Sentenza n. 456/98

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SENTENZA N.456

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 52 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CEE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), promosso con ordinanza emessa il 16 dicembre 1997 dal Pretore di Roma, iscritta al n. 71 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 28 ottobre 1998 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza emessa il 16 dicembre 1997, pervenuta a questa Corte il 23 gennaio 1998, il Pretore di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 76 e 77 della Costituzione in relazione all’art. 2, comma 1, lettera d, della legge 22 febbraio 1994, n. 146 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 1993), dell’art. 52 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CEE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).

Il remittente espone che i reati contravvenzionali per cui procede – omessa o irregolare tenuta di registri di carico e scarico di rifiuti, e omessa comunicazione nei termini di legge alle autorità competenti della qualità e quantità di rifiuti prodotti o smaltiti – erano previsti come tali e sanzionati dall’art. 9-octies del d.l. n. 397 del 1988, convertito dalla legge n. 475 del 1988; e che é però sopravvenuto l’art. 52 del d.lgs. n. 22 del 1997, il quale ha invece configurato le medesime condotte quali illeciti amministrativi.

Tale depenalizzazione sarebbe, ad avviso del giudice a quo, in contrasto con gli artt. 76 e 77 della Costituzione in quanto non rispondente ai principi e criteri direttivi della delega, e precisamente al disposto dell’art. 2, comma 1, lettera d, della legge n. 146 del 1994, che stabilisce i criteri direttivi in tema di sanzioni per le violazioni delle norme dei decreti che il Governo era delegato ad adottare per l’attuazione delle direttive comunitarie di cui all’art. 1 e all’allegato A della medesima legge.

In particolare, mentre detto art. 2, lettera d, fa espressamente "salva l’applicazione delle norme penali vigenti" al momento dell’entrata in vigore della stessa legge, la norma denunciata avrebbe violato tale criterio prevedendo come semplici illeciti amministrativi condotte già penalmente sanzionate.

In secondo luogo, il remittente osserva che il medesimo art. 2, lettera d, stabilisce che le sanzioni penali, entro i limiti di specie e di entità indicati, saranno previste "solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi generali dell’ordinamento interno del tipo di quelli tutelati dagli artt. 34 e 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689". Ora, le violazioni delle norme in materia di tenuta e compilazione dei registri di carico e scarico dei rifiuti determinerebbero la lesione o almeno esporrebbero a pericolo l’interesse generale dell’ordinamento interno – ricompreso in quelli indicati nella legge di delega, attraverso il richiamo a soli fini esemplificativi agli artt. 34 e 35 della legge n. 689 del 1981 - alla tutela dell’ambiente inteso come bene unitario distinto dai singoli beni che lo compongono: infatti la ottemperanza ad obblighi, apparentemente solo formali, inerenti ai registri di carico e scarico dei rifiuti, si porrebbe come fondamentale presupposto nella prospettiva del controllo e della corretta gestione di sostanze che, se non adeguatamente classificate e trattate, possono cagionare seri danni ambientali.

Il giudice a quo osserva infine che la eventuale pronuncia di incostituzionalità della disposizione denunziata non si configurerebbe come una pronuncia additiva preclusa a questa Corte, ma determinerebbe solo la caducazione della norma in contrasto con la Costituzione, "con la conseguente reviviscenza del precetto previgente o comunque con il conseguente spianamento della strada al legislatore per riformulare il predetto precetto sulla base dei confini già delineati dal Parlamento nella legge delega".

2.- E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Secondo l’Avvocatura erariale, il recepimento delle direttive comunitarie in materia ha comportato una riscrittura dell’intero sistema di disciplina della materia dei rifiuti, donde l’abrogazione delle norme, anche penali, preesistenti. Sarebbe dunque venuta meno sul piano formale e su quello sostanziale la continuità delle fattispecie criminose, dando per scontata la quale il remittente ha ritenuto violati i principi e i criteri direttivi della delega. Ciò avrebbe dovuto essere chiarito già in sede di valutazione della rilevanza, ma diverrebbe profilo decisivo, secondo la giurisprudenza di questa Corte, anche in ordine alla fondatezza della questione prospettata.

