Ordinanza n. 301/99

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ORDINANZA N. 301

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), promosso con ordinanza emessa il 14 luglio 1997 dal Tribunale di Messina nel procedimento civile vertente tra Sidoti Francesco e il Presidente del Consiglio dei ministri, iscritta al n. 104 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1998.

  Visti l'atto di costituzione di Sidoti Francesco, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell'udienza pubblica dell'8 giugno 1999 il Giudice relatore Cesare Ruperto;

  uditi l'avv. Giovanni Giacobbe per Sidoti Francesco e l'avvocato dello Stato Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

  Ritenuto che - nel corso della fase di delibazione dell’ammissibilità di una domanda proposta da un magistrato contro la Presidenza del Consiglio dei ministri per ottenere il risarcimento dei danni cagionatigli dall’adozione nei suoi confronti, da parte del GIP presso il Tribunale di Reggio Calabria, di un provvedimento di custodia cautelare, asseritamente illegittimo - il Tribunale di Messina, con ordinanza emessa il 14 luglio 1997, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), in cui si prevede, quale foro competente a conoscere delle relative controversie, il tribunale del luogo dove ha sede la corte d'appello del distretto più vicino a quello in cui é compreso l'ufficio giudiziario al quale apparteneva il magistrato al momento del fatto, salvo che il magistrato sia venuto ad esercitare le sue funzioni in uno degli uffici di tale distretto, essendo allora competente il tribunale del luogo ove ha sede la corte d'appello dell'altro distretto più vicino, diverso da quello in cui il magistrato esercitava le sue funzioni al momento del fatto;

  che, a giudizio del rimettente, dovendosi ravvisare la ratio di una tale deroga agli ordinari criteri di competenza territoriale nella necessità di evitare turbative alla serenità ed imparzialità del giudicante - riportabili al disagio di decidere nei confronti di un magistrato operante nello stesso ufficio o nello stesso distretto di appartenenza -, la denunciata norma si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede analogo e speculare spostamento della competenza territoriale quando l'attore sia a sua volta un magistrato che al momento del fatto (come nella fattispecie) svolgeva la sua attività nel distretto al quale appartiene l'ufficio giudiziario chiamato a decidere sulla sua domanda risarcitoria;

  che infatti, secondo il rimettente, il "magistrato-danneggiante" viene a trovarsi, rispetto al suo contraddittore, in una posizione deteriore, non mitigata dalla circostanza dell’essere l’azione formalmente esperita nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, essendo la relativa decisione comunque idonea ad incidere nei suoi confronti sia sotto il profilo economico sia sotto quello disciplinare, morale e professionale;

  che da ciò deriverebbe appunto la violazione del diritto di difesa e, insieme, del principio di uguaglianza per irragionevole disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente analoghe, violazione ascrivibile ad una mera dimenticanza del legislatore (non colmabile in via interpretativa, attesa la natura eccezionale della norma impugnata), come sarebbe reso evidente dalla comparazione della fattispecie in esame con quella dell'art. 11 cod. proc. pen., dove é previsto l'obbligatorio spostamento della competenza territoriale tanto nell'ipotesi in cui il magistrato sia soggetto passivo dell'azione penale quanto in quella in cui egli assuma la veste di parte lesa dal reato;

  che é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per la declaratoria di infondatezza della sollevata questione, trattandosi di materia la cui regolamentazione é affidata alla discrezionalità del legislatore, rispetto alla quale la inusualità e la marginalità del caso in esame non consentono di pervenire ad un giudizio di irragionevolezza della regolamentazione impugnata;

  che si é altresì costituito l’attore del giudizio a quo, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o, in subordine, di infondatezza della sollevata questione.

  Considerato che, nel prospettare la questione, il Tribunale non ha adeguatamente tenuto conto della peculiarità del giudizio a quo, vòlto all'accertamento dell’esistenza o non di un’obbligazione di danni a carico dello Stato, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, unica parte convenuta (in senso sostanziale e formale) nel giudizio stesso;

  che, proprio in ragione di tale peculiarità, é erroneo porre sullo stesso piano e tra loro rapportare la figura dell’attore e quella del magistrato al cui comportamento, atto o provvedimento, si faccia risalire l'asserita responsabilità dei richiesti danni; il quale magistrato, infatti, ai sensi dell'art. 6 della stessa legge n. 117 del 1998, ha la veste di soggetto processuale meramente eventuale e non autonomo: non potendo egli essere chiamato in causa, ma essendo soltanto legittimato a svolgere intervento adesivo dipendente ex art. 105, secondo comma, cod. proc. civ., (in mancanza di che - come risulta espressamente dal testo della citata norma - non fa stato nel giudizio di rivalsa contro di lui la pronuncia di condanna, la quale poi in nessun caso fa stato in sede disciplinare);

  che, non sussistendo dunque i presupposti per la comparabilità delle situazioni all’interno di codesto autonomo sistema processuale - la cui ratio si fonda, per precisa ed incensurabile scelta di politica legislativa, sull’esigenza di evitare un contenzioso diretto tra il danneggiato e l’organo giurisdizionale cui si faccia risalire l'asserita responsabilità civile -, non é ravvisabile il vulnus al principio di uguaglianza in correlazione al diritto di difesa, prospettato sotto lo specifico profilo di cui sopra;

  che sotto un più ampio profilo, poi, questa Corte ha già rilevato - successivamente alla pronuncia dell'ordinanza di rimessione - come appaia netta, con riguardo al bilanciamento degli opposti valori e interessi in materia, la differenza strutturale e funzionale tra processo civile e processo penale, per cui si deve escludere che la regola derogatoria della competenza di cui al richiamato art. 11 cod. proc. pen. sia da assumere necessariamente a criterio generale (ordinanza n. 462 del 1997); e come il solo legislatore possa, nell’esercizio del suo potere discrezionale, stabilire quando ricorra quell’identità di ratio che imponga l’estensione del criterio di cui a tale articolo, e quando invece ciò non avvenga affatto o la stessa finalità sia realizzabile attraverso la previsione di un foro derogatorio appropriato alla specifica materia (sentenza n. 51 del 1998). Considerazioni, queste, che valgono evidentemente anche a proposito della regola derogatoria di cui alla denunciata norma, giacchè la relazione tra la qualità dell’attore, di magistrato esercente le funzioni nel distretto, e l’ufficio giudiziario del distretto medesimo, chiamato a decidere sulla sua domanda, ricade allo stesso modo che con riguardo alle cause civili aventi qualunque altro oggetto, nella sfera di discrezionalità riservata al legislatore, il quale può ritenere sufficienti ad assicurare l'imparzialità del giudicante le norme sull’astensione e la ricusazione, ovvero scegliere di ampliare la portata della necessaria garanzia in materia con l’introduzione di ulteriori norme derogatorie;

  che costituisce appunto esercizio di detta discrezionalità il successivo intervento attuato con legge 2 dicembre 1998, n. 420, la quale - dettando nuove e diverse disposizioni in materia, peraltro non applicabili, ratione temporis, nel giudizio a quo -, non solo ha modificato gli artt. 4, comma 1, ed 8, comma 2, della legge n. 117 del 1988 e lo stesso art. 11 cod. proc. pen., ma ha anche inserito nel codice di procedura civile l’art. 30-bis, dove si prevede che tutte le cause in cui sono comunque parti i magistrati appartengono alla competenza del giudice, ugualmente competente per materia, determinato a’ sensi dell'art. 11 cod. proc. pen;

  che, pertanto, la sollevata questione é manifestamente infondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Cesare RUPERTO, Redattore

Depositata in cancelleria il 14 luglio 1999.