SENTENZA N. 165
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Dott. Giuliano VASSALLI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1, numero 3, e comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa il 16 maggio 1995 dal Tribunale di sorveglianza presso la Corte d'Appello di Trieste nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Brunetti Luigi, iscritta al n. 480 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 1995.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 marzo 1996 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1.-- Nel corso di un procedimento di sorveglianza in cui un condannato alla pena di anni 12 e mesi 4 di reclusione, quasi ottantenne, chiedeva il differimento dell'esecuzione della pena ai sensi dell'art. 147 del codice penale (per grave infermità fisica), e in subordine la concessione della detenzione domiciliare (in quanto persona ultrasessantenne parzialmente inabile), ai sensi dell'art. 47-ter, comma 1, numero 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), il Tribunale di sorveglianza presso la Corte di appello di Trieste, con ordinanza del 16 maggio 1995, pervenuta a questa Corte il 13 luglio 1995, dopo aver respinto la domanda di differimento dell'esecuzione della pena, avendo ritenuto escluse la gravità delle condizioni fisiche del condannato e l'incompatibilità delle stesse con la detenzione, e dopo avere escluso parimenti l'applicabilità dell'ipotesi di concessione della detenzione domiciliare prevista dall'art. 47-ter, comma 1, numero 2, della stessa legge n. 354 del 1975 (persona in condizioni di salute particolarmente gravi che richiedono costanti contatti con i presidî sanitari territoriali), ha ritenuto invece integrata la fattispecie prevista dal citato numero 3 del comma 1, art. 47-ter, per l'età e la parziale invalidità del condannato.
Constatato peraltro che detto art. 47-ter limita la possibilità di concedere il beneficio della detenzione domiciliare alle ipotesi in cui la reclusione da scontare, anche se costituente residuo di maggior pena, non supera i tre anni -- limite nella specie largamente superato --, il Tribunale di sorveglianza, su istanza di parte, ha rimesso a questa Corte questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 47-ter, comma 1, numero 3, e comma 7, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (articolo aggiunto dall'art. 13 della legge 10 ottobre 1986, n. 663), "nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare per il condannato di età superiore a sessanta anni se inabile, anche parzialmente, qualora la pena residua che il medesimo deve espiare superi i tre anni".
Ad avviso del giudice remittente la concessione della detenzione domiciliare consentirebbe nel caso concreto il contemporaneo rispetto del principio di certezza dell'esecuzione della pena e di quelli di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, di tutela della salute, della funzione rieducativa della pena e del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, mentre l'esecuzione della pena in carcere comprimerebbe il diritto alla salute del condannato e si porrebbe in netto contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione.
La ratio del comma 1, numero 3, dell'art.47-ter consisterebbe nella opportunità di evitare la detenzione in carcere per soggetti ormai anziani ed inabili, la cui pericolosità sociale sarebbe del tutto contenibile mediante le prescrizioni che accompagnano la detenzione domiciliare. Il limite dei tre anni di pena sarebbe, secondo il giudice remittente, incongruo in relazione a tale ratio: non sarebbe ragionevole prevedere la concessione della detenzione domiciliare a soggetti ultrasessantenni inabili che debbano scontare una pena residua inferiore a tre anni, e non a un ottantenne inabile che debba scontare una pena maggiore. Tale esclusione comporterebbe una violazione dell'art. 3 della Costituzione per il trattamento diverso attribuito a situazioni che, sotto il profilo della pericolosità sociale, dell'età avanzata e delle patologie presentate, dovrebbero essere meritevoli di identica tutela. Il limite dei tre anni di pena apparirebbe inoltre irragionevole e inadeguato poiché la legge prevede la revoca della detenzione domiciliare, oltre che in caso di violazione dei relativi obblighi, quando vengano a cessare le condizioni previste.
Il giudice remittente ritiene dunque indispensabile l'intervento della Corte costituzionale "per ristabilire, se del caso, l'equilibrio del sistema normativo ed eliminare una disparità di trattamento di situazioni simili e quindi una irragionevole discriminazione", non sembrandogli ostativo il limite della discrezionalità del legislatore.
