ORDINANZA N. 278
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come sostituito dall’art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promosso con ordinanza emessa il 22 aprile 1998 dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione prima di Napoli, iscritta al n. 131 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 maggio 1999 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 22 aprile 1998, pervenuta a questa Corte il 23 febbraio 1999, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione prima di Napoli, nel giudizio promosso per l’impugnazione del provvedimento di sospensione dall’impiego di un sottufficiale dell’Arma dei carabinieri, rinviato a giudizio, fra l’altro, per il reato di traffico di stupefacenti, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 27, 4, 35 (indicato erroneamente come 5 nel dispositivo) e 97 della Costituzione, dell’art. 1, comma 4-septies, della legge 18 gennaio 1992, n. 16 – recte: art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come sostituito dall’art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali) –, nella parte in cui prevede l’obbligatoria sospensione dal servizio del dipendente rinviato a giudizio per una delle ipotesi di reato di cui al comma 1, lettera a, dello stesso art. 15;
che il remittente lamenta che la norma denunciata non gradui e non renda in concreto possibile effettuare alcuna graduazione in ordine al concreto disvalore giuridico del fatto, ma operi automaticamente senza che sia possibile valutare la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione della norma stessa, la cui ratio starebbe nell’essere i reati in esame espressione sintomatica di una personalità che esclude l’ulteriore idoneità del soggetto all’esercizio del pubblico ufficio;
che, ad avviso del giudice a quo, tale automatismo sarebbe di per sè lesivo del principio costituzionale di eguaglianza, che richiede di differenziare la disciplina normativa di situazioni fra loro non assimilabili, facendo discendere la sospensione dal servizio da comportamenti di assai diversa gravità, con violazione dei criteri di coerenza e ragionevolezza, senza che sia possibile valutare, oltre alla gravità specifica dell’accusa, la rilevanza del fatto in rapporto all’attività svolta dal dipendente e il vantaggio che l’amministrazione potrebbe avere dal suo mantenimento in servizio;
che, inoltre, sarebbero lesi il diritto al lavoro garantito dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, e i criteri di buon andamento e di imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione, per la possibile sproporzione della misura - di durata indefinita ovvero con termine incertus quando - concretantesi in una notevole riduzione dei mezzi di sussistenza del dipendente;
che, secondo il remittente, gli obiettivi di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, del buon andamento e della trasparenza delle amministrazioni pubbliche non giustificherebbero una deroga ai principi, espressione essi stessi di quello del buon andamento dell’amministrazione, secondo cui la gravità del fatto non potrebbe desumersi dal solo titolo del reato, ed il venir meno della fiducia ai fini dell’esercizio delle funzioni non potrebbe essere dedotto dalla sola astratta natura degli illeciti contestati, senza alcun riferimento concreto alla vicenda;
che, sotto altro profilo, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale della norma impugnata là dove essa ricollega la sospensione al mero rinvio a giudizio, ciò che costituirebbe una violazione, non giustificata dalle esigenze di tutela dell’ordinamento, delle garanzie costituzionali, e in particolare della presunzione di non colpevolezza, che opererebbe non solo all’interno del processo penale, ma anche ad ogni altro effetto che presupponga logicamente la condanna;
che ancora, secondo il remittente, sarebbe invocabile la stessa ratio che ha condotto la Corte, nella sentenza n. 141 del 1996, a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma che disponeva la "incandidabilità" alle elezioni amministrative di coloro che fossero rinviati a giudizio per i reati in questione, in quanto il fondamento costituzionale del diritto al lavoro sarebbe altrettanto rilevante quanto quello del diritto di elettorato passivo;
che é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata o meglio manifestamente infondata.
Considerato che identica questione, sollevata con riferimento anche ai parametri oggi invocati, é stata dichiarata da questa Corte infondata nei sensi di cui in motivazione con la sentenza n. 206 del 1999;
che in tale pronuncia si é chiarito fra l’altro che non contrasta con le norme costituzionali indicate la previsione della misura in questione, avente carattere cautelare ed intesa a salvaguardare l’amministrazione dal rischio di inquinamento o di perdita di credibilità derivante dalla permanenza dell’impiegato nell’ufficio nonostante la pendenza di un’accusa per delitti di criminalità organizzata; e che peraltro la disciplina in esame, per non attribuirle un significato che comporterebbe una sproporzione fra l’interesse tutelato e il sacrificio dei diritti del singolo, va intesa nel senso che, da un lato, la sospensione deve obbligatoriamente essere revocata quando nei confronti dell’interessato sia emessa una pronuncia, anche non definitiva, di proscioglimento o di non doversi procedere (salvo un eventuale nuovo provvedimento di sospensione adottato discrezionalmente dall’amministrazione nel caso in cui ne ricorrano i presupposti); dall’altro lato, si applica alle ipotesi considerate l’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, in forza del quale la sospensione é revocata di diritto decorsi cinque anni senza che al rinvio a giudizio abbia fatto seguito la pronuncia di primo grado, mentre il sopravvenire di questa, se affermativa della responsabilità, comporta una nuova causa di sospensione ai sensi dell’art. 15, comma 4-septies, in relazione al comma 1, lettera a, della stessa legge n. 55 del 1990;
che l’odierna ordinanza non prospetta argomenti nuovi o comunque tali da indurre la Corte a modificare il proprio orientamento, onde la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall’art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 4, 24, 27, 35 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione prima di Napoli, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1999.
Renato GRANATA, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in cancelleria il 30 giugno 1999.