ORDINANZA N. 369
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 36, secondo comma, della legge 10 aprile 1951, n. 287 (Riordinamento dei giudizi di assise), promosso con ordinanza emessa il 23 settembre 1999 dal Tribunale di Vallo della Lucania nel procedimento civile vertente tra U. L. e le Ferrovie dello Stato s.p.a. ed altro, iscritta al n. 628 del registro delle ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1999.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 luglio 2000 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti.
Ritenuto che il Tribunale di Vallo della Lucania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 23 settembre 1999, questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, secondo comma, della legge 10 aprile 1951, n. 287 (Riordinamento dei giudizi di assise), in riferimento agli artt. 3, primo comma, 36, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione;
che la questione è stata proposta nel corso di un giudizio instaurato da un dipendente delle Ferrovie dello Stato s.p.a. nei confronti di detta società, integrato nei confronti del Ministero della giustizia, allo scopo di ottenere, in via principale, il pagamento degli stipendi relativi all’intero periodo durante il quale egli aveva ricoperto l’ufficio pubblico di giudice popolare presso la Corte d’assise di Salerno, assentandosi dal lavoro, ovvero, in linea gradata, l’accertamento del diritto a percepire l’indennità nell'importo corrispondente alla retribuzione;
che, ad avviso del rimettente, la norma impugnata, nella parte in cui stabilisce che a coloro i quali sono chiamati a prestare servizio come giudici popolari, e non conservano il diritto alla retribuzione, spetta un’indennità quantificata in un importo fisso, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione, in quanto la mancata commisurazione dell’indennità alla retribuzione violerebbe il principio di eguaglianza ed il principio secondo il quale la retribuzione deve essere sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa;
che, secondo il giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe altresì l’art. 3, primo comma, della Costituzione, dato che parifica, non ragionevolmente, lavoratori che hanno retribuzioni diverse, recando vulnus all’art. 51, primo comma, della Costituzione, poiché realizza condizioni di diseguaglianza economica che ostacolano l’accesso all’ufficio pubblico da parte di quelli di essi che, non conservando il diritto alla retribuzione, potrebbero essere indotti a rinunziarvi;
che, ad avviso del Tribunale, la questione - già dichiarata dalla Corte manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza (ordinanza n. 256 del 1997) - sarebbe rilevante poiché il ricorrente non avrebbe espletato attività lavorativa per l’intera durata della sessione della corte di assise, risultandogli la necessità di assicurare la propria disponibilità e reperibilità durante detto periodo;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata, dato che la norma impugnata quantifica in modo ragionevole l’indennità in esame in due differenti importi, a seconda che il giudice popolare conservi o meno il diritto alla retribuzione, mentre, in considerazione della sua natura, ad essa non sono applicabili i principi che riguardano la retribuzione;
che, ad avviso della difesa erariale, sono altresì manifestamente infondate le censure riferite all’art. 51, primo comma, della Costituzione, sia perché detta norma non riguarda il profilo economico, bensì la capacità e l’idoneità all’espletamento dei pubblici uffici, sia perché le disparità economiche che possono eventualmente determinarsi preesistono alla disposizione censurata e non sono riconducibili ad essa;
che le parti del processo principale non si sono costituite nel giudizio innanzi a questa Corte.
Considerato che il Tribunale di Vallo della Lucania impugna, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 36, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, l’art. 36, secondo comma, della legge n. 287 del 1951 nella parte in cui stabilisce che a coloro i quali sono chiamati a prestare servizio come giudici popolari e non conservano il diritto alla retribuzione, spetta un’indennità quantificata in un importo fisso, non commisurata alla retribuzione;
che l’ordinanza di rimessione puntualizza che il ricorrente nel processo principale è stato nominato giudice popolare per la terza sessione dell’anno 1993 (1° luglio-30 settembre) ed ha partecipato in tre mesi a nove udienze, l’ultima delle quali è stata tenuta il 22 luglio, ma si è assentato dal lavoro per l’intera durata di detta sessione;
che, secondo la prospettazione del giudice a quo, il vizio di legittimità costituzionale sarebbe dimostrato dal danno subito dal ricorrente, che deriverebbe non già dalla liquidazione dell’indennità nell'importo stabilito dalla norma censurata per i giorni nei quali egli ha effettivamente espletato la funzione di giudice popolare, bensì dalla mancata corresponsione di detta indennità per l’intera durata della sessione della corte di assise, ossia anche per i giorni nei quali egli non ha espletato i compiti connessi all’ufficio;
che il rimettente solleva quindi la questione di legittimità costituzionale sulla premessa che il cittadino chiamato ad espletare la funzione di giudice popolare non possa attendere ai propri ordinari compiti lavorativi nei giorni nei quali non sono programmate e tenute udienze ovvero svolte attività in camera di consiglio;
che siffatta premessa è erronea, dato che, secondo la corretta interpretazione della norma quale risulta offerta anche dalla prassi amministrativa, l’obbligo del giudice popolare di assicurare <<disponibilità e reperibilità>> per la sessione per la quale è nominato nell’ufficio non impedisce, di per sé, lo svolgimento dell’ordinaria attività lavorativa per l’intera durata della medesima giacché, nel caso in cui sia stato fissato un preciso calendario delle udienze, i giudici popolari sono <<tenuti a garantire la loro presenza soltanto per i giorni in cui concretamente eserciteranno i loro compiti>> e per i quali ricevono, tra le altre, l’indennità prevista dall’art. 36, secondo comma, della legge n. 287 del 1951;
che, pertanto, gli eventuali pregiudizi subiti a seguito del mancato espletamento dell’ordinaria attività lavorativa per l’intera durata dell’ufficio, anche in difetto dei presupposti che la impongono, non sono riferibili alla disposizione denunciata, ma semplicemente alla erronea applicazione che di essa è stata data;
che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'erronea applicazione della norma e le situazioni patologiche attinenti al funzionamento della medesima non possono essere poste a base di una pronuncia di illegittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 40 del 1998 e n. 175 del 1997), sicché la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, secondo comma, della legge 10 aprile 1951, n. 287 (Riordinamento dei giudizi di assise) sollevata in riferimento agli artt. 3, primo comma, 36, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Vallo della Lucania, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore
Depositata in cancelleria il 26 luglio 2000.