Infine il giudice ritiene che nella specie sarebbe evidente la violazione del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, e cioè di afflizioni eccessive e non strettamente connesse alla privazione della libertà personale durante l'esecuzione della pena, la quale perderebbe così anche la sua funzione di rieducazione e potrebbe facilmente comportare, nella specie, l'aggravamento delle condizioni psichiche del condannato e quindi il suo ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario.
2.-- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la Corte dichiari non fondata la questione.
L'interveniente -- premesso che il riferimento dell'ordinanza al comma 7 dell'art. 47-ter appare frutto di un errore materiale -- afferma che nella specie non possono considerarsi uguali o omogenee le situazioni raffrontate, in quanto la differenza starebbe nella quantità di pena da scontare, elemento per nulla trascurabile; e pertanto non sarebbe violato il principio di uguaglianza né il criterio di ragionevolezza.
Nemmeno potrebbe ravvisarsi la violazione dell'art. 27 della Costituzione, in quanto la scelta operata dalla norma in ordine al limite di pena rientrerebbe pienamente nella discrezionalità del legislatore trattandosi di decisione di natura squisitamente politica, così come il divieto di concessione di altre misure alternative alla detenzione per i condannati che abbiano commesso determinati delitti, divieto ritenuto non contrastante con la Costituzione dalla sentenza n. 107 del 1980 di questa Corte.
Considerato in diritto
1.-- La questione sollevata investe il solo numero 3 del comma 1 dell'art. 47-ter dell'ordinamento penitenziario, relativo al caso del condannato ultrasessantenne inabile anche parzialmente, ancorché il limite dei tre anni di reclusione da scontare sia previsto in via generale dalla norma come condizione per la concessione del beneficio della detenzione domiciliare in tutte le ipotesi in essa previste; ed è sollevata esclusivamente con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, benché la motivazione dell'ordinanza faccia più volte riferimento anche alle esigenze di tutela del diritto alla salute del condannato, e ancorché l'instante avesse eccepito anche la violazione dell'art. 32 della Costituzione. L'estensione, poi, della censura al comma 7 dello stesso art. 47-ter -- ai cui sensi la detenzione domiciliare deve essere revocata "quando vengono a cessare le condizioni previste nel comma 1" -- non modifica sostanzialmente la portata della questione come individuata dal remittente: dalla previsione di detto comma 7, infatti, il giudice a quo si limita a trarre argomento per motivare la censura mossa alla disposizione di cui al comma 1.
Il dubbio di costituzionalità sollevato riguarda dunque solo la pretesa irragionevolezza -- nel caso di condannato ultrasessantenne invalido -- del limite massimo di entità della pena da scontare, stabilito dalla norma ai fini della possibilità di concedere la detenzione domiciliare, limite la cui operatività darebbe altresì luogo all'imposizione di un trattamento, quello carcerario, contrario in concreto al senso di umanità e contrastante con la funzione rieducativa della pena, violando così anche l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
2.-- La questione, circoscritta nei termini indicati, è infondata.
La detenzione domiciliare, com'è noto, è istituto nuovo (a parte limitati precedenti rinvenibili nel codice penale del 1889 e ancor prima in alcuni codici preunitari) introdotto nell'ordinamento penitenziario con la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (che ha aggiunto, fra l'altro, l'art.47-ter alla legge 26 luglio 1975, n. 354), e successivamente esteso -- quanto a condizioni di applicabilità -- dall'art. 3 del decreto-legge 14 luglio 1993, n. 187, convertito dalla legge 12 agosto 1993, n. 269.