Nel merito, la difesa del Presidente del Consiglio osserva che, accanto al principio generale della "salvezza" dell’applicazione delle norme penali vigenti, la stessa legge di delega impone la riconduzione del sistema al principio di adeguatezza e offensività: in relazione a fattispecie che si esaurirebbero nella violazione di un comando posto a tutela di una funzione amministrativa, dati i criteri e indirizzi stabiliti dal Parlamento, che consentono soluzioni alternative, il legislatore delegato godrebbe di una ragionevole discrezionalità, nell’ambito di una valutazione globale degli strumenti di tutela e garanzia utilizzabili. La sanzione amministrativa, secondo l’Avvocatura, sarebbe misura più efficace e tempestiva nei casi sottoposti al giudice a quo.

Per contro, l’accoglimento della questione, quand’anche fosse accertata la continuità ed omogeneità delle fattispecie disciplinate nel tempo da diverse disposizioni, porrebbe problemi di favor rei e di rispetto dell’art. 25 della Costituzione, che la ricostruzione del giudice remittente non sembrerebbe risolvere.

Considerato in diritto

1.- La questione sollevata riguarda l'art. 52 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CEE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), nel testo modificato dall'art. 7, commi 11, 12 e 13, del d.lgs. 8 novembre 1997, n. 389 (Modifiche ed integrazioni al d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, in materia di rifiuti, di rifiuti pericolosi, di imballaggi e di rifiuti di imballaggio), con il quale si comminano sanzioni amministrative per la violazione degli obblighi di comunicazione alle autorità competenti delle qualità e quantità di rifiuti prodotti ovvero fatti oggetto di determinate attività (comma 1), nonchè degli obblighi relativi alla tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti (comma 2). Poichè tali condotte erano in passato (e all'epoca in cui vennero commessi i fatti sottoposti a giudizio) punite penalmente, come contravvenzioni, in forza dell'art. 9-octies, comma 3, del d.l. n. 397 del 1988, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 475 del 1988, il giudice remittente dubita della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, che, operando una depenalizzazione delle condotte medesime, avrebbe violato i criteri e principi direttivi della delega sulla cui base é stato emanato il d.lgs. n. 22 del 1997, contenuti nell'art. 2, comma 1, lettera d, della legge n. 146 del 1994 (il termine originario della delega di cui all'art. 1, comma 1, della legge n. 146 del 1994 venne infatti sostituito dall'art. 6, comma 1, della legge n. 52 del 1996), e dunque si porrebbe in contrasto con l'art. 76 della Costituzione.

In particolare, la disposta depenalizzazione, con trasformazione delle preesistenti contravvenzioni in illeciti amministrativi, sarebbe in contrasto, da un lato, con il criterio della delega che imponeva di far "salva l'applicazione delle norme penali vigenti", fra le quali dovrebbe annoverarsi l'art. 9-octies del d.l. n. 397 del 1988; dall'altro, con il criterio secondo cui avrebbero dovuto essere assoggettate a sanzioni penali le infrazioni che "ledano o espongano a pericolo interessi generali dell'ordinamento interno del tipo di quelli tutelati dagli articoli 34 e 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689": fra tali interessi sarebbero da ricomprendere quelli di tutela dell'ambiente, a garanzia dei quali sarebbero dettati gli obblighi di comunicazione e di tenuta di registri in materia di rifiuti.

2.- La questione non é fondata.

L'art. 2 della legge n. 146 del 1994 enuncia dei criteri direttivi per l'attività delegata che hanno carattere generale, riferiti come sono alla globalità dei provvedimenti legislativi delegati che dovevano essere adottati dal Governo per dare attuazione alle numerose direttive comunitarie elencate nell'allegato A alla medesima legge (aggiungendosi, per singoli gruppi di direttive attinenti a singole materie, criteri più specifici dettati in altre disposizioni della stessa legge di delega, e così, per quanto riguarda la materia in questione, i criteri in tema di tutela dell'ambiente, di cui all'art. 36, e quelli in tema di rifiuti, di cui all'art. 38).

