Sentenza n. 294/2000

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SENTENZA N. 294

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 197, lett. b), 210, c.6°, e 192, c.4° del cod. proc. pen., promosso con ordinanza emessa il 13 maggio 1999 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di DE VITA Marco ed altri, iscritta al n. 444 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.37, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Udito nella camera di consiglio del 24 maggio 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.   

Ritenuto in fatto

Il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 197, lettera b), 210, comma 6, e 192, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui estendono la disciplina ivi prevista anche alle ipotesi in cui il reato collegato a quello per cui si procede sia il reato di calunnia susseguente a denuncia dell’originario denunciato.

Il giudice a quo ha premesso una analitica descrizione della articolata vicenda per la quale pende il processo a carico di tre vigili urbani, i quali, dopo aver contravvenzionato tale Sergio Landolfi per violazione dell’art. 7 del codice della strada ed all’esito di talune singolari operazioni dai medesimi poste in essere - quali l’aver fatto sottoscrivere al Landolfi un verbale di spontanee dichiarazioni quale indagato di calunnia – venivano da quest’ultimo denunciati. Il Landolfi, a sua volta, fu iscritto nel registro delle notizie di reato e soltanto il 30 maggio 1998 la sua posizione fu archiviata. Nell’ambito del dibattimento instaurato a carico dei vigili sulla base della denuncia sporta dal Landolfi, il pubblico ministero ne ha chiesto l’esame quale testimone: la difesa degli imputati non si è opposta all’esame, ma ha obiettato che tale atto doveva essere espletato a norma dell’art. 210 cod. proc. pen., attesa la qualità del dichiarante.

Il Tribunale ha osservato che al Landolfi non può essere negata la qualifica – quanto meno – di persona (già) indagata di un reato collegato a quello per il quale si procede a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen.; sicché il medesimo – puntualizza il rimettente – dovrebbe essere sentito a norma dell’art. 210 del codice di rito per varie ragioni. Anzitutto, perché l’art. 197, lettera b) prevede, appunto, che non possono essere assunte come testimoni le persone imputate di un reato collegato nel caso previsto dall’art. 371, comma 2, lettera b); in secondo luogo, per l’espresso disposto dell’art. 210, comma 6, e 192, comma 4, del codice di rito, che estendono le rispettive discipline proprio all’ipotesi del reato collegato che viene qui in discorso. Né può assumere rilievo la circostanza che la qualifica di indagato non sia più attuale, essendo intervenuta l’archiviazione, avuto riguardo ai principi enunciati da questa Corte nelle sentenze n.108 e 109 del 1992.

Pertanto - rileva il giudice a quo - da un lato, tra il procedimento a carico dei vigili urbani ed il procedimento a carico del Landolfi sussiste senz’altro interferenza sul piano probatorio, non foss’altro perché il Landolfi era in quella sede indagato per calunnia mentre i vigili sono nel procedimento a quo imputati di «calunnia di calunnia». Dall’altro lato, l’archiviazione disposta nel procedimento relativo al Landolfi non lo garantirebbe dal rischio di riapertura delle indagini, sicché non verrebbe meno la sua incompatibilità rispetto all’ufficio di testimone con la correlativa necessità di applicare l’art. 210 cod. proc. pen.

Ad avviso del giudice rimettente, la prescrizione dettata dall’art. 197 lettera b), dalla quale consegue la disciplina degli artt. 192, comma 4, e 210, comma 6, cod. proc. pen., è incoerente nella parte in cui, richiamando la categoria individuata dall’art. 371, comma 2, lettera b), non distinguerebbe tra due situazioni fra loro profondamente diverse: quella in cui il collegamento probatorio nasca dall’apertura in capo al dichiarante di un procedimento sorto a seguito di «controdenuncia» per calunnia nei suoi confronti; e quella in cui il collegamento probatorio nasca dalla sottoposizione del dichiarante a procedimento per qualsiasi reato. Da ciò deriverebbe il risultato, del tutto irragionevole, di far discendere i medesimi effetti dall’attrazione di entrambe le situazioni nella medesima disciplina processuale.

