ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 274, comma 1, lettera c, ultimo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 3, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), e dell’art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come sostituito dall’art. 42 del d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate), promosso con ordinanza emessa il 17 marzo 1999 dal Tribunale per i minorenni di Milano, iscritta al n. 424 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 aprile 2000 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto1. – Nel corso di un giudizio d’appello avverso il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari che aveva respinto la richiesta di applicazione della custodia cautelare nei confronti di una minore arrestata in flagranza del delitto di tentato furto aggravato (punibile, tenendo conto della diminuzione della pena base prevista per il tentativo e della diminuente prevista per i minori dall’art. 98 cod. pen., con la reclusione nel massimo inferiore a quattro anni), il Tribunale per i minorenni di Milano, con ordinanza emessa il 17 marzo 1999 e pervenuta a questa Corte il 12 luglio 1999, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 13, 27 e 31 della Costituzione, dell’art. 274, comma 1, lettera c, ultimo periodo, del codice di procedura penale – come modificato dall’art. 3, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 332 – e dell’art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), “nella parte in cui non prevedono che anche all’imputato minorenne non sia applicabile la misura cautelare qualora, pur sussistendo il pericolo della reiterazione di fatti delittuosi dello stesso tipo di quelli per cui si procede, tale delitto sia punito con pena inferiore nel massimo a quattro anni”.
Il remittente osserva che l’art. 23 del d.P.R. n. 448 del 1988 contiene una disciplina speciale ed esaustiva dei presupposti per l’applicazione della custodia cautelare nei confronti dei minori, del tutto autonoma da quella generale fissata in proposito dal codice di procedura penale, e con la quale il legislatore avrebbe voluto regolare con maggior favore la misura restrittiva nei confronti dell’imputato minorenne. Perciò non sarebbe applicabile a quest’ultimo l’art. 274 cod. proc. pen., e in particolare l’ultimo periodo del comma 1, lettera c, come sostituito dall’art. 3, comma 2, della legge n. 332 del 1995, ove si stabilisce che, se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare possono essere disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Secondo il giudice a quo, pertanto, nei casi, come quello di specie, di minore imputato di tentato furto monoaggravato, per i quali l’art. 23 del d.P.R. n. 448 del 1988 consente l’applicazione della custodia cautelare (trattandosi del delitto previsto dall’art. 380, comma 2, lettera e, cod. proc. pen. a cui detto art. 23, comma 1, fa riferimento), pur essendo la pena da infliggere inferiore nel massimo a quattro anni, si verificherebbe una disparità di trattamento rispetto all’imputato maggiorenne, per il quale non sarebbe consentita l’adozione della misura della custodia cautelare in carcere. Di conseguenza, l’art. 274, comma 1, lettera c, ultimo periodo, del codice di procedura penale e l’art. 23 del d.P.R. n. 448 del 1988, nella parte in cui non prevedono il divieto di applicazione della custodia cautelare, nella ipotesi predetta, anche nei confronti dell’imputato minorenne, sarebbero in contrasto con gli articoli 3, 13, 27 e 31 della Costituzione.
2. – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata in parte inammissibile per irrilevanza, e comunque infondata.
Secondo l’Avvocatura erariale, posto che, come il remittente stesso riconosce, le norme del codice di procedura penale, con specifico riferimento all’art. 274, non si applicano ai minorenni, per i quali la custodia cautelare è disciplinata completamente dall’art. 23 del d.P.R. n. 448 del 1988, la questione sollevata nei riguardi di detto art. 274 sarebbe priva di rilevanza.
La questione avente ad oggetto l’art. 23 del d.P.R. n. 448 del 1988 sarebbe invece infondata. Non sussisterebbe infatti la violazione dell’art. 3 della Costituzione, poiché la differenza delle situazioni disciplinate giustificherebbe il diverso trattamento normativo: la disciplina censurata sarebbe razionale, poiché la misura cautelare applicata al minore, a differenza di quelle previste per i maggiorenni dal codice di rito, sarebbe disposta con le cautele di cui all’art. 19, comma 3, del d.P.R. n. 448 (secondo il quale “quando è disposta una misura cautelare, il giudice affida l’imputato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, i quali svolgono attività di sostegno e controllo in collaborazione con i servizi di assistenza istituiti dagli enti locali”).