In particolare, la lettera d detta i criteri in ordine alle norme sanzionatorie che avrebbero acceduto alla disciplina sostanziale di attuazione delle diverse direttive, con formule di frequente impiegate dal legislatore delegante nelle leggi comunitarie annuali, e delle quali questa Corte ha peraltro già avuto occasione di sottolineare in senso critico la scarsa precisione (cfr. sentenza n. 53 del 1997).

In questo quadro, l'inciso "salva l'applicazione delle norme penali vigenti", con cui si apre la lettera in questione, non può intendersi nel senso che fosse precluso alla legislazione delegata di incidere nell'ambito penale, chè, anzi, espressamente si consente, "ove necessario per assicurare l'osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi", la previsione di sanzioni penali oltre che amministrative, entro definiti limiti qualitativi e quantitativi. Ma nemmeno può intendersi nel senso che tutte le volte che nella legislazione previgente fosse presente una norma contenente sanzioni penali questa fosse intangibile da parte del legislatore delegato, così che la delega, in campo penale, potesse essere utilizzata esclusivamente per introdurre nuove incriminazioni, nei limiti previsti dalla stessa lettera d in esame. Ciò sarebbe oltretutto incongruo, poichè la delega conferita per l'attuazione di numerose direttive comunitarie nei campi più diversi comportava necessariamente il potere-dovere del Governo di dettare discipline sostanziali suscettibili di integrarsi con la normativa preesistente nella materia, innovandola anche profondamente ove ciò fosse richiesto dalle esigenze di attuazione delle norme comunitarie, e quindi anche adattando le previsioni sanzionatorie alla nuova disciplina sostanziale.

La clausola in questione deve piuttosto interpretarsi, in senso più restrittivo, come intesa a precludere al Governo la possibilità di incidere, traendo per così dire occasione dalla nuova disciplina, di origine comunitaria, di determinate materie, sulla disciplina penale più generale, di fonte codicistica o comunque afferente ad ambiti e ad interessi che, per quanto implicati anche nella nuova normativa, in essa non si esauriscano. Ciò é confermato altresì dall'ultimo inciso della medesima lettera d, secondo cui il Governo aveva il potere di stabilire sanzioni penali o amministrative "in deroga ai limiti sopra indicati", cioé ai limiti stabiliti, quanto alle specie e all'entità massima delle sanzioni, nei periodi precedenti, quando ciò fosse necessario per disporre sanzioni "identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni" disciplinate dalla legislazione delegata: sanzioni dunque, queste ultime, previste dalla legislazione previgente riguardo ad oggetti diversi da quelli cui la delega si riferisce, e destinate a rimanere immutate appunto perchè estranee all'ambito della delega.

