ORDINANZA N. 168
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 51, comma 1°, n. 4, del codice di procedura civile promossi con ordinanze emesse il 4 dicembre 1998 e il 23 aprile 1999 dal Giudice istruttore del Tribunale di Milano, il 28, il 2 (n. 2 ordinanze) e il 28 aprile 1999 dal Tribunale di Firenze, rispettivamente iscritte ai nn. 83, 429, 433, 434, 435 e 484 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 9, 36, 37 e 39, prima serie speciale, dell'anno 1999.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 maggio 2000 il Giudice relatore Cesare Ruperto.
Ritenuto che, nel corso di due processi civili, il Giudice istruttore del Tribunale di Milano - avendo pronunciato sulle rispettive istanze di condanna del convenuto ai sensi dell'art. 186-quater del codice di procedura civile -, con altrettante ordinanze di identico contenuto, emesse il 4 dicembre 1998 (R.O. n. 83 del 1999) ed il 23 aprile 1999 (R.O. n. 429 del 1999), ha sollevato, in riferimento all’art. 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 51, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., «nella parte in cui non prevede l'obbligo di astensione del giudice che abbia, con ordinanza, deciso sull’istanza ex art. 186-quater cod. proc. civ.»;
che il rimettente sottolinea come la giurisprudenza costituzionale abbia ripetutamente affermato (in particolare con la sentenza n. 326 del 1997) la stretta funzionalità della denunciata norma rispetto al principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che risponde all’esigenza di proteggere il giudice del merito della causa dal pregiudizio effettivo, o anche solo potenziale, derivante da valutazioni da lui espresse in occasione di provvedimenti adottati in un momento precedente, evitando che egli sia costretto, nel decidere, a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguìto, soprattutto quando preesistono valutazioni di contenuto che cadono sulla stessa res judicanda, essendo medesimo l’àmbito della precedente cognizione e quello della successiva;
che, secondo il rimettente, l’ordinanza ex art. 186-quater cod. proc. civ. si configura quale provvedimento a contraddittorio e cognizione pieni e ad istruttoria compiuta, dal contenuto decisorio ed esecutivo, sicché - per il caso in cui il processo non si estingua e la pronuncia della sentenza non sia rinunciata - il giudice è tenuto a operare sulla medesima res judicanda, esaminando nuovamente gli stessi atti e lo stesso materiale probatorio in base al quale ha emesso l’ordinanza;
che dunque - sempre secondo il rimettente - appare logico presumere che possa verificarsi una naturale tendenza a mantenere, in sede di redazione della sentenza, il giudizio già espresso in altro momento decisionale; non potendosi ritenere che l’eventuale successiva precisazione delle conclusioni ed il deposito di comparse conclusionali possano efficacemente condizionare la conclusione del giudizio ed influire sul meccanismo psicologico che presiede alla formazione del convincimento del giudice;
che, nel corso di quattro procedimenti civili, il Giudice istruttore del Tribunale di Firenze - essendosi anch’egli già pronunciato sulle rispettive istanze di condanna ai sensi dell'art. 186-quater cod. proc. civ. -, con altrettante ordinanze di identico contenuto, emesse il 2 aprile (R.O. nn. 434 e 435 del 1999) ed il 28 aprile 1999 (R.O. nn. 433 e 484 del 1999), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 51, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., «nella parte in cui non prevede l'obbligo di astensione dal pronunciare sentenza per quel giudice che in ordine al medesimo oggetto si sia, nel merito, pronunciato su richiesta di ordinanza ex art. 186-quater cod proc. civ.»;
che - premesse considerazioni analoghe a quelle svolte dal precedente rimettente in ordine agli effetti della cosiddetta "forza della prevenzione" sulla serenità del giudice, allorquando questi sia chiamato a ripercorrere il medesimo itinerario logico già in precedenza seguìto su una medesima res judicanda - afferma in particolare il rimettente che le motivazioni che hanno portato la Corte costituzionale (con la menzionata sentenza n. 326 del 1997) a dichiarare non fondata altra questione di legittimità costituzionale della stessa norma, nel caso di cognizione della causa di merito da parte del giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causam, non possono valere per la soluzione della presente questione;
che infatti, secondo il rimettente, le motivazioni svolte in tale decisione circa la diversità di struttura, contenuto, finalità, àmbito di cognizione e valenza del materiale probatorio tra il procedimento cautelare ante causam ed il successivo giudizio di merito, non possono valere nell'ipotesi del giudice che si sia comunque pronunciato (accogliendola o rigettandola) sulla istanza ex art. 186-quater , poiché: a) il materiale probatorio preso in esame per pronunciarsi su tale istanza è il medesimo che poi sarà preso in esame nella vera e propria sede decisoria; b) la valutazione di detto materiale avviene in entrambi i casi nel rispetto rigoroso del principio dell’onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ.; c) la relativa ordinanza, sia pure nei ristretti termini di cui all'art. 134 cod. proc. civ. , dev’essere motivata al pari di una sentenza, con ciò imponendosi che venga ripercorso nella sua integralità il medesimo "itinerario logico" già in precedenza seguìto e che vengano a reiterarsi valutazioni ricadenti pressoché sulla medesima res judicanda; d) l’ordinanza ex art. 186-quater è idonea ad acquistare efficacia di sentenza, possedendone il medesimo valore, giacché solo con sentenza può essere revocata [argomento, questo, svolto solo nell’ordinanza R.O. n. 484 del 1999];
che, in tutti i giudizi, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità ovvero di infondatezza delle sollevate questioni.
