Sentenza n. 173/98

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SENTENZA N.173

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 14 giugno 1996, n. 22 (Modifiche alla legge regionale 7 settembre 1987, n. 30 ed ulteriori norme in materia di smaltimento dei rifiuti solidi e di attività estrattive), promosso con ordinanza emessa il 5 marzo 1997 dal g.i.p. presso la Pretura di Udine nel procedimento a carico di Giovanni Antonio Di Taranto, iscritta al n. 195 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visto l'atto di intervento della Regione Friuli-Venezia Giulia;

udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1998 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti.

Ritenuto in fatto

 

1. - Il Pubblico ministero, in data 25 febbraio 1997, chiedeva al Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Udine di disporre l’archiviazione dell’affare rubricato al nome del legale rappresentante di una società esercente l’industria di depurazione di acque reflue prodotte da terzi e classificate non tossiche nè nocive, sotto l’ipotesi di reato di cui all’art. 25, primo comma, del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, che sanziona con l’arresto e con l’ammenda coloro che effettuano lo smaltimento dei rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi ovvero installano o gestiscono impianti di innocuizzazione e di eliminazione dei rifiuti speciali senza l’autorizzazione di cui all’art. 6, lettera d), di detto decreto. Il magistrato requirente aveva acquisito dalla polizia giudiziaria la notizia che in data 19 febbraio 1996 l’Amministrazione provinciale aveva ritirato l’autorizzazione già concessa per la gestione dell’impianto di depurazione in questione.

Il ritiro dell’atto era stato motivato con la necessità di applicare le direttive contenute in una circolare del Presidente della Giunta regionale, che aveva escluso la necessità dell’autorizzazione de qua per il trattamento di reflui non tossici nè nocivi, sul rilievo che la fattispecie doveva ritenersi disciplinata dalla legge 10 maggio 1976, n. 319 (cd. "legge Merli") sulla tutela delle acque dall’inquinamento e dal relativo regime di autorizzazione. L’interpretazione offerta dalla circolare é stata successivamente recepita dall’art. 2 della legge regionale 14 giugno 1996, n. 22 (Modifiche alla legge regionale 7 settembre 1987, n. 30 ed ulteriori norme in materia di smaltimento dei rifiuti solidi e di attività estrattive). La norma ha, infatti, espressamente escluso che i titolari di impianti destinati alla depurazione di acque provenienti da terzi, purchè non tossiche nè nocive, debbano munirsi di specifica autorizzazione per lo smaltimento delle medesime.

2. - Il g.i.p. presso la Pretura di Udine, con ordinanza del 5 marzo 1997, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 14 giugno 1996, n. 22, in riferimento agli artt. 3, 9, secondo comma, 10, primo comma, 25, secondo comma, 32 e 116 della Costituzione.

Il giudice a quo ha dedotto che la norma denunziata si pone in contrasto con l’art. 25, secondo comma, della Costituzione, perchè incide sul monopolio statale della potestà punitiva penale e rende lecito un comportamento sanzionato nelle altre regioni; lede l’art. 116 della Costituzione, in quanto viola i principi fondamentali della legislazione statale in una materia in cui la Regione, in virtù dell’art. 6, numero 3, dello statuto di autonomia é titolare di potestà integrativo-attuativa; reca vulnus all’art. 3 della Costituzione, perchè determina una disparità di trattamento tra le attività di impresa svolte in Friuli-Venezia Giulia e quelle identiche esercitate fuori dei confini di tale regione; si pone in contrasto con l’art. 9, secondo comma, della Costituzione, perchè attenua la tutela del "paesaggio", nonchè con l’art. 32 della Costituzione, dato che non garantisce la salubrità ambientale la cui salvaguardia impone, invece, di mantenere il vincolo dell’autorizzazione per il tipo di industria in esame; viola, infine, l’art. 10, primo comma, della Costituzione, in quanto non ottempera al dovere del legislatore regionale di adeguare l’ordinamento alle norme comunitarie, le quali stabiliscono che deve essere rilasciata l’autorizzazione per ogni fase del ciclo di eliminazione dei rifiuti.