Nella specie, non preesisteva alcuna norma penale a carattere più generale, o parzialmente estranea all'oggetto della delega. Vi era solo la previsione incriminatrice dell'art. 9-octies, comma 3, del decreto legge n. 397 del 1988 - introdotta a presidio di nuovi obblighi (come quello di comunicazione della qualità e quantità di rifiuti prodotti o smaltiti, previsto dall'art. 3, comma 3, dello stesso decreto legge n. 397) ovvero precedentemente non muniti di sanzione (come quello di tenuta dei registri di carico e scarico, già previsto dall'art. 19 del d.P.R. n. 915 del 1982 ed esteso dall'art. 3, comma 5, del decreto legge n. 397 del 1988). Ma tale previsione accedeva alla disciplina sostanziale di una materia, quella dei rifiuti, pienamente rientrante nell'ambito della delega conferita al Governo con l'art. 1 della legge n. 146 del 1994, la quale si riferiva all'attuazione, fra l'altro, di due direttive comunitarie (n. 91/156/CEE sui rifiuti, e n. 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi) a loro volta intese a rivedere largamente l'intera disciplina della materia dei rifiuti contenuta nelle precedenti normative comunitarie, cui faceva riferimento la preesistente legislazione italiana. Onde la delega si estendeva in sostanza a tutto l'ambito investito da tale preesistente legislazione interna, come risulta anche dagli specifici criteri e principi direttivi, di ampia portata, stabiliti dall'art. 38 della legge n. 146. In particolare, investiva anche l'ambito coperto dalle norme del decreto legge n. 397 del 1988 (contenente "disposizioni urgenti in materia di smaltimento dei rifiuti industriali"), le cui disposizioni, non a caso, sono state espressamente abrogate, in quanto superate e sostituite dalla nuova disciplina del d.lgs. n. 22 del 1997, dall'art. 56 dello stesso decreto legislativo, con le uniche eccezioni di alcune disposizioni particolari (art. 7, sulla realizzazione di impianti di smaltimento di iniziativa pubblica; art. 9, sul personale del Ministero dell'ambiente; art. 9-quinquies, sulla raccolta e il riciclaggio delle batterie esauste), tra le quali non sono compresi nè l'art. 3, contenente la disciplina sostanziale degli obblighi di comunicazione e di tenuta di registri, nè l'art. 9-octies, che conteneva la norma penale sanzionante detti obblighi.

In effetti, con il d.lgs n. 22 del 1997 - sia nel suo testo originario, sia in quello successivamente modificato dal d.lgs. n. 389 del 1997 - la materia degli obblighi di comunicazione e dei registri di carico e scarico é stata fatta oggetto di una nuova disciplina, che riprende, nelle grandi linee, quella preesistente, ma la sostituisce interamente, non senza variazioni. Così, a proposito degli obblighi di comunicazione in vista della formazione del catasto dei rifiuti, la cui "riorganizzazione" é prevista dall'art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 22, e che viene esteso anche ai rifiuti urbani, é modificata l'indicazione dei soggetti tenuti (non più solo i produttori o i titolari di impianti di smaltimento di rifiuti industriali, ma i titolari a titolo professionale di attività di raccolta e trasporto o di operazioni di smaltimento e di recupero, le imprese e gli enti che producono rifiuti pericolosi o determinate categorie di rifiuti derivanti da lavorazioni industriali ed artigianali, con esenzione però dei piccoli imprenditori agricoli nonchè, limitatamente alla produzione di rifiuti non pericolosi, dei piccoli imprenditori artigiani con non più di tre dipendenti: art. 11, comma 3). La stessa ridefinizione dei soggetti riguarda la nuova disciplina dei registri di carico e scarico (art. 12), che é a sua volta collegata e armonizzata con quella del catasto dei rifiuti, e che sostituisce in toto, con diverse innovazioni e diffuse specificazioni, la preesistente disciplina dell'art. 19 del d.P.R. n. 915 del 1982 e dell'art. 3, comma 5, del d.l. n. 397 del 1988.

In presenza di una nuova compiuta disciplina dell'intera materia, non era precluso al legislatore delegato, nell'ambito dei criteri di cui all'art. 2, lettera d, della legge n. 146 del 1994, di rivedere anche l'impianto sanzionatorio che a tale disciplina accede: ciò cui ha appunto provveduto l'art. 52 del decreto legislativo in esame, stabilendo, in relazione alle violazioni degli obblighi come configurati dagli articoli 11 e 12 dello stesso decreto, sanzioni amministrative, variamente graduate, specie con le modifiche successivamente recate dal d.lgs. n. 389 del 1997, ma contenute in ogni caso entro i limiti di cui al predetto art. 2, lettera d, terza proposizione, della legge di delega.

Non può dirsi, dunque, violato il criterio della delega espresso nell'inciso iniziale dell'art. 2, lettera d, che fa "salva l'applicazione delle norme penali vigenti".