Non sarebbe poi dato di vedere in che cosa consista la denunciata violazione dell’art. 13 Cost., che si limita a prevedere una riserva di legge ordinaria per le misure restrittive della libertà personale; né dell’art. 27 Cost., essendo l’impugnato art. 23 parte di un sistema nel quale sono particolarmente esaltate le caratteristiche delle pene volute dal secondo comma del medesimo art. 27; né, infine, dell’art. 31, rispetto al quale il Tribunale non indica in alcun modo in che cosa consisterebbe la pretesa violazione.
Considerato in diritto1. – La questione sollevata investe sia l’art. 274, comma 1, lettera c, ultimo periodo, del codice di procedura penale che, nel testo modificato dall’art. 3, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 332, consente l’applicazione delle misure di custodia cautelare, allorché l’esigenza cautelare consista nel pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, solo quando si tratti di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, sia l’art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come sostituito dall’art. 42 del d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate), che, nel prevedere la possibilità di disporre la custodia cautelare del minorenne per il pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie, non contiene analoga limitazione relativa alla pena per questi prevista. Le due disposizioni sono censurate “nella parte in cui non prevedono che anche all’imputato minorenne non sia applicabile la misura cautelare qualora, pur sussistendo il pericolo di reiterazione di fatti delittuosi dello stesso tipo di quelli per cui si procede, tale delitto sia punito con pena inferiore nel massimo a quattro anni”. Secondo il giudice a quo, dette disposizioni sarebbero in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento fra imputati minorenni e maggiorenni, nonché con gli articoli 13, 27 e 31 della Costituzione: ma a tal proposito l’ordinanza non contiene alcuna argomentazione a supporto delle censure formulate.
2. – La questione non è fondata, in quanto non è condivisibile il presupposto interpretativo sul quale essa si basa.
Il remittente muove dalla premessa che l’innovazione restrittiva recata dall’art. 3, comma 2, della legge n. 332 del 1995 alla lettera c dell’art. 274, comma 1, del codice di procedura penale – a seguito della quale può disporsi una misura cautelare motivata dal pericolo di commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, solo se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni – non possa trovare applicazione nei confronti dei minorenni. Infatti, secondo il giudice a quo, l’art. 23 del d.P.R. n. 448 del 1988, che disciplina la custodia cautelare nell’ambito del procedimento penale minorile, conterrebbe una disciplina esaustiva della materia tale da escludere l’applicazione, nei confronti dei minori, delle norme dettate dal codice di rito per gli indagati maggiorenni, e dunque anche dell’art. 274, comma 1, lettera c, e dell’integrazione ad esso recata dalla legge n. 332 del 1995.
Ma non si può omettere di considerare, in primo luogo, che il legislatore ha inteso stabilire, nei riguardi dei minori, una disciplina della custodia cautelare più limitativa rispetto a quella dettata per gli indagati maggiorenni: in conformità al criterio del favor minoris che domina anche la materia penale, nonché alle direttive internazionali relative al diritto penale minorile, ispirate al principio per cui il ricorso alla custodia in carcere per i minori non può che rappresentare una ultima ratio cui far ricorso solo quando ciò risulti strettamente indispensabile (cfr. sentenze n. 46 del 1978, n. 125 del 1992, n. 109 del 1997). Del resto, i criteri della delega conferita al Governo per la disciplina del processo minorile (art. 3, comma 1, della legge n. 81 del 1987) prevedevano che questa si conformasse ai “principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione”, nonché dall’attuazione degli elencati criteri specifici: tra i quali molti sono proprio indirizzati verso una disciplina meno severa per i minori (cfr., ad es., lettere f, h, i), e nessuno, invece, appare autorizzare trattamenti più severi di quelli contemplati in generale dal codice.
