SENTENZA N.470
ANNO 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 4, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), promossi con sei ordinanze emesse l'8 novembre 1996 (n. 2 ordinanze) ed il 16 gennaio 1997 (n. 4 ordinanze) dalla Corte di cassazione, Sezioni unite civili, rispettivamente iscritte ai nn. 163, 164, 329, 330, 331 e 332 del registro ordinanze 1997 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 15 e 25, prima serie speciale, dell'anno 1997, a seguito di ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione proposti dalla Federazione nazionale dell'Ordine dei farmacisti italiani, dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici, dei chirurghi e degli odontoiatri, dal Consiglio nazionale degli ingegneri, dal Consiglio nazionale del notariato, dal Consiglio nazionale degli architetti e dal Consiglio nazionale forense.
Visti gli atti di costituzione delle Federazioni nazionali e dei Consigli nazionali predetti, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 14 ottobre 1997 il Giudice relatore Massimo Vari;
uditi gli avvocati Alessandro Pace per la Federazione nazionale dell'Ordine dei farmacisti italiani e per la Federazione nazionale degli Ordini dei medici, dei chirurghi e degli odontoiatri, Matteo dell'Olio e Antonio Funari per la Federazione nazionale degli Ordini dei medici, dei chirurghi e degli odontoiatri, Mario Sanino per il Consiglio nazionale degli ingegneri, per il Consiglio nazionale del notariato, per il Consiglio nazionale degli architetti e per il Consiglio nazionale forense e l'avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con sei ordinanze, tutte di analogo contenuto, due delle quali in data 8 novembre 1996 (r.o. nn. 163 e 164) e le altre in data 8 gennaio 1997 (r.o. nn. 329, 330, 331 e 332 del 1997), la Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 4, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), nella parte in cui affida alla Corte dei conti l'individuazione (non automatica e caratterizzata dalla ricerca di parametri di riferimento e di criteri valutativi) degli enti assoggettabili al controllo, per contrasto con l'art. 100 della Costituzione, in riferimento anche agli artt. 103 e 113 della Costituzione medesima.
2.- Le ordinanze sono state emesse a seguito di ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione, proposti dalla Federazione nazionale dell'Ordine dei farmacisti italiani, dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici, dei chirurghi e degli odontoiatri, dal Consiglio nazionale degli ingegneri, dal Consiglio nazionale del notariato, dal Consiglio nazionale degli architetti e dal Consiglio nazionale forense, nell'ambito di giudizi pendenti innanzi al TAR Lazio per l'annullamento della determinazione n. 43 del 20 luglio 1995, con la quale la Sezione controllo enti della Corte dei conti ha sottoposto gli enti menzionati ai riscontri di cui alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, nonché, di ogni altro atto presupposto, connesso o conseguenziale.
Le Sezioni unite, richiamato il principio della non sindacabilità in sede giurisdizionale degli atti di controllo della Corte dei conti, rammentano che, sulla scorta dell'orientamento già espresso dalla giurisprudenza costituzionale (v. sentenza n. 29 del 1995), la disposizione dell'art. 100 della Costituzione, nel prevedere il controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, va intesa nel senso di non precludere al legislatore di introdurre forme di controllo diverse ed ulteriori, purché ancorate ad interessi costituzionalmente tutelati, come in sostanza è avvenuto con l'estensione del controllo della Corte dei conti alla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche in genere, nonché alle gestioni fuori bilancio ed ai fondi di provenienza comunitaria, disposta dall'art. 3, comma 4, della legge n. 20 del 1994, sia pure lasciando ferme - come precisa il successivo comma 7 - le disposizioni della legge 21 marzo 1958, n. 259, relativamente agli enti da quest'ultima previsti.
Tuttavia - secondo il giudice rimettente - suscita perplessità il fatto che non sia stato esteso, al più ampio ambito di controllo contemplato dalla citata legge n. 20 del 1994, il procedimento già previsto dalla legge n. 259 del 1958 per l'individuazione degli enti da assoggettare alle verifiche della Corte dei conti, secondo un meccanismo affidato all'autorità di governo ed espresso nella forma del decreto presidenziale.
Ricorda, altresí, l'ordinanza che la stessa Cassazione, nel ritenere, a suo tempo, manifestamente infondata una eccezione di illegittimità costituzionale della legge n. 259 del 1958, sollevata con riguardo ai poteri spettanti al Governo per la predetta individuazione degli enti, aveva già avuto occasione di osservare che l'eventuale alternativa, rappresentata dall'attribuzione della relativa competenza alla stessa Corte dei conti, non sarebbe stata praticabile "non potendosi affidare al medesimo organo deputato al controllo la valutazione e determinazione di cui si tratta, senza un mezzo di tutela degli enti, che sarebbe difficile costruire nei riguardi" di quest'ultimo (vedi Cassazione SS. UU. 9 agosto 1996, n. 7327).
In conclusione, ad avviso del rimettente, se si considera che l'art. 100 della Costituzione appare imperniato sul rinvio alla legge come fonte di determinazione dei casi e delle forme del riscontro successivo sugli enti, anche mercé la previsione di procedure esterne (eterodeterminative, secondo talune ordinanze), come quella della legge n. 259 del 1958, è ragione di perplessità il potere, non privo di profili valutativi, demandato alla Corte dei conti. Risulta, perciò, non manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 3, comma 4, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 - per contrasto con l'art. 100 della Costituzione, in riferimento anche agli artt. 103 e 113 - nella parte in cui affida alla Corte dei conti stessa, attraverso un potere "per giunta non sorretto da criteri predeterminati", l'individuazione - non automatica e caratterizzata dalla ricerca di parametri di riferimento e, al tempo stesso, come sottolineano talune delle ordinanze (r.o. nn. 163 e 164 del 1997), di criteri valutativi - degli enti assoggettabili al controllo, pur nella riconosciuta immunità dell'organo in questione dal sindacato giurisdizionale.
Nel sollevare la questione l'ordinanza precisa che la risposta che la Corte costituzionale darà al quesito influirà in ogni caso sulla soluzione da adottarsi in punto di giurisdizione, essendo così assicurata la rilevanza della questione stessa.
