ORDINANZA N. 312
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 10 maggio 1999 dal Tribunale di Forlì nei procedimenti penali riuniti a carico di Bellini Luciano e altri, iscritta al n. 469 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 maggio 2000 il Giudice relatore Francesco Guizzi.
Ritenuto che nel corso di un procedimento penale a carico di L.B. e altro, imputati del delitto di cui all’art. 416-bis del codice penale, il Tribunale di Forlì, udita l’eccezione d’incompetenza per territorio sollevata dalla difesa, ha promosso, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del codice di procedura penale;
che, con decreto del 30 luglio 1996, il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna aveva disposto il rinvio a giudizio di L.B. dinanzi allo stesso tribunale, che però, con sentenza del 10 marzo 1998, aveva declinato la propria competenza e trasmesso gli atti al Tribunale di Forlì, indicato come competente per territorio;
che, per l’effetto, il Presidente del Tribunale di Forlì emetteva decreto di rinvio a giudizio nei confronti degli imputati, sennonché uno dei difensori eccepiva la violazione dell’art. 23 del codice di procedura penale, in quanto gli atti, anziché al pubblico ministero, erano stati trasmessi al tribunale funzionalmente competente;
che, attraverso la rimessione degli atti, i giudici di Bologna avrebbero ritenuto per implicito che, essendo il giudice dell’udienza preliminare del capoluogo del distretto competente (funzionalmente) per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, la fase delle indagini preliminari dovesse considerarsi conclusa e gli atti potessero essere rimessi direttamente all’autorità giudicante;
che, secondo il rimettente, tale decisione si porrebbe in contrasto insanabile con la disciplina dettata dal già menzionato art. 23, così come modificato da questa Corte con le sentenze nn. 70 del 1996 e 76 del 1993;
che per il diritto vivente avverrebbe con automatismo la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, con la conseguente abnormità del provvedimento ordinatorio di trasmissione degli atti, direttamente, all’autorità giudicante;
che il fondamento di tale orientamento risiederebbe nella tutela del diritto inviolabile di difesa e nel principio del giudice naturale, poiché la remissione immediata al collegio priverebbe l’imputato di queste garanzie;
che, ad avviso del giudice a quo, l’osservanza del diritto vivente dovrebbe indurre il tribunale a dichiarare la nullità del decreto di rinvio a giudizio e a trasmettere gli atti alla direzione distrettuale antimafia di Bologna;
che tale situazione processuale non sarebbe ragionevole, essendo in contrasto con i canoni di celerità ed economicità processuale;
che il giudice per le indagini preliminari del capoluogo del distretto, ai sensi dell’art. 328, comma 1 bis, del codice di procedura penale, sarebbe titolare di una competenza funzionale, sia per la celebrazione dell’udienza preliminare sia per l’eventuale giudizio abbreviato, a nulla rilevando il luogo dove si deve celebrare il dibattimento;
che la regressione del processo alla fase delle indagini preliminari risulterebbe, di conseguenza, priva proprio delle giustificazioni poste a fondamento delle ricordate decisioni di questa Corte, poiché l’imputato sarebbe, in ogni caso, giudicato dal giudice dell’udienza preliminare naturalmente competente, qual è quello distrettuale;
che, altrimenti, si verrebbe a creare un meccanismo automatico e farraginoso di regressione del procedimento, privo di giustificazione sostanziale e perciò in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 112 della Costituzione;
che vi sarebbe infatti violazione dell’art. 3, perché situazioni processuali profondamente diversificate sarebbero assoggettate alla medesima disciplina, in spregio al canone di ragionevolezza;
che la peculiarità dei procedimenti richiamati dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale imporrebbe la previsione di una specifica disciplina rispetto ai procedimenti ordinari, poiché le funzioni di pubblico ministero, di giudice delle indagini preliminari e giudice dell’udienza preliminare - quale che sia il Tribunale competente per territorio nel distretto - comunque si concentrano, in deroga ai criteri ordinari, in capo al pubblico ministero e al giudice delle indagini e dell’udienza preliminari, ai sensi, rispettivamente, dell’art. 51, comma 3-bis, e dell’art. 328, comma 1-bis;
che, inoltre, l’ingiustificata previsione della regressione processuale rallenterebbe la definizione del processo, con rischi di prescrizione dei reati e sostanziale vanificazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, con lesione, altresì, dell’art. 112 della Costituzione;
che la questione sarebbe rilevante, in quanto “trattasi della regola che disciplina le attività processuali conseguenti alla declaratoria di incompetenza territoriale già pronunciata dal tribunale di Bologna”;
che il giudice a quo ha pertanto sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente anche nel caso di reati per i quali, ai sensi del citato art. 51, comma 3-bis, la funzione di pubblico ministero è attribuita a quello presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo per la non fondatezza della questione;
che, ad avviso dell’interventore, la questione sarebbe rilevante, ma infondata, poiché non si potrebbe ravvisare la violazione dei parametri costituzionali invocati;
che la prospettazione del rimettente invertirebbe i termini logici del giudizio di ragionevolezza, poiché assumerebbe il confronto fra due situazioni eterogenee assoggettate alla medesima disciplina, anziché tra due situazioni omogenee diversamente trattate;
che si invocherebbe, dunque, la necessità di un intervento che regoli diversamente tali situazioni, compito del legislatore e non della Corte costituzionale;
che, con riferimento alla violazione dell’art. 112 della Costituzione, non sarebbe individuato alcuno specifico profilo di contrasto, se non quello legato al fatto che ogni attività ritenuta superflua aumenterebbe il rischio di prescrizione del reato;
che, a parte l’esigenza di assicurare le ulteriori attività difensive nell’ambito dell’udienza preliminare, nel frattempo utili o necessarie, questo rilievo non inciderebbe sull’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.
Considerato che la questione è stata sollevata con riferimento a due parametri costituzionali, il primo dei quali inconferente (v. ordinanze nn. 137 del 1995 e 224 del 1985), e l’altro non correttamente invocato;
che, in particolare, l’art. 112 della Costituzione attiene al principio di obbligatorietà dell’azione penale, estraneo a una questione che riguarda un momento successivo al suo esercizio, già avvenuto da parte del pubblico ministero distrettuale (sentenze nn. 460 e 280 del 1995);
che nessuna seria ragione di ordine costituzionale viene addotta a sostegno della richiesta mirante alla rottura della identità di regolamento processuale per la fase del giudizio e alla creazione di riti differenziati, ov’è sovrana la discrezionalità del legislatore (da ultimo, ordinanza n. 15 del 2000);
che il richiamo a siffatti parametri costituzionali impone la declaratoria di manifesta infondatezza della questione.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal Tribunale di Forlì, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Francesco GUIZZI, Redattore
Depositata in cancelleria il 20 luglio 2000.