ORDINANZA N. 217
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 7 luglio 1998 dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Udine, iscritta al n. 635 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 maggio 1999 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Udine, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di emissione di decreto penale di condanna, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice, se ritiene necessarie ulteriori indagini a seguito della richiesta di decreto penale avanzata dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari, fissi un termine al pubblico ministero per il compimento delle stesse;
che a parere del giudice a quo il sistema delineato dal codice sarebbe irragionevole, in quanto, se la richiesta di decreto penale viene formulata dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari e se si appalesa, come nella specie, la necessità di svolgere ulteriori indagini, il giudice non può che respingere la richiesta e restituire gli atti al pubblico ministero; sicchè quest’ultimo, a sua volta, non potrà che o "formulare la richiesta di rinvio a giudizio" (con negative conseguenze sul piano della economia processuale) o chiedere l’archiviazione, la quale peraltro, in presenza di una situazione probatoria incompleta, darà necessariamente luogo ad una "decisione ex art. 409, comma 4, e 554 cod. proc.pen.";
che la lamentata omessa previsione, aggiunge il rimettente, determina pure una disparità di trattamento tra situazioni omogenee, in quanto il potere di indicare ulteriori indagini al pubblico ministero anche dopo la scadenza dei relativi termini é stato riconosciuto al giudice in sede di archiviazione e, quindi, "in una situazione processuale di analogo controllo giurisdizionale sull’attività del p.m., addirittura di incidenza meno immediata sulla sfera dei diritti di libertà del cittadino rispetto a quella in esame";
che violato sarebbe anche l’art. 24 della Costituzione, "in quanto dalla carenza dell’invocato strumento processuale non può che derivare una riduzione complessiva del sistema delle garanzie difensive che proprio l’introduzione del "filtro" giurisdizionale nell’ambito del procedimento per decreto (non previsto dal vecchio rito) voleva evitare";
che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata "inammissibile e comunque manifestamente infondata".
Considerato che il giudice a quo pone a fulcro delle proprie censure la prospettata analogia di situazioni che legherebbe fra loro l’ipotesi di specie – vale a dire la richiesta di decreto penale di condanna formulata dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari nel caso in cui il giudice ritenga necessario l’espletamento di ulteriori indagini – e quella delineata dall’art. 409, comma 4, cod.proc.pen., in tema di richiesta di archiviazione non accolta;
che le situazioni poste a raffronto si appalesano, invece, fra loro strutturalmente e funzionalmente eterogenee, considerato che, mentre la prima si iscrive nel panorama degli atti di esercizio della azione penale, la seconda presuppone, al contrario, l’opposta scelta del pubblico ministero di non coltivare alcuna domanda di giudizio;
che in tale differenziata ed anzi antitetica prospettiva si coglie anche la diversa funzione dell’intervento giurisdizionale, e, dunque, il diverso atteggiarsi dei relativi epiloghi decisori, giacchè, mentre la disamina che il giudice é chiamato a svolgere in presenza della richiesta di decreto penale di condanna é volta a verificare la sussistenza dei presupposti, in rito e nel merito, del procedimento speciale promosso dal pubblico ministero, e, quindi, a soddisfare specifiche ed intuibili esigenze di garanzia, il controllo in sede di archiviazione é mosso dal ben diverso intento di verificare la legittimità della "inazione", in stretta aderenza con il parametro offerto dall’art. 112 della Costituzione e dei connessi valori di legalità ed uguaglianza (v. sentenza n. 88 del 1991);
che per altro verso l’esigenza di ulteriori indagini, dopo il decorso dei relativi termini, si appalesa come evenienza ontologicamente in contrasto con la natura stessa del procedimento per decreto, giacchè il rito monitorio postula un quadro fattuale di agevole e pronto accertamento, come é anche testimoniato dalla circostanza che, nella originaria stesura, l’art. 459 cod. proc. pen. prevedeva che la richiesta del pubblico ministero dovesse essere formulata entro il breve termine di quattro mesi dalla data di iscrizione del nominativo dell’indagato nel registro delle notizie di reato: un termine, questo, che, anche se successivamente aumentato a sei mesi, é comunque in sè dimostrativo della incompatibilità del rito con la stessa ipotesi di proroga del termine per le indagini preliminari;
che nessuna irragionevolezza o disparità di trattamento può dunque ravvisarsi nel quadro normativo evocato dal rimettente, così come del tutto impropria si rivela la pretesa violazione dell’art. 24 della Costituzione, considerato che il diritto di difesa é integralmente salvaguardato in ciascuno dei successivi ed ipotetici sviluppi processuali cui la situazione denunciata può dar luogo;
che la questione proposta deve pertanto essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Udine con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 1999.
Renato GRANATA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 3 giugno 1999.