Il rimettente, a conforto delle censure, richiama l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, di recente consolidatosi nell’affermare, relativamente ai liquami non tossici nè nocivi, il carattere complementare delle normative concernenti il trattamento dei rifiuti e la tutela delle acque, in quanto riferibili - rispettivamente - a "qualsiasi fase di smaltimento dei rifiuti, anche liquidi" e alla "sola fase di immissione diretta delle acque di rifiuto nel corpo ricettore".

La questione, osserva il rimettente, é rilevante anzitutto perchè, qualora fosse accolta, l’archiviazione dovrebbe essere disposta non per infondatezza della notitia criminis, bensì per difetto dell’elemento soggettivo del reato; inoltre, perchè l’art. 25 del d.P.R. n. 915 del 1982, nonostante la sostituzione disposta con il d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, é applicabile in virtù dei principi sulla successione nel tempo delle leggi penali.

3. - La Regione Friuli-Venezia Giulia é intervenuta nel giudizio ed ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

L’interveniente premette d’essere titolare di potestà legislativa concorrente nella materia della "igiene e sanità", alla quale é riconducibile la disciplina dello smaltimento dei rifiuti. Deduce, quindi, che la necessità dell’autorizzazione in esame é stata esclusa, accogliendo le indicazioni offerte in tal senso da una pluralità di fonti. In particolare, dalle direttive contenute in una lettera circolare del Ministero dell’ambiente del 1989, nonchè da una serie di disposizioni statali di recepimento di direttive comunitarie, le quali individuano il regime autorizzatorio di alcuni particolari reflui sull’implicito presupposto che non c’é illimitata vis expansiva delle previsioni del d.P.R. n. 915 del 1982, ed infine dall’interpretazione offerta dalla giurisprudenza amministrativa. Pertanto, ha concluso l’interveniente, la scelta di assoggettare alla sola autorizzazione prevista dall’art. 21, primo comma, della legge n. 319 del 1976 ogni specie di smaltimento di sostanze reflue non tossiche nè nocive appare immune da censure.

Considerato in diritto

 

1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza in epigrafe riguarda l'art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 14 giugno 1996, n. 22, il quale, introducendo il comma 2-bis all'art. 2 della legge regionale 7 settembre 1987, n. 30, dispone che non sono ricompresi fra gli impianti di smaltimento "gli impianti di depurazione, di cui alla legge 10 maggio 1976 n. 319, ricadenti esclusivamente nella regolamentazione di quest'ultima, con l'eccezione di quelli che trattano reflui tossici e nocivi".

Tale norma, secondo l'ordinanza di rimessione, esenterebbe da autorizzazione ogni fase dello smaltimento, e cioé dal momento in cui il refluo perviene all'impianto fino al momento immediatamente precedente la sua eliminazione, violando così, sotto diversi profili, i precetti degli artt. 3, 9, secondo comma, 10, primo comma, 25, secondo comma, 32 e 116 della Costituzione. Il giudice a quo ritiene che la norma impugnata sia in contrasto con i principi fondamentali della normativa vigente in materia di smaltimento dei rifiuti, quale risulta in base al "diritto vivente" costituito dalle decisioni della Corte di cassazione, secondo cui "qualsiasi fase di smaltimento dei rifiuti, anche allo stato liquido... é regolata dal d.P.R. n. 915/1982, mentre la sola fase di immissione diretta delle acque di rifiuto nel corpo ricettore finale é disciplinato dalla legge n. 319/1976". Il contrasto della norma impugnata con la disciplina statuale in materia di smaltimento dei rifiuti, la quale costituisce anche attuazione di obblighi comunitari, si verificherebbe, inoltre, sotto l'ulteriore profilo che, in modo arbitrario, si renderebbero esenti "dall'obbligo autorizzatorio attività che vi sarebbero soggette (nel caso, lo stoccaggio e il trattamento di rifiuti liquidi speciali prodotti da terzi)", con tutte le relative conseguenze, peraltro non modificate dal sopravvenire del d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (cosiddetto "decreto Ronchi").