All'istituto in questione viene attribuita una finalità essenzialmente umanitaria ed assistenziale, pur nella varietà delle ipotesi previste, che vanno da quella della donna incinta o con prole convivente di età inferiore a cinque anni, a quelle della persona in condizioni di salute particolarmente gravi o ultrasessantenne inabile anche parzialmente, a quella del minore di ventuno anni che abbia comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro o di famiglia (numeri da 1 a 4 dell'art. 47, comma 3, della legge n. 354 del 1975).
Inserita dal legislatore fra le misure alternative alla detenzione di cui al titolo I, capo VI, dell'ordinamento penitenziario, la detenzione domiciliare tende in sostanza a permettere, in considerazione di talune condizioni soggettive del condannato, una modalità meno afflittiva di esecuzione della pena, senza particolari finalità rieducative che non siano quelle collegabili all'esclusione del regime carcerario (essa non presuppone infatti, a differenza di altre vere e proprie misure alternative alla detenzione come l'affidamento al servizio sociale o la semilibertà, l'osservazione della personalità del condannato, e comporta l'esclusione di ogni "trattamento" penitenziario, benché non l'assenza di interventi del servizio sociale: cfr. art. 47-ter, commi 4 e 5), e non senza un generico fine di deflazione della popolazione carceraria.
In ogni caso, non diversamente dalle altre misure alternative, la detenzione domiciliare è collegata dalla legge a condizioni obiettive attinenti all'entità della pena da scontare.
Come l'affidamento in prova al servizio sociale di cui all'art. 47, o quello previsto in casi particolari dall'art. 47-bis, la detenzione domiciliare può essere concessa solo se la pena da scontare, anche come residuo di maggior pena, non supera i tre anni se si tratta di reclusione (nessun limite invece è previsto in caso di condanna all'arresto, che però conosce per sua natura analoga limitazione temporale: cfr. art. 25 cod. pen.); mentre a sua volta la concessione della semilibertà è condizionata o alla specie e all'entità della pena da espiare, o, in alternativa, alla previa espiazione di una parte della pena detentiva (art. 50, commi 1 e 2, ord. penit.). Il legislatore ha poi introdotto ulteriori condizioni attinenti ai reati cui la condanna si riferisce e all'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata od eversiva (art. 4-bis, nonché art. 58-quater, commi 1 e 4), e divieti temporanei di concessione del beneficio in relazione ad ulteriori comportamenti illeciti del condannato (art. 58-quater, commi 2, 3, 5 e seguenti), utilizzando altresì l'istituto -- come in generale le misure alternative alla detenzione -- anche in funzione premiale o di protezione dei condannati: così escludendo l'applicazione di talune limitazioni nel caso di detenuti che collaborano con la giustizia (art. 4-bis, comma 1), o consentendo la concessione del beneficio, anche in deroga ai limiti di pena generalmente stabiliti, nel caso di persone ammesse allo speciale programma di protezione previsto per coloro che collaborano con la giustizia (cfr. art. 13-ter d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, aggiunto dall'art. 13 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356).
Come tutte le misure alternative alla detenzione, quella in esame costituisce del resto una eccezione -- prevista dal legislatore con riguardo a determinate ipotesi e in presenza dei correlativi presupposti -- al normale regime carcerario cui dà luogo l'esecuzione della pena detentiva.
Il limite di pena da scontare di cui si duole il giudice remittente corrisponde dunque ad una scelta fondamentale, ancorché naturalmente opinabile, che il legislatore ha compiuto nel disciplinare tali misure, e che non può dirsi in sé e in generale irragionevole, in relazione alla molteplicità degli scopi perseguiti e al bilanciamento operato fra le istanze di attenuazione del rigore della pena detentiva e le esigenze di dissuasione, prevenzione e difesa sociale, in ordine alle quali la natura e la gravità del reato e la correlata entità della pena inflitta possono indubbiamente assumere rilievo: come questa Corte ha ritenuto quando ha rigettato la censura di costituzionalità mossa a norme che escludevano, nel caso di condanne per determinati delitti, la concessione delle misure dell'affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà (sentenza n. 107 del 1980).