A parere del giudice a quo, l’irragionevolezza della equiparazione si appaleserebbe sotto un duplice aspetto. Da un lato, infatti, l’applicazione dell’art. 197 lettera b) alla ipotesi di «controdenuncia» per calunnia comporterebbe che, paradossalmente, l’accertamento del fatto di reato che l’originario denunciante ha prospettato come compiuto ai suoi danni, verrebbe fatalmente a dipendere da una scelta dello stesso denunciato, il quale – attraverso la controdenuncia - avrebbe lo strumento per svalutare all’origine il mezzo di prova rappresentato dalla testimonianza della presunta parte offesa. Da un altro lato, sempre nel caso della «controdenuncia» per calunnia, il contesto di collegamento probatorio – e, quindi, il presupposto della incompatibilità con l’ufficio di testimone – non nasce da un «collegamento naturalistico, o comunque intrinseco ai fatti, ma viene successivamente creato, nella fase dell’accertamento dei fatti medesimi, proprio e solo quale effetto artificiale (se non anche talora artificioso) della “controdenuncia”». Da qui due conseguenze irragionevoli: anzitutto, l’inutile ed anticipata applicazione di una serie di garanzie ad un soggetto che non ne avrebbe alcun bisogno; in secondo luogo, si viene a determinare una immotivata svalutazione ex lege delle dichiarazioni della persona offesa denunciante, perché per esse vale la regola di giudizio contenuta nell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., estesa dal quarto comma dello stesso articolo all’ipotesi di reato collegato a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b), del codice di rito.

Violato sarebbe, anche, l’art. 101, secondo comma, della Costituzione, in quanto il libero convincimento del giudice verrebbe ad essere condizionato da un accadimento processuale idoneo a produrre un turbamento della pienezza della prova, ed il cui realizzarsi è interamente rimesso all’imputato del reato presupposto.

Considerato in diritto

1. - Il quesito di costituzionalità che viene devoluto all’esame di questa Corte attinge il combinato disposto degli articoli 197, lettera b), 210, comma 6, e 192, comma 4, cod. proc. pen., dei quali si denuncia il contrasto con gli artt. 3 e 101 della Costituzione, nella parte in cui estendono la disciplina ivi prevista anche alle ipotesi in cui il reato collegato a quello per cui si procede sia il reato di calunnia susseguente a denuncia dell’originario denunciato.

La peculiarità della impugnativa - attenta a ritagliare una ipotesi del tutto circoscritta nel ben più ampio registro offerto dalle norme sottoposte a scrutinio – si delimita poi ulteriormente, nel caso di specie, in quanto il giudice rimettente muove dalla premessa secondo la quale, evocando i dicta a tal proposito enunciati dalle sentenze n.108 e 109 del 1992, neppure l’archiviazione disposta nei confronti dell’originario denunciante, a sua volta denunciato, varrebbe a dirimere la problematica oggetto del quesito, in quanto il provvedimento di archiviazione non sarebbe idoneo a garantire quel soggetto dal rischio di una riapertura delle indagini: con la conseguenza di lasciare immutata la sua incompatibilità rispetto all’ufficio di testimone e rendere dunque applicabile la disciplina dettata dall’art. 210 cod. proc. pen. e la correlativa regola di valutazione della prova, sancita dall’art.192, comma 4, dello stesso codice.