2. - La questione é fondata.

La Corte é chiamata a risolvere il dubbio di costituzionalità inerente al comma 2-bis dell'art. 2 della legge regionale n. 22 del 1996, che esclude dalle tipologie d'impianto assoggettate alla disciplina del d.P.R. 10 settembre 1982 n. 915 e della normativa in materia di smaltimento rifiuti gli impianti di depurazione di reflui speciali, di cui alla legge 10 maggio 1976, n. 319. Tale norma, secondo l'ordinanza di rinvio, "rende pertanto lecita ed esenta da autorizzazione.... tutta la fase del trattamento dei reflui che precede la loro diretta immissione nel corpo ricettore finale".

Ai fini dello scrutinio di costituzionalità della norma regionale censurata appare dunque prioritario stabilire in quale campo disciplinare rientrino i reflui speciali non tossici e non nocivi, accertando in particolare se la norma censurata presupponga per la sua applicazione la regolamentazione ed il regime autorizzatorio della cosiddetta "legge Merli", anche quando si tratti di "rifiuto liquido" non destinato direttamente allo "scarico", bensì allo "stoccaggio" e "trattamento" per conto terzi, o invece presupponga la regolamentazione ed il regime autorizzatorio previsti dal d.P.R. n. 915 del 1982.

Il giudice rimettente interpreta i rapporti intercorrenti al riguardo tra la disciplina degli scarichi idrici regolata dalla legge n. 319 del 1976 e la disciplina dello smaltimento dei rifiuti liquidi regolata dal d.P.R. n. 915 del 1982, invocando il "diritto vivente", che si é ormai formato sulla base di una serie di decisioni della Corte di cassazione penale, tra cui, in particolare, quella a Sezioni unite n. 12310 del 1995, che hanno dimostrato la complementarità della disciplina della legge n. 319 rispetto alla onnicomprensività dei concetti di "rifiuto" e di "smaltimento" e rispetto alla parità di regolamentazione delle operazioni di trattamento dei rifiuti solidi e dei rifiuti liquidi stabilite dal d.P.R. n. 915. Secondo appunto le Sezioni unite della Cassazione -che premettono che il d.P.R. n. 915 regola l'intera materia dei rifiuti e che in essa s'inserisce, "come cerchio concentrico minore", la normativa sugli scarichi dettata dalla c.d. "legge Merli"- il criterio interpretativo "fondamentale" per l'applicazione di queste due normative consiste nel fatto che "il decreto 915 del 1982 disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento (es.: conferimento, raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio ecc.) dei rifiuti prodotti da terzi, siano essi solidi o liquidi, fangosi o sotto forma di liquami, con esclusione di quelle fasi, concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili), attinenti allo scarico e riconducibili alla disciplina stabilita dalla legge n. 319 del 1976, con l'unica eccezione dei fanghi e liquami tossici e nocivi, che sono, sotto ogni profilo, regolati dal d.P.R. n. 915".

L'adesione del giudice a quo a questo criterio applicativo della normativa vigente, ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, comporta dunque che la disciplina autorizzatoria degli impianti di trattamento dei rifiuti liquidi, per conto terzi, debba ricavarsi dalle disposizioni del d.P.R. n. 915, che, in linea generale, impongono un provvedimento abilitativo espresso per tutte le fasi e per tutte le operazioni delle attività di smaltimento antecedenti ed autonome rispetto allo "scarico" idrico espressamente previsto, in via esclusiva, dalla legge n. 319.

In questo stesso senso, d'altronde, é interpretabile anche il recente decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, che pur abrogando esplicitamente il d.P.R. n. 915 del 1982, tuttavia ne mantiene la stessa impostazione rispetto alla regolamentazione degli scarichi idrici, dato che, all'art. 8, lett. e), ricomprende espressamente nel proprio ambito disciplinare, distinguendoli dalle "acque di scarico", i "rifiuti allo stato liquido", usando proprio gli stessi termini dell'art. 2, comma 2, lett. d), della direttiva 75/442/CEE, che appunto il d.P.R. n. 915 recepiva ed attuava.

