ORDINANZA N. 353
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 538 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 3 agosto 1998 (n. 4 ordinanze), il 26 gennaio 1998, l’11 dicembre 1997 ed il 15 dicembre 1998 dal Pretore di Brescia, rispettivamente iscritte ai nn. 750, 751, 764, 765, 776 e 777 del registro ordinanze 1998 ed al n. 218 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 43, prima serie speciale, dell’anno 1998 e n. 16, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 giugno il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto che il Pretore di Brescia, dopo aver dichiarato chiuso il dibattimento, rilevato che la prova, ai fini dell’accoglimento "della domanda civile", é rappresentata esclusivamente dalle dichiarazioni della persona danneggiata dal reato costituita parte civile, ha, con ordinanza dell’11 dicembre 1997 (R.O. n. 777 del 1998 pervenuta alla Corte costituzionale il 7 ottobre 1998), denunciato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, l’art. 538 del codice di procedura penale, il quale prescrive che, accertata la responsabilità penale dell’imputato, il giudice penale, in presenza dell’azione civile esercitata nel processo penale, deve statuire positivamente sulle domande civili, quali che siano i mezzi di prova su cui la responsabilità penale é fondata e che "automaticamente" consentono l’accoglimento della pretesa civile, censurando, altresì, con riferimento ai medesimi parametri costituzionali – ma senza riprodurre la denuncia nel dispositivo – l’art. 651 dello stesso codice, che attribuisce efficacia di cosa giudicata alla sentenza penale di condanna nei giudizi civili relativamente all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità ed alla riferibilità al condannato anche quando tale sentenza sia fondata sull’unica prova costituita dalle dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile;
che, secondo il rimettente, quando "la giurisdizione venga esercitata su richiesta di parte e al fine di tutelare un diritto soggettivo", le parti devono trovarsi in posizione di assoluta parità soprattutto con riferimento al diritto alla prova; con la conseguenza, da un lato, che alle parti stesse devono essere attribuiti gli stessi poteri e, dall’altro lato, che alle loro dichiarazioni deve essere attribuito il medesimo valore probatorio, una regola vulnerata, appunto, dall’art. 538 del codice di proceduta penale, con conseguente lesione del diritto di difesa di una di esse, perchè viene a porre "l’attore-parte civile in posizione prevalente rispetto al convenuto attribuendo alle sue dichiarazioni, con riferimento all’accertamento della responsabilità civile, valore probatorio maggiore (essendo la sua una testimonianza) rispetto a quelle del convenuto-imputato (le cui dichiarazioni sono acquisibili solo mediante l’esame della parte)";
che, ancora, la testimonianza della parte civile sarebbe, ai fini del giudizio sulla domanda civile, "inammissibile e inutilizzabile", derivandone in caso contrario la compromissione dei parametri invocati, e senza che rilevino, in proposito, le decisioni di questa Corte che hanno ritenuto legittimo il regime della testimonianza della parte civile, venendo qui in considerazione non gli effetti penali ma gli effetti civili della sentenza penale;
che, d’altro canto, che il regime, così come strutturato, produca conseguenze lesive del principio di eguaglianza emerge univocamente solo dal rilievo che la diversità di disciplina quanto alla valenza da attribuire alle dichiarazioni della parte civile si fonda esclusivamente sulla forma processuale (processo civile o processo penale) demandata alla libera scelta della stessa parte civile, in grado così di produrre, quanto agli interessi civili, conseguenze in peius nei confronti dell’imputato;
che il raffronto allo scopo di verificare la compromissione, da parte delle norme denunciate, dei parametri costituzionali invocati, andrebbe effettuato con quei precetti del codice di procedura civile che (come l’art. 246, il quale sancisce l’incapacità a testimoniare delle persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio) assumono valore costituzionale "per la loro intrinseca connessione con la situazione tutelata e soprattutto in quanto trovano i loro referenti proprio" nell’art. 24 della Costituzione, tanto da profilarsi come espressione del "diritto processuale ‘comune’ delle posizioni soggettive tutelabili in sede civile";
che, in conclusione, i principi processuali dettati dal codice di procedura civile, principi che non introducono "limitazioni ma, stante la loro connotazione e i loro referenti costituzionali", sono necessari al fine di "garantire parità di trattamento a situazioni identiche (trattasi pur sempre di connotare le forme di tutela di un diritto soggettivo sia esso azionato in sede civilistica sia esso azionato in sede penale), nonchè, identità delle possibilità difensive dell’imputato-convenuto. Situazioni lese proprio dall’attuale disciplina";
che tutto ciò comporterebbe pure l’illegittimità costituzionale dell’art. 651 del codice di procedura penale "allorchè (peraltro reiterando il meccanismo delineato già dall’art. 538 CPP) attribuisca efficacia di cosa giudicata alla sentenza penale di condanna nei giudizi civili almeno per quanto afferisce all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità e alla sua riferibilità all’imputato", restando preclusa al giudice civile la possibilità di escludere l’efficacia della sentenza di condanna anche se essa si fondi esclusivamente sulle dichiarazioni della parte civile costituita, "chiaramente inammissibili e inutilizzabili nel giudizio civile";
che le medesime questioni lo stesso Pretore di Brescia ha sollevato, con altre sei ordinanze, tutte riproduttive della prima, pronunciate il 26 gennaio 1998 (R.O. n. 776 del 1998), il 3 agosto 1998 (quattro ordinanze, precisamente R.O. nn. 750, 751, 764 e 765 del 1998) ed il 15 dicembre 1998 (R.O. n. 218 del 1999);
che in quattro dei sei giudizi é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate;
che, secondo l’atto di intervento, l’inammissibilità deriverebbe dalla utilizzazione, ad opera del giudice a quo, di un modulo prestampato, senza motivare specificamente sul punto riguardante l’esistenza, quale unica prova a carico dell’imputato, delle dichiarazioni della parte civile, mentre la non fondatezza deriverebbe dall’erroneo presupposto interpretativo a base delle ordinanze di rimessione: il ritenere, cioé, inscindibile la decisione sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno rispetto a quella per la liquidazione del danno, senza considerare che se, alla stregua dell’art. 185 del codice penale, il giudice penale deve decidere sulla domanda civile, tale dovere riguarda soltanto l’ an, mentre sul quantum il giudice penale é tenuto a provvedervi solo quando ritiene che siano state acquisite le prove necessarie, altrimenti essendo tenuto a pronunciare soltanto una condanna generica.
