SENTENZA N. 422
ANNO 1999REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 10, del codice di procedura penale, come modificato dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), promossi con ordinanze emesse il 13 luglio 1998 dal Tribunale di sorveglianza di Napoli e il 27 agosto 1998 (n. 3 ordinanze) dal Tribunale di sorveglianza di Palermo, rispettivamente iscritte ai nn. 855, 877, 878 e 879 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 48 e 50, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Udito nella camera di consiglio del 29 settembre 1999 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di sorveglianza di Napoli solleva, in riferimento agli artt. 24, 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 10, cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1 della legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), nella parte in cui prescrive che il tribunale di sorveglianza provvede senza formalità all’eventuale applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare nei confronti del condannato che si trovi agli arresti domiciliari. La previsione oggetto di impugnativa, osserva il rimettente, risulterebbe “eccezionale” sotto un duplice profilo: per un verso, infatti, la decisione del tribunale di sorveglianza è adottata de plano; sotto altro profilo, anche il provvedimento di sospensione dell’esecuzione viene disposto d’ufficio dal pubblico ministero e, dunque, in assenza di previa istanza dell’interessato. Da ciò scaturirebbe anzitutto, a parere del giudice a quo, una violazione dell’art. 24 della Costituzione, in quanto, attesa la varietà delle misure alternative e degli specifici interessi e aspettative che il condannato può nutrire, soltanto la partecipazione di quest’ultimo al procedimento di sorveglianza lo pone in condizione di sostenere adeguatamente le proprie ragioni. Violato sarebbe anche l’art. 27 della Costituzione, in quanto la decisione sulla ammissione alla detenzione domiciliare viene determinata automaticamente dallo stato privativo della libertà personale in cui si trova al momento del passaggio in giudicato della sentenza il condannato e non dalla valutazione complessiva della situazione personale, familiare e sociale dello stesso.
Si ravvisa, infine, una disparità di trattamento tra chi, trovandosi agli arresti domiciliari all’atto del passaggio in giudicato della sentenza, sia stato condannato a pena detentiva non superiore a tre o quattro anni e chi, pur dovendo espiare la stessa pena, sia libero al momento della condanna definitiva, giacché soltanto quest’ultimo potrà chiedere la sospensione della esecuzione con contestuale richiesta della misura alternativa più adeguata alla propria concreta situazione, avvalendosi di tutte le garanzie del procedimento di sorveglianza.
2. – L’identica questione è stata sollevata anche dal Tribunale di sorveglianza di Palermo, il quale, con tre ordinanze recanti la medesima motivazione, espressamente richiama e fa rinvio alle argomentazioni svolte dal Tribunale di sorveglianza di Napoli. Puntualizza il tribunale palermitano di ritenere centrale la violazione del principio sancito dalla direttiva n. 96 della legge-delega n. 81 del 1987 in tema di giurisdizionalizzazione della fase esecutiva e di garanzia del contraddittorio, come d’altra parte reso evidente dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha esteso le garanzie della giurisdizione piena “anche a procedimenti di contenuto minore”, come nel caso della sentenza n. 53 del 1993.
3. – Nei giudizi non si sono costituite le parti private né ha spiegato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. – Le doglianze dei giudici a quibus, identiche nei vari atti di rimessione e dunque tali da comportare la riunione dei relativi giudizi, sono incentrate sulla previsione dettata dal comma 10 dell’art. 656 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1 della legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), il quale stabilisce che, ricorrendo le condizioni di applicabilità della disciplina relativa alla sospensione dell’esecuzione prevista dal comma 5 del medesimo articolo, se il condannato si trova agli arresti domiciliari, il pubblico ministero sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione trasmettendo gli atti al tribunale di sorveglianza, il quale provvede “senza formalità” alla “eventuale” applicazione della detenzione domiciliare. Stabilisce, poi, la disposizione impugnata che, nelle more della decisione, il condannato “permane nello stato detentivo nel quale si trova e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata a tutti gli effetti”. La richiesta dei Tribunali rimettenti è concorde, e mira, non ad una sentenza manipolativa o additiva, ma alla caducazione dell’intero procedimento de plano e della conseguente statuizione – per così dire vincolata e senza richiesta dell’interessato – demandata all’organo di sorveglianza. Tre i parametri a tal proposito invocati: anzitutto si prospetta violazione del diritto di difesa, assumendosi che soltanto la diretta partecipazione del condannato può consentirgli di far valere gli specifici interessi che intende perseguire; viene dedotta, poi, violazione dell’art. 27 della Costituzione, giacché la applicazione della misura della detenzione domiciliare scaturirebbe non da una valutazione complessiva della situazione del condannato, ma dallo status libertatis in cui il medesimo versa all’atto del passaggio in giudicato della sentenza; compromesso, infine, sarebbe il principio di uguaglianza, in quanto, a parità di condanna, soltanto il condannato che si trovi in stato di libertà può “richiedere la sospensione della esecuzione della pena con la contestuale istanza della misura alternativa alla detenzione che, a proprio opinabile giudizio, meglio risponda alla concreta situazione personale, familiare, sociale, nonché rispetto alla quale abbia maggiori aspettative circa una decisione favorevole…”, avvalendosi “a tal fine di tutte le garanzie del procedimento di sorveglianza di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p.”