3.- Nemmeno é violato l'altro criterio della delega, consistente nella indicazione dei tipi di interessi la cui lesione, o esposizione a pericolo, giustifica la previsione di sanzioni penali anzichè amministrative.

In primo luogo, va osservato che tale indicazione si configura, nella legge di delega, come un limite alla facoltà del legislatore delegato di stabilire sanzioni penali, più che come una direttiva che lo vincolasse a prevedere siffatte sanzioni. Infatti il più volte citato art. 2, lettera d, seconda proposizione, stabilisce che le sanzioni penali "saranno previste … solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi generali del tipo di quelli tutelati dagli articoli 34 e 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689". L'intento legislativo di restringere l'impiego delle sanzioni penali allo stretto necessario risulta del resto dai lavori preparatori della legge di delega: nella relazione del Governo al disegno di legge si sottolineava come l'art. 2 contenesse fra l'altro "una migliore formulazione del criterio relativo alle sanzioni, aggiornato agli attuali orientamenti della politica sanzionatoria ispirata a un uso prudente e selettivo della sanzione penale" (Atti Senato, XI legislatura, disegni di legge e relazioni, n. 1381, pag. 4). Nè risulta che in sede di esame da parte delle commissioni parlamentari competenti dello schema di decreto legislativo ai fini del prescritto parere sia stato rilevato alcuno scostamento delle previsioni sanzionatorie del decreto rispetto ai criteri della delega: anzi, il relatore, il cui schema di parere fu approvato dalla commissione del Senato, osservò in argomento che "la risposta penale non é la più idonea a fare in modo che le leggi e le norme che regolano le attività di riciclo, recupero e smaltimento dei rifiuti siano rispettate: altri sono i mezzi con cui bisogna intervenire per la tutela del territorio, dell'ambiente e della salute pubblica" (cfr. Atti Senato, XIII commissione, seduta del 12 novembre 1996, pag. 92).

Il riferimento agli interessi generali "del tipo" di quelli che il legislatore della legge n. 689 del 1981 aveva individuato ai fini di escludere determinate categorie di reati dalla depenalizzazione non costituisce più che una indicazione abbastanza vaga, e nella specie poco significativa, tenendo conto che, fra quelle categorie di reati, taluna atteneva al campo ambientale (inquinamento delle acque e dell'aria), ma nessuna alla materia dei rifiuti e della loro gestione, all'epoca oggetto di una assai ridotta disciplina legislativa.

In questo contesto, non può negarsi che il legislatore delegato potesse scegliere, in base ad un apprezzamento largamente discrezionale, se ricorrere alle sanzioni penali o a quelle amministrative in relazione alle violazioni in oggetto, soprattutto tenendo conto del fatto che esse non concernono condotte direttamente pregiudizievoli per l'ambiente (come potrebbe essere lo scarico non consentito di sostanze inquinanti), ma condotte in contrasto con obblighi formali (di comunicazione o di tenuta di registri), sia pure strumentali, nel contesto legislativo, al miglior controllo sull'attività, potenzialmente pericolosa per l'ambiente, di produzione e di smaltimento di rifiuti. Tale strumentalità non basta per fare assimilare pienamente siffatte condotte a quelle direttamente lesive dell'ambiente; e dunque per rendere ingiustificata, in tale assetto normativo, la scelta della sanzione amministrativa, anzichè di quella penale.

Nè va trascurata la considerazione che la repressione penale non costituisce, di per sè, l'unico strumento di tutela di interessi come quello ambientale, ben potendo risultare altrettanto e perfino più efficaci altri strumenti, anche sanzionatori, specialmente quando si tratti di regolare e di controllare, più che condotte individuali - le uniche assoggettabili a pena, in forza del principio di personalità della responsabilità penale - attività d'impresa.

Anche sotto questo profilo, dunque, non sussiste la lamentata violazione, da parte del legislatore delegato, dei principi e criteri direttivi della delega.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 52 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CEE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, dal Pretore di Roma con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Valerio ONIDA

Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1998.