Le condizioni soggettive contemplate dal comma 1 dell'art. 47-ter non sono assunte dal legislatore quali presupposti di una incompatibilità assoluta con il regime della detenzione in carcere, nel qual caso potrebbe effettivamente apparire illogica la limitazione in ordine all'entità della pena, ma solo come condizioni legittimanti la concessione di un regime attenuato di espiazione che viene di per sé riservato, secondo una scelta non irragionevole, ai condannati a pene brevi o che debbano scontare solo la parte terminale di una pena più lunga.
Per le medesime ragioni, non può ritenersi sussistente una ingiustificata disuguaglianza di trattamento, posto che l'entità della pena da scontare costituisce un elemento obiettivo di differenziazione delle situazioni che di per sé può giustificare il diverso regime apprestato dalla norma.
3.-- Nemmeno varrebbe, ai fini di sostenere l'irragionevolezza della norma denunciata, invocare il confronto con altre norme penalistiche che collegano all'età avanzata del soggetto talune condizioni di favore, come quella che amplia la possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena per i rei ultrasettantenni (art. 163, terzo comma, cod. pen.), o come quella che esclude la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, nei confronti di un imputato che ha oltrepassato l'età di settanta anni (art. 275, comma 4, cod. proc. pen.).
Quanto alla prima norma, basterà rilevare che essa si limita ad elevare di sei mesi, per i reati compiuti da persona ultrasettantenne, il limite di pena che consente la concessione della sospensione condizionale, senza però far venir meno tale limite.
Quanto poi alla seconda delle norme ricordate, deve osservarsi che, benché la detenzione domiciliare sia stata vista dallo stesso legislatore in qualche modo come una sorta di estensione alla fase di esecuzione della pena dell'istituto, precedentemente introdotto, degli arresti domiciliari, si tratta di misure profondamente diverse tra loro, ancorché accomunate da una generica finalità di tipo umanitario in rapporto, rispettivamente, all'esecuzione della pena detentiva e alla custodia cautelare in carcere. Infatti gli arresti domiciliari sono una misura cautelare, che interviene per specifiche esigenze prima della condanna definitiva, in deroga al principio preminente della libertà personale. E' logico dunque che in questa fase il principio guida sia quello dell'applicazione della misura meno afflittiva possibile tra quelle previste dalla legge; e in questa prospettiva si giustifica anche l'eccezionalità della custodia cautelare in carcere per persone, come gli ultrasettantenni, per i quali l'afflittività del regime carcerario può essere in linea di principio maggiore. Viceversa la detenzione domiciliare configura una modalità attenuata di esecuzione di una condanna già divenuta definitiva, e dunque essa stessa costituisce una eccezione rispetto al principio di indefettibile esecuzione della pena come prevista dalle norme generali: onde deve riconoscersi una ampia discrezionalità al legislatore nel definirne i presupposti.
4.-- Non può dirsi violato nemmeno il divieto, sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, di trattamenti contrari al senso di umanità.
Questo principio di civiltà deve certamente improntare di sé la disciplina delle pene e della loro esecuzione, e dunque informare tutta l'organizzazione carceraria e l'applicazione delle norme ad essa relative, come è ribadito, in esplicito richiamo al dettato costituzionale, dall'art. 1, comma 1, dell'ordinamento penitenziario, secondo cui "il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona".
Ma perché la stessa restrizione in carcere possa ritenersi contraria al senso di umanità deve verificarsi una situazione di vera e propria incompatibilità tra regime carcerario, comunque disciplinato, e condizioni soggettive del condannato. Ad escludere il regime carcerario nelle situazioni in cui esso risulterebbe di per sé, per rigore e afflittività, in contrasto con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità o tale da compromettere diritti fondamentali della persona, come il diritto alla salute, sono intese altre norme dell'ordinamento penitenziario e del codice penale, che logicamente prescindono, ai fini della loro applicazione, da qualsiasi presupposto attinente all'entità della pena detentiva da scontare.