. Il Tribunale di sorveglianza di Palermo, a sua volta, nell’evocare gli stessi parametri, richiamando espressamente tutte le considerazioni poste a fondamento delle ordinanze di rimessione pronunciate dal Tribunale di sorveglianza di Napoli, ha in particolare sottolineato il contrasto che sarebbe dato riscontrare tra la norma impugnata e la direttiva n. 96 della legge-delega n. 81 del 1987, relativa alle garanzie di giurisdizionalità nella fase della esecuzione ed alla necessità del contraddittorio, pur non deducendo alcun profilo di eccesso di delega, essendo stata la norma in esame introdotta con legge ordinaria.
2. – La questione non è fondata.
I rilievi critici sviluppati dai giudici a quibus non possono certo ritenersi né isolati né pretestuosi, giacché essi trovano quasi testuale rispondenza nelle posizioni assunte dalla maggior parte dei commentatori che si sono sin qui occupati della normativa oggetto di impugnativa. Tuttavia, nonostante le perplessità che la disposizione impugnata può generare sul piano non soltanto della coerenza sistematica ma anche dei problemi pratici che dalla stessa possono scaturire, deve escludersi che i rilievi a tal proposito formulati assumano uno specifico risalto costituzionale, almeno se riferiti ai parametri ed ai profili enunciati nelle ordinanze di rimessione.
Quanto, infatti, al diritto di difesa che si assume essere violato, è agevole osservare che non può ritenersi in contrasto con quel principio una disposizione che si limiti a configurare un intervento de plano a sua volta teso a verificare la applicabilità di una misura alternativa in sé non deteriore rispetto alla condizione in cui versa il condannato a quel momento. La legittimità dei provvedimenti de plano o delle determinazioni in sé suscettibili di dar luogo a contraddittorio differito o eventuale è stata infatti più volte affermata da questa Corte ed è ormai da tempo pacificamente riconosciuta anche in dottrina. A ben guardare, anzi, il profilo dedotto dai giudici a quibus non attiene neppure al difetto di contraddittorio in sé e per sé considerato, ma alla necessità di consentire al condannato di esprimere le sue valutazioni o scelte in ordine alla misura alternativa che risponda meglio delle altre ai suoi specifici interessi. L’interlocuzione alla quale i rimettenti fanno riferimento, dunque, non è costruita in chiave di difesa stricto sensu, ma nella più circoscritta prospettiva di rappresentare i propri interessi e le proprie aspettative in una “occasione” che può assumere rilievo costituzionale soltanto ove quella fosse l’unica “occasione” offerta al condannato per far sentire la propria voce e formulare le proprie richieste in ordine alle misure da applicare; conclusione, questa, non soltanto non legittimata dal dato normativo, ma neppure prospettata dagli stessi giudici a quibus. Vale la pena di sottolineare, a tal proposito, che la Corte di cassazione ha recentemente avuto modo di puntualizzare che il tribunale di sorveglianza può provvedere de plano e senza garanzia di contraddittorio solo nella eventualità in cui ritenga di poter applicare la detenzione domiciliare, giacché, in caso contrario, deve essere seguita la procedura in contraddittorio prevista in via ordinaria dagli artt. 678, comma 1, e 666 cod. proc. pen. (Cass., Sez. I, 15 aprile 1999, n. 3005). E’ evidente, quindi, che il condannato al quale viene de plano applicata la misura della detenzione domiciliare non può ritenersi privato del diritto di richiedere in via ordinaria tutte le misure alternative cui ritenga di aver titolo, sicché la disposizione di cui si discute finisce per atteggiarsi come provvedimento d’urgenza e a connotazioni eminentemente interinali, in vista dell’ordinario procedimento di sorveglianza ove il condannato non ritenga di “accettare” la misura applicatagli. Al tempo stesso, ed a conferma del carattere non preclusivo del regime qui in esame, sta il rilievo che nessun dato testuale o di sistema consente di ravvisare elementi di incompatibilità tra la disciplina oggetto di impugnativa e quella dettata dal parimenti novellato art. 47, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario: disposizione, quest’ultima, in base alla quale è stabilito che se l’istanza di affidamento in prova al servizio sociale è proposta dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena, in presenza di determinate condizioni è consentito al magistrato di sorveglianza di sospendere l’esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato.