Considerato che l’identità della norma sottoposta a scrutinio di legittimità costituzionale, e la stretta connessione di profili denunciati con motivazioni sostanzialmente analoghe, impongono la riunione dei giudizi, che vanno pertanto congiuntamente decisi;
che entrambi i rimettenti - a sostegno dei prospettati dubbi di illegittimità, riguardanti la dedotta menomazione del principio di terzietà-imparzialità della giurisdizione, in ragione della ritenuta negativa incidenza sulla serenità del giudice della così detta "forza della prevenzione" - fanno richiamo alle osservazioni in tal senso svolte da questa Corte nella sentenza n. 326 del 1997;
che, tuttavia, agli stessi è sfuggito che, contestualmente, è stato ivi precisato come ben diversa, rispetto alla pluralità dei gradi di giudizio - dove «è l’esigenza stessa di garanzia, che sta alla base del concetto di revisio prioris istantiae, a postulare l’alterità del giudice dell’impugnazione, il quale si trova [...] a dover ripercorrere l’itinerario logico che è stato già seguìto onde pervenire al provvedimento impugnato» -, «si presenta la situazione quando l’iter processuale semplicemente si articoli attraverso più fasi sequenziali (necessarie od eventuali poco importa) nelle quali l’interesse posto a base della domanda - e che regge il giudizio - impone l’appagamento di esigenze, a quest’ultimo connesse, di carattere conservativo, anticipatorio, istruttorio, ecc.»;
che, in relazione a ciò, dopo aver posto in evidenza la peculiare operatività del principio dispositivo cui è informato il rito civile - nell’àmbito del quale la dialettica dei contrapposti interessi si esplica, durante tutto il processo, in relazione ad attività e forme di tutela diverse, che rispondono alle varie esigenze implicate dal diritto o dall’interesse concretamente azionato nel giudizio stesso -, la Corte ha allora concluso che anche nell'ipotesi di provvedimento cautelare (conseguente alla dialettica dei contrapposti interessi, la quale di norma si svolge attraverso il contraddittorio tra le parti, su un piano di «parità delle armi», in una continua funzione propulsiva che condiziona il perseguimento e la stessa conclusione del giudizio: cfr. anche sentenza n. 341 del 1998) non sussiste l'esigenza d'ordine costituzionale d'un obbligo di astensione del giudice, che lo abbia pronunciato ante causam, dal trattare e decidere la successiva causa di merito;
che a maggior ragione tali affermazioni valgono con riguardo all’ordinanza emessa ai sensi dell'art. 186-quater cod. proc. civ., cui il legislatore ha attribuito un effetto anticipatorio della decisione definitiva, da attuarsi in virtù di un meccanismo potenzialmente idoneo a concludere il processo di primo grado (v. anche sentenza n. 385 del 1997); e ciò a fini essenzialmente deflattivi del contenzioso, ritenuti conseguibili grazie all'immediata realizzazione (totale o parziale) del petitum collegata alla possibile rinuncia da parte dell’intimato ad una successiva pronuncia di merito, ovvero all'altrettanto possibile estinzione del giudizio;
che allorquando, non verificatesi le condizioni auspicate dal legislatore per addivenire a detta anticipata conclusione, il giudizio prosegue sino alla pronuncia della sentenza, questa è per sua natura destinata a riassorbire in sé l’ordinanza relativamente al già decisum, salva la possibilità di modificarne in tutto o in parte le statuizioni;
che quest'ultima evenienza, peraltro solo ipotetica, non sta punto a significare che il giudice monocratico (e tantomeno il collegio), nell’emanare la decisione finale, debba inevitabilmente ripercorrere l’identico itinerario logico-decisionale già seguìto onde pervenire all’adozione dell’ordinanza stessa (come se il legislatore avesse inteso introdurre una doppia decisione in primo grado), ma solo che è dato ad esso di prendere in considerazione le ragioni ulteriormente svolte dalle parti, quantomeno, in sede di comparse conclusionali, memorie di replica ed eventuale discussione orale, sempre su un piano di parità delle armi e nella perdurante operatività del principio dispositivo;
che, pertanto, qualunque sia il contenuto della sentenza, il meccanismo processuale in parola, lungi dal violare il diritto di difesa per eventuale incidenza della forza della prevenzione nel giudizio del decidente, offre alle parti una garanzia di maggiore ponderazione del contenzioso in sede decisoria, salvaguardando nel contempo l’esigenza di un pieno rendimento dell’attività giurisdizionale, secondo il principio di concentrazione degli atti e di economia endoprocessuale (cfr. sentenza n. 363 del 1998), che esige appunto la continuità del medesimo giudice nel condurre il processo fino alla decisione conclusiva;
che, di conseguenza, la questione è da dichiararsi manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 51, primo comma, n. 4, del codice di procedura civile, sollevate - in riferimento all’art. 24 Cost. - dal Tribunale di Milano e - in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. - dal Tribunale di Firenze, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 maggio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Cesare RUPERTO, Redattore
Depositata in cancelleria il 31 maggio 2000.