In particolare, per quanto attiene al diritto alla salute (non esplicitamente invocato nell'ordinanza di rimessione, ma al quale le argomentazioni del giudice remittente fanno pure riferimento), l'art. 11 dell'ordi- namento penitenziario prevede che, ove siano necessarie cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati sono trasferiti in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura. A sua volta l'art. 147, comma 1, numero 2, del codice penale prevede che l'esecuzione della pena -- di qualunque entità -- possa essere differita se deve avere luogo nei confronti di chi si trova in condizioni di grave infermità fisica.
La detenzione domiciliare non si configura invece, nel vigente ordinamento, secondo quanto si è detto, come istituto inteso a far fronte alle ipotesi di assoluta incompatibilità delle condizioni soggettive del condannato col regime carcerario, bensì come modalità di attenuazione del regime di esecuzione della pena, utilizzabile in presenza di presupposti oggettivi (di entità della pena) e soggettivi definiti dalla legge: ancorché i presupposti di taluna delle ipotesi prese in considerazione a tale fine possano di fatto parzialmente coincidere con quelli che -- in base a diverse norme -- danno luogo all'applicazione di altre misure di esclusione del regime carcerario (come lo stato di gravidanza della donna condannata, o la grave infermità fisica: cfr. da un lato l'art. 47-ter, comma 1, numeri 1 e 2, dell'ordinamento penitenziario, dall'altro, rispettivamente, l'art. 146, primo comma, numero 1, e l'art. 147, primo comma, numero 2, cod. pen.).
Peraltro, a questo riguardo, può osservarsi che il giudice remittente, nel caso a lui sottoposto, ha escluso che ricorressero le condizioni di grave infermità fisica del condannato che possono dare luogo al rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena ai sensi del citato art. 147, primo comma, numero 2, del codice penale, respingendo la domanda del condannato in tal senso; ha negato anche che sussistessero le "condizioni di salute particolarmente gravi che richiedono costanti contatti con i presidî sanitari territoriali", le quali, ai sensi dell'art. 47-ter, comma 1, numero 2, dell'ordinamento penitenziario, consentono (sempre nell'ambito del limite di pena stabilito in via generale) la concessione della detenzione domiciliare; e ha escluso la incompatibilità attuale delle condizioni fisiche del condannato con la detenzione.
5.-- In definitiva, il dubbio di costituzionalità sollevato dal giudice a quo potrebbe apparire fondato solo se si assumesse che l'età avanzata, accompagnata da uno stato di inabilità anche parziale -- e fuori dai casi di infermità fisiche particolarmente gravi, contemplati dalla diversa norma, non censurata in questa sede, di cui all'art. 47-ter, comma 1, numero 2 --, rappresenti di per sé una condizione incompatibile con il regime carcerario, tale da dover condurre all'esclusione di quest'ultimo a prescindere dall'entità della pena da scontare: il che non può ragionevolmente affermarsi. In assenza di siffatta condizione di incompatibilità, l'eventuale esclusione del carcere, attraverso l'ammissione al regime attenuato di espiazione della pena consistente nella detenzione domiciliare, non può che restare rimessa alle scelte discrezionali non irragionevoli del legislatore: il quale ben potrà (così come ha già esteso i presupposti dell'istituto quando ha portato, con l'art. 3 del d.l. 14 giugno 1993, n. 187, da due a tre anni il limite di pena, e da sessantacinque a sessant'anni l'età minima per l'applicazione del disposto di cui al numero 3 dell'art. 47-ter, comma 1, ord. penit.) valutare se estendere ulteriormente l'operatività di tali norme, sulla base del bilanciamento, ad esso spettante, tra le istanze di attenuazione del regime detentivo in vista delle condizioni soggettive del condannato e le esigenze di prevenzione e di difesa sociale, nonché di attuazione della finalità risocializzante della pena.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1, numero 3, e comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza presso la Corte di appello di Trieste con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 maggio 1996.
Mauro FERRI, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in cancelleria il 24 maggio 1996.