Ciò era del tutto evidente nell’assetto originario della normativa delegata, in cui si prevedevano condizioni per l’applicazione ai minori delle misure cautelari in genere (con riferimento ai delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a cinque anni: art. 19, comma 4, del d.P.R. n. 448 del 1988), e in ispecie per l’applicazione della custodia cautelare (con riferimento ai delitti per i quali la legge stabiliva la pena della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni: art. 23, comma 1, dello stesso d.P.R., nel testo originario) di gran lunga più restrittive di quelle previste dal codice di rito per l’applicazione delle misure coercitive (con riferimento ai delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni, salvi i casi previsti dall’art. 391 cod. proc. pen. nella ipotesi di arresto in flagranza: art. 280, comma 1, cod. proc. pen., in conformità a quanto stabilito dalla direttiva n. 59 contenuta nell’art. 2, comma 1, della legge di delega n. 81 del 1987). Ma la situazione non è cambiata, sotto questo punto di vista, nemmeno dopo che la novella del 1991 (art. 42 del d. lgs. 14 gennaio 1991, n. 12) – peraltro emanata in base alla delega per la integrazione e correzione della già intervenuta legislazione delegata, e quindi necessariamente informata agli stessi originari criteri direttivi (cfr. art. 7 della legge n. 81 del 1987) – ha allargato notevolmente le condizioni per l’applicabilità ai minori della custodia cautelare, portando a nove anni il limite di pena massima già fissato in dodici anni dalla prima parte del comma 1 dell’art. 23, e introducendo l’ulteriore facoltà di disporre la custodia cautelare quando si proceda per uno dei delitti previsti dall’art. 380, comma 2, lettere e, f, g, h, del codice di procedura penale, nonché per il delitto di violenza carnale (così, si noti, introducendo nel sistema apparentemente “chiuso” delle norme sulle misure cautelari nei confronti dei minori un ulteriore rinvio, sia pure puntuale, a norme del codice). I reati cui si faceva riferimento restavano infatti pur sempre delitti puniti con pene massime superiori al limite posto dall’art. 280, comma 1, cod. proc. pen., e cioè tre anni di reclusione.
In siffatto sistema, caratterizzato da una disciplina invariabilmente di maggior favore per i minorenni rispetto a quella generale, sono intervenute le nuove norme recate dalla legge n. 332 del 1995, che, oltre a stabilire la nuova più elevata soglia di pena massima prevista (non inferiore a quattro anni di reclusione) per l’applicazione della custodia cautelare in carcere (art. 280, comma 2, cod. proc. pen.), hanno introdotto l’ulteriore limite specifico per l’ipotesi di applicazione delle misure cautelari (in genere) motivata dal pericolo di commissione di nuovi delitti della stessa specie di quelli per cui si procede: che si tratti, cioè, di delitti puniti con pena non inferiore nel massimo a quattro anni (art. 274, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.).
Si tratta di un limite di specie diversa dagli altri, parametrato com’esso è non al trattamento penale del delitto per il quale si procede – come sembra invece ritenere il giudice a quo – ma a quello dei delitti della stessa specie la cui commissione si intende scongiurare; e di un limite che non trova alcun riscontro né alcuna corrispondenza nelle specifiche previsioni del decreto sul processo minorile (a differenza, si può aggiungere, degli altri limiti di pena previsti nella stessa materia).
Quale che sia dunque, in generale, la ricostruzione che si debba effettuare dei rapporti fra norme del codice e norme del decreto sul processo minorile, trattandosi in questo caso di una norma specifica di maggior favore per i possibili destinatari delle misure cautelari, introdotta ex novo a distanza di tempo dal momento in cui furono delineate le due parallele discipline del codice e del decreto sul processo minorile, e al di fuori, com’è evidente, di ogni intento legislativo di revisione dei rapporti fra le due discipline, si deve ritenere che essa sia applicabile anche agli indagati minori, in base al principio, seguito dallo stesso legislatore e conforme ai principi costituzionali e internazionali, del favor minoris. In assenza, infatti, di ostacoli testuali insuperabili, e dovendosi procedere ad una interpretazione sistematica, non può non darsi rilievo preminente, nella ricostruzione della disciplina, ai criteri di fondo che la ispirano, fra cui quello appunto del trattamento più favorevole per l’indagato minorenne.
3. – Così ricostruito il quadro normativo, ed affermata l’applicabilità del nuovo testo dell’art. 274, comma 1, lettera c, secondo periodo, del codice di procedura penale anche ai minorenni, non ha motivo di porsi la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale per i minorenni di Milano.
per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 274, comma 1, lettera c, ultimo periodo, del codice di procedura penale e dell’art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come sostituito dall’art. 42 del d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13, 27 e 31 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Milano con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in cancelleria il 21 luglio 2000.