In questo quadro normativo, va ricordato che l'art. 6, lett. d), del decreto delegato n. 915 del 1982, emanato in base alla legge delega 9 febbraio 1982, n. 42 per l'attuazione delle direttive della Comunità europea in materia di rifiuti (n. 75/442, n.76/403 e n. 78/319), stabilisce che alle regioni compete dare "l'autorizzazione ad enti o imprese ad effettuare lo smaltimento dei rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi". D'altra parte, anche il citato decreto n. 22 del 1997 attribuisce, all'art. 19, alle regioni, "nel rispetto dei principi previsti dalla normativa vigente", la competenza a rilasciare "l'autorizzazione all'esercizio delle operazioni di smaltimento e recupero dei rifiuti". L'ampiezza di questo provvedimento autorizzatorio va dunque individuata non solo alla luce di queste norme, ma anche sulla base del contenuto delle citate direttive comunitarie, le quali -ed ancor più la recente direttiva 91/156- per assicurare un alto livello di protezione alla salute umana ed all'ambiente prevedono un sistema di autorizzazioni e di controllo continuo della gestione dei rifiuti, siano essi solidi o liquidi, dalla produzione allo smaltimento definitivo.

3. - Nell’ambito dei prospettati indirizzi normativi e giurisprudenziali va pertanto scrutinato il censurato art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 22 del 1996, che, nell'esercizio della potestà legislativa concorrente in materia di igiene e sanità, sostanzialmente esonera dall'obbligo di specifica autorizzazione l'attività di gestione di impianti di depurazione, per conto terzi, di rifiuti liquidi.

E' evidente il contrasto di questa disciplina con i principi espressi dalla legislazione statale in materia -in particolare con le disposizioni del decreto delegato n. 915 del 1982, ma anche con quelle del successivo decreto n. 22 del 1997 che espressamente sono qualificate "norme di riforma economico-sociale"- che stabilisce l'obbligatorietà, anche secondo il ricordato orientamento della Corte di cassazione, dell'autorizzazione per ogni fase e per ogni operazione dell'intero processo di smaltimento dei rifiuti, compresi quelli allo stato liquido, "con l'evidente finalità di consentire ed agevolare un'efficace vigilanza ed il complessivo controllo dell'intero processo di smaltimento dei rifiuti" (sentenza n. 96 del 1994).

La necessità di autorizzazione per le singole attività della gestione dei rifiuti é, d'altra parte, secondo le ripetute pronunce di questa Corte, posta dal legislatore statale come principio fondamentale, al quale la legislazione regionale deve attenersi, proprio in considerazione dei valori della salute e dell'ambiente che si intendono tutelare in modo omogeneo sull'intero territorio nazionale. Del resto, questo complesso normativo opera in stretta correlazione con l'esigenza di dare attuazione alle direttive comunitarie in materia e concorre pertanto a delineare gli obiettivi essenziali ed i limiti di operatività della regolamentazione dello smaltimento dei rifiuti (sentenze n. 96 del 1994, n. 194 del 1993 e n. 306 del 1992).

L'art. 2 della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 14 giugno 1996, n. 22, nella parte in cui esclude dagli impianti di smaltimento gli impianti di depurazione, per conto terzi, di rifiuti liquidi, così esonerando la loro gestione dall'obbligo di autorizzazione, si discosta illegittimamente dai principi fondamentali della legislazione statale in materia e contrasta quindi con l'art. 116 della Costituzione.

Va pertanto dichiarata, in riferimento al predetto parametro, la illegittimità costituzionale della norma impugnata, restando assorbite le ulteriori censure.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 14 giugno 1996, n. 22 (Modifiche alla legge regionale 7 settembre 1987, n. 30 ed ulteriori norme in materia di smaltimento dei rifiuti solidi e di attività estrattive).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 8 maggio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Piero Alberto CAPOTOSTI

Depositata in cancelleria il 20 maggio 1998.