Da tutto ciò scaturirebbe, dunque, il contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto verrebbe irragionevolmente a determinarsi l’applicazione di una serie di garanzie ad un soggetto che non ne avrebbe «alcun bisogno» (salva l'eventualità in cui venga smentita la sua versione ed emerga il dolo di calunnia). Per contro, si produrrebbe una incoerente svalutazione ex lege delle dichiarazioni rese dalla persona offesa denunciante, applicandosi ad esse la più rigorosa regola di giudizio prevista dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., la quale ultima prevede che quelle dichiarazioni – in virtù del richiamo operato dal quarto comma dello stesso articolo – sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità. Da ciò anche, e di riflesso, la dedotta compromissione dell’art.101, secondo comma, della Carta fondamentale, in quanto il libero convincimento del giudice verrebbe ad essere influenzato da un fattore processuale idoneo ad inficiare la pienezza della prova, e la cui operatività verrebbe fatta integralmente dipendere da una scelta discrezionale delle parti (nella specie, dell’indagato o imputato del reato presupposto).

2. - Il richiamo operato dal giudice a quo alle sentenze n.108 e 109 del 1992, entrambe poste a base della ricostruzione ermeneutica del quadro normativo coinvolto dalle odierne censure, impone di prendere le mosse proprio da tali pronunce, per verificare se le premesse sulle quali si è fondato il quesito possano o meno ritenersi corrette.

Con la sentenza n.108 del 1992, questa Corte ebbe a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.60 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 405 e 197, primo comma, lettera a), dello stesso codice, nella parte in cui – secondo il giudice rimettente – non avrebbe previsto l’incompatibilità con l’ufficio di testimone della persona sottoposta alle indagini, nei confronti della quale fosse stato emesso provvedimento restrittivo della libertà personale in un procedimento conclusosi con l’archiviazione. Si osservò, infatti, che «la norma di garanzia contenuta nell’art. 197, primo comma, lettera a) del codice di procedura penale deve essere applicata alla persona sottoposta alle indagini preliminari così come essa viene applicata all’imputato; vale a dire che il combinato disposto di tale norma con l’art. 61, primo comma, vieta l’assunzione come testimone delle persone sottoposte alle indagini preliminari anche se nei loro confronti sia stato pronunciato decreto di archiviazione». Una conseguenza, questa, reputata «assolutamente coerente al sistema», dato che il presidio offerto dal principio secondo cui nemo tenetur se detegere - su cui si fonda l’esclusione dall’ufficio di testimone dell’imputato, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere (revocabile a norma dell’art.434) - deve valere «anche per la persona sottoposta alle indagini preliminari nei cui confronti sia stato pronunciato decreto di archiviazione, essendo prevista per questa la possibilità di riapertura delle indagini».

Con la sentenza n.109 del 1992, invece, questa Corte ebbe a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 197 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a testimoniare dell’imputato nel processo riunito a norma dell’art. 17, lettera c), dello stesso codice, vale a dire nei casi di reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre. Dopo aver sottolineato che tale soggetto, allorché venga assunto come testimone, è tutelato dai rischi derivanti dalla possibilità di autoincriminazioni dalla generale garanzia apprestata dall’art.198, comma 2, questa Corte – come lo stesso giudice a quo rammenta – ha sottolineato che «il criterio posto a base della norma impugnata in ordine al divieto di essere assunto come testimone è quello dell’esistenza di un vincolo probatorio tra i procedimenti nei quali il medesimo soggetto si troverebbe ad assumere rispettivamente la veste di imputato e di testimone: vincolo che sussisterebbe sempre … nei casi indicati dall’art. 197, lett. a) (coimputati dello stesso reato o imputati di reati connessi a norma dell’art. 12) e che, in ogni altro caso in cui si verifichi, sarà rilevato dal giudice a norma dell’art. 197, lettera b)». Da qui la ritenuta operatività del divieto di essere assunti come testimoni ai sensi dell’art. 197 lettera b) «anche per coloro che siano imputati di un reato collegato», «ove in concreto il giudice rilevi l’esistenza di una vera e propria interferenza sul piano probatorio tra due procedimenti».