Considerato che il giudice a quo solleva questioni assolutamente identiche e che i giudizi vanno, perciò, riuniti;
che le ordinanze di rimessione, redatte, oltre tutto, su moduli prestampati, senza differenziare le singole posizioni sottoposte al vaglio del rimettente, non consentono di individuare l’esistenza del necessario requisito della rilevanza, mancando ogni precisazione circa l’effettiva forza probatoria delle dichiarazioni della parte civile ai fini del riconoscimento della responsabilità degli imputati per il fatto o i fatti di reato a ciascuno di essi addebitati, fatti, peraltro, neppure di volta in volta specificati, per di più omettendosi di fare applicazione, sia pure ai soli fini di esprimere un giudizio in punto di rilevanza, dei criteri di valutazione della prova di cui all’art. 192, comma 1, del codice di procedura penale, e di indicare se – relativamente alla statuizione sulla domanda civile esercitata nel processo penale – la "funzione decisoria" di tali dichiarazioni concerna il solo an debeatur ovvero anche il quantum debeatur, relativamente al quale potrebbero risultare applicabili, gli artt. 116 e seguenti del codice di procedura civile, oltre che l’art. 246 dello stesso codice, direttamente chiamato in causa dal giudice a quo – insieme ad altre disposizioni del codice di rito civile - ma in una prospettiva per molti aspetti contraddittoria perchè funzionale a regole di valutazione – come l’inutilizzabilità – proprie del processo penale;
che, inoltre, risulta mancante il minimo cenno alle caratteristiche del danno (patrimoniale o non patrimoniale, ovvero l’uno e l’altro congiuntamente) oggetto della pretesa civile concretamente esercitata nel processo penale, tanto da indurre a dubitare che il rimettente abbia tenuto adeguatamente presenti, nonostante la precisa conformazione prescrittiva di entrambe le norme denunciate, le rispettive tipologie;
che non appare certo assolvere il dovere imposto dall’art. 23, secondo comma, prima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’affermazione che in ordine alla "rilevanza della questione é sufficiente rilevare che, nella specie, non solo la responsabilità penale si fonda sulle dichiarazioni della parte civile, ma anche la correlata responsabilità civile é fondata esclusivamente sulle suddette dichiarazioni", considerando che in ordine alla attendibilità di simili dichiarazioni nessun giudizio risulta formulato;
che, agli stessi fini, va rilevato che le ordinanze di rimessione si sottraggono ad ogni richiamo all’impossibilità di far ricorso - in una situazione in cui all’assenza di qualsivoglia riferimento all’imputazione fa da riscontro l’assoluto silenzio sul fatto concretamente sottoposto al giudizio del rimettente - all’esercizio dei poteri di acquisizione di ufficio dei mezzi di prova, a norma dell’art. 507 del codice di procedura penale;
che una tale carenza motivazionale, mentre non consente di ritenere che i giudizi a quibus possano essere definiti facendo necessariamente applicazione del disposto dell’art. 538 del codice di procedura penale, rende ambigua anche la richiesta rivolta a questa Corte, attestata, nel dispositivo, alla mera denuncia di illegittimità "dell’art. 538 c.p.p. ai sensi di cui in motivazione", così da eludere, pure sotto tale profilo, le regole in tema di rilevanza: sia per eccesso, coinvolgendosi la disposizione ora ricordata nel suo integrale contesto e senza alcuna indicazione circa il tipo di richiesta avanzata dalla parte civile e circa i soggetti nei cui confronti l’azione civile risulta esercitata in sede penale, sia per difetto – così confermando l’insanabile ambiguità del petitum - nessuna denuncia essendo stata proposta relativamente alla legittimità costituzionale dell’art. 539, comma 1, del codice di procedura penale, norma cruciale al fine di dissolvere le perplessità del rimettente in ordine alla legittimità dell’art. 538 dello stesso codice, per essere la liquidazione del danno, in caso di condanna generica, rimessa al giudice civile, secondo le regole proprie di tale processo;
che, infine, la denuncia dell’art. 651 del codice di procedura penale, che ha valenza comunque conseguenziale a quella avente ad oggetto la pronuncia del giudice penale sugli interessi civili (oltre a concernere una norma che potrebbe trovare applicazione esclusivamente nel giudizio civile; v., ex plurimis, sentenza n. 443 del 1990), non risulta neppure riprodotta nel dispositivo delle ordinanze di rimessione, tanto da rivelare come essa sia stata proposta subordinatamente all’accoglimento della prima questione; pur dovendosi rimarcare, a proposito di tale censura che, stando a talune argomentazioni delle ordinanze di rimessione, sembrerebbe contestato nel suo insieme il regime dei rapporti tra giudicato penale ed azione civile di danno da reato, il che accentua ulteriormente l’ambiguità del contenuto delle ordinanze;
che le questioni devono, conseguentemente, essere dichiarate manifestamente inammissibili.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 538 e 651 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Brescia, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1999.
Renato GRANATA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 22 luglio 1999.