Se la finalità della norma censurata è stata quindi quella di impedire che il condannato agli arresti domiciliari potesse far ingresso in carcere all’atto dell’esecuzione della condanna prima di poter accedere alla misura alternativa più simile a quella cautelare, se ne deve concludere che tale obiettivo – in sé volto ad impedire un grave danno per il condannato – pur potendo essere realizzato attraverso una articolazione normativa tecnicamente diversa da quella prescelta, non può certo ritenersi lesivo di valori costituzionali, specie se si considera che la stessa legge n. 165 del 1998, all’art. 4, ha profondamente mutato la configurazione della detenzione domiciliare, posto che le relative connotazioni consentono ora effettivamente di tracciare un qualche parallelismo con la misura degli arresti domiciliari, in termini senz’altro meno labili rispetto al passato.
3. – Quanto, poi, alla violazione dell’art. 27 della Costituzione, è agevole osservare che la misura della detenzione domiciliare applicata de plano e “d’ufficio” a chi si trovi agli arresti domiciliari all’atto della condanna e nelle condizioni per fruire della indicata misura alternativa, non determina alcun tipo di interferenza sulla funzione rieducativa della pena, giacché si anticipa – evitando i naturali allungamenti dei tempi che sarebbero cagionati da una procedura camerale partecipata – ciò al quale il condannato avrebbe diritto come misura “minima” applicabile. Va osservato a questo riguardo che la misura della detenzione domiciliare, come si è accennato ora mutata nella propria struttura ad opera della stessa legge n. 165 del 1998, non è più caratterizzata da quella eminente finalità umanitaria ed assistenziale che prima la contraddistingueva (v. sentenze n. 173 del 1997 e n. 165 del 1996), ma ha assunto aspetti sicuramente più vicini alla ordinaria finalità rieducativa e di reinserimento sociale. La circostanza, infatti, che la misura in questione non sia più limitata ai “soggetti deboli”, prima previsti come destinatari esclusivi della misura stessa dall’art. 47-ter dell’Ordinamento penitenziario, ma sia applicabile in tutti i casi di condanna a pena non superiore a due anni (anche se residuo di maggior pena) purché la misura sia idonea ad evitare il pericolo di recidiva, sta a dimostrare che in queste ultime ipotesi la pena o il residuo di pena detentiva breve legittimano l’applicazione della misura in quanto volta ad assecondare il passaggio graduale allo stato di libertà pieno mediante un istituto che sviluppa la ripresa dei rapporti familiari ed intersoggettivi, senza incidere negativamente sulle eventuali opportunità di lavoro. In questa prospettiva è evidente che la detenzione domiciliare “d’ufficio” al condannato che ne abbia titolo e che si trovi in una condizione limitativa della libertà assai simile a quella misura, appare essere previsione non soltanto non in contrasto, ma addirittura in linea con il parametro costituzionale che si pretende esser stato compromesso.
4. – Per quanto infine concerne la prospettata violazione dell’art. 3 della Costituzione, è agevole rilevare che la questione, nei termini in cui è sviluppata, è palesemente priva di fondamento, in quanto i giudici a quibus contraddittoriamente finiscono per porre a raffronto fra loro due situazioni eterogenee, quali sono quella dell’imputato in stato di libertà rispetto a quella in cui versa chi si trova agli arresti domiciliari al momento della condanna: a ciò va aggiunto, sotto altro profilo, che il ragionamento svolto dai giudici rimettenti non tiene in alcuna considerazione la circostanza che il condannato al quale è applicata la misura della detenzione domiciliare è sempre in condizione di chiedere qualsiasi altra misura alternativa, sicché la pretesa disparità finisce per risultare, anche per questo aspetto, soltanto apparente.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 10, del codice di procedura penale, come sostituito ad opera dell’art. 1 della legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), sollevata, in riferimento agli artt. 24, 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Napoli e dal Tribunale di sorveglianza di Palermo con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 ottobre 1999.
Renato GRANATA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 4 novembre 1999.