione sul piano della ragionevolezza, poichè con la disciplina denunciata "... si viene ad incidere pesantemente ed irrazionalmente nei diritti inviolabili dell’uomo, quali il libero atteggiarsi della coscienza e il libero formarsi anche temporalmente della stessa";

che, infine, le norme impugnate si porrebbero in contrasto con l’art. 27 della Costituzione, sul piano della finalità rieducativa della pena, apparendo al rimettente non conforme al principio costituzionale che si debba irrogare la pena della reclusione militare (in conseguenza del reato di diserzione inizialmente commesso), finalizzata al recupero all’assolvimento dell’obbligo, a chi successivamente abbia manifestato, motivandola secondo ragioni di coscienza, l’intenzione di sottrarsi definitivamente alla prestazione del servizio;

che la questione é rilevante, conclude il giudice a quo, perchè, se accolta, comporterebbe l’invio degli atti al giudice ordinario affinchè proceda per il – solo – reato di cui all’art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998;

che nel giudizio così promosso é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione.

Considerato che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino solleva questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 14, comma 2, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza) e 148 cod. pen. mil. pace (Diserzione), nella parte in cui rende possibile che sia punibile per entrambi i distinti reati, anzichè per il solo reato di rifiuto del servizio previsto dal citato art. 14, il soggetto che, dopo essersi assentato arbitrariamente e per più di cinque giorni dal reparto realizzando così gli estremi del reato militare di diserzione, abbia successivamente manifestato il proprio rifiuto del servizio militare di leva adducendo i motivi di cui alla legge n. 230 del 1998, integrando in tal modo la condotta del reato (non militare) di cui all’art. 14, assumendone il contrasto a) con l’art. 3 della Costituzione, per irragionevolezza della disciplina, e per ingiustificato sfavorevole trattamento del caso anzidetto rispetto a chi rifiuti il servizio, motivando le proprie ragioni di coscienza, prima di assumerlo o comunque prima che sia decorso il termine di cinque giorni necessario per l’integrazione del reato di diserzione; b) con l’art. 27 della Costituzione, sotto il profilo della finalità rieducativa della pena, apparendo incongrua l’irrogazione della sanzione militare per il reato di diserzione a chi, con il successivo rifiuto motivato del servizio, manifesti l’intenzione di sottrarsi definitivamente al consorzio militare;

che, data la prospettazione dell’ordinanza di rinvio, il giudice rimettente chiede a questa Corte una decisione che sia tale da escludere la possibilità di pronunciare più di una condanna e di irrogare più di una pena in relazione al particolare caso sopra descritto, in modo da rendere applicabile per esso la sola fattispecie incriminatrice del reato di rifiuto del servizio militare per ragioni di coscienza (art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998) e non anche quella di diserzione (art. 148 cod. pen. mil. pace);

che, come risulta dall’esposizione dei fatti, nel giudizio principale dinanzi al rimettente giudice militare si procede per il reato – militare - di diserzione, cioé per il reato necessariamente anteriore sul piano cronologico, mentre il procedimento e il giudizio per il reato non militare di rifiuto per motivi di coscienza costituiscono una mera eventualità, dipendente da scelte che l’autorità giudiziaria ordinaria, e non quella militare, é chiamata a prendere;

che pertanto nel giudizio a quo non potrebbe in alcun modo porsi un profilo di cumulabilità delle condanne e di irrogazione delle relative pene, potendo evidentemente assumere rilievo, e dare luogo a un problema di costituzionalità, la successione, o la duplicazione, di condanne, da un lato in quanto vi sia stata una prima pronuncia giudiziale sul primo reato e dall’altro in quanto sussista un giudizio in atto, e non in potenza, sul secondo reato, che non forma peraltro oggetto di accertamento dinanzi al giudice che ha sollevato il dubbio di costituzionalità;

che, alla stregua dei rilievi suddetti, la presente questione di legittimità costituzionale é sollevata in via ipotetica, in vista di una possibile evenienza futura e incerta, e pertanto, in quanto priva del necessario requisito della rilevanza, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile (v., tra molte, le ordinanze nn. 237 del 1999, 459, 165

 e 34 del 1998; sentenza n. 336 del 1995).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 14, comma 2, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), e 148 cod. pen. mil. pace (Diserzione), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2001.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 9 febbraio 2001.