Le prospettive secondo le quali sono venute ad articolarsi le richiamate sentenze di questa Corte non sono, dunque, fra loro sovrapponibili, giacché il relativo ambito decisorio è stato rispettivamente circoscritto alle ipotesi di cui alle lettere a) e b) dell’art. 197 cod. proc. pen., delle quali anzi – e come si è visto – sono state adeguatamente messe a fuoco le profonde differenze strutturali. Pretendere, quindi, come pure sembra presupporre l’odierno rimettente, di trasferire le conclusioni cui è pervenuta la sentenza n.108 del 1992 anche nella sfera attinta dalla seconda ed immediatamente successiva pronuncia, è soluzione concettualmente impraticabile, ancor prima che ermeneuticamente scorretta, proprio perché eterogenei e non combinabili sono gli stessi referenti normativi che vengono qui in discorso.

Al riguardo, può infatti subito rilevarsi come la scelta del legislatore sia stata univocamente quella di assegnare carattere di eccezionalità alle ipotesi che disciplinano la incompatibilità a testimoniare, a fronte della opposta e generale regola sancita dall’art. 196, comma 1, del codice di rito: sicché, la «lettura» dei casi di incompatibilità con l’ufficio di testimone e la correlativa sfera applicativa, non potrà che essere improntata a criteri di particolare rigore, con esclusione di qualsiasi ampliamento su base analogica. Ebbene, l’art. 197, lettera a), del codice, espressamente stabilisce l'incompatibilità con l'ufficio di testimone nei confronti dei coimputati nel medesimo reato e delle persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'art. 12, «anche se nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, di proscioglimento o di condanna, salvo che la sentenza di proscioglimento sia divenuta irrevocabile». Per tali soggetti, quindi - e soltanto per essi - il legislatore ha formulato uno specifico riferimento alla «durata» della loro qualità, assegnando una sorta di immunità rispetto all'ufficio di testimone anche al di là della chiusura del relativo procedimento; salva l'ipotesi - evidentemente anch'essa da riguardare come «eccezionale» nella economia del sistema - in cui quei soggetti siano stati prosciolti con sentenza irrevocabile e, dunque, non si presenti per essi più alcun rischio di un nuovo giudizio per lo stesso fatto. Da ciò, quindi, si chiarisce come la sentenza n.108 del 1992 si sia saldamente attestata alla ipotesi prevista dall'art. 197, lettera a), del codice di rito, giacché soltanto per essa poteva porsi un problema di assimilabilità nella tutela per i coimputati o imputati di reato connesso nei confronti dei quali fosse stato pronunciato il decreto di archiviazione, dotato di una «capacità di resistenza» senz'altro minore rispetto alla sentenza di non luogo a procedere, cui pure lo stesso articolo di legge fa espresso riferimento.

Da quanto osservato può dunque trarsi un corollario interpretativo evidentemente antagonista, rispetto alla prospettiva ermeneutica sulla quale il giudice rimettente fonda le proprie censure. Non essendo stata infatti prevista nella lettera b) dell'art. 197 alcuna previsione circa «la durata» della relativa qualità, se ne può dedurre che l'incompatibilità sussiste soltanto nei confronti di coloro che, e per il tempo in cui, rivestono la qualità di persone imputate o indagate (in virtù della generale estensione prevista dall'art. 61 cod. proc. pen.) di un reato collegato a quello per cui si procede a norma dell'art. 371, comma 2, lettera b); con l'ovvia conseguenza che - per stare nel caso di specie - l'intervenuta archiviazione del procedimento probatoriamente collegato produce l'effetto di dissolvere la correlazione qualificata tra le regiudicande e, con essa, l'incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone. D'altra parte, una simile ricostruzione interpretativa appare essere coerentemente in linea con la stessa ratio dell'istituto che qui viene in discorso, giacché - evocandosi una ipotesi caratterizzata dalla interferenza probatoria tra procedimenti - la configurazione di una incompatibilità a testimoniare assume una specifica ragione d'essere solo nei limiti in cui i procedimenti siano in corso; altrimenti, il tema probatorio comune cesserebbe di avere connotazioni meramente processuali per assumere anche effetti, per così dire, «sostanziali». Questa ratio non a caso è valorizzata nella sentenza n.109 del 1992, ove questa Corte - dopo aver sottolineato il generale presidio offerto dall'art. 198, comma 2, cod. proc. pen. al principio del nemo tenetur se detegere - ha espressamente rimesso al giudice il compito di verificare «in concreto» l'interferenza sul piano probatorio tra i due procedimenti, presupponendone, quindi, la attuale consistenza.

A sostegno di tale prospettiva militano, per altro verso, ulteriori spunti offerti dalla disciplina positiva, i quali solo apparentemente possono ritenersi riconducibili a profili di mero sistema. L'art. 210 cod. proc. pen., infatti, prevede, nel comma 1, che le specifiche modalità di esame delineate da quella norma si applichino nei confronti delle persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 «nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente»: ancora una volta, quindi, il legislatore è attento a calibrare per questi specifici soggetti una previsione «di durata» della relativa qualità, in stretta aderenza, come si è visto, alla correlativa previsione dettata dall'art. 197, comma 1, lettera a). Nei confronti, invece, degli imputati di reato probatoriamente collegato, il comma 6 dello stesso art. 210 si limita ad estendere le forme dell'esame, senza alcuna specifica menzione del fatto che nei confronti delle stesse «si sia proceduto» in altra sede, evidentemente richiedendosi - ancora una volta - l'attualità del loro specifico status.

Un ulteriore indice, e sempre per stare al corpo normativo attinto dalle censure di incostituzionalità, può infine essere desunto dallo stesso regime di valutazione della prova scandito dall'art. 192 del codice di rito. La nota regola della c.d. corroboration - mutuata, come precisa la Relazione al Progetto preliminare, dalle esperienze dei paesi in cui vige il sistema accusatorio, ove essa accompagna, non a caso, la valutazione della chiamata in correità - è stata infatti prevista dal comma 3 di tale articolo per le dichiarazioni rese dal coimputato o dalla persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12; mentre la stessa regola è stata estesa alle dichiarazioni rese dall'imputato di reato probatoriamente collegato dal comma 4 del medesimo articolo, introdotto dal Progetto definitivo, sul presupposto - come puntualizza la Relazione - che si trattasse di «ipotesi razionalmente non dissimili».

Per un verso, dunque - attraverso la scelta di «estendere» la regola di valutazione di cui al comma 3 anche alle dichiarazioni di cui al comma 4, anziché far confluire quest'ultima previsione nel corpo della prima - è lo stesso legislatore ad aver rimarcato come, pur nella identità della regola processuale, non sussista ontologica coincidenza tra le due categorie di soggetti processuali: così fornendo il destro all'interprete per affermare la non automatica trasferibilità, in via ermeneutica, delle disposizioni stabilite per i primi anche in riferimento alla posizione dei secondi. Sotto altro profilo - e per stare alle stesse espressioni che compaiono nella Relazione al Progetto definitivo - la estensione della regola della probatio levior alle dichiarazioni rese dagli imputati di reato probatoriamente collegato a quello per il quale si procede, in tanto può ritenersi «razionalmente» giustificata, in quanto il contrasto di interessi che è al suo fondamento possa ritenersi in concreto - e dunque in atto - sussistente. Eventualità, questa, che evidentemente non ricorre nelle ipotesi in cui, come nel caso in esame, tale contrasto sia stato dissolto proprio sul piano della interferenza probatoria, per esser stata la posizione del dichiarante già definita con un provvedimento di archiviazione.

Risultando pertanto errata la premessa posta a base delle odierne censure, la questione all'esame di questa Corte deve essere dichiarata non fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 197, lettera b), 210, comma 6, e 192, comma 4, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in cancelleria il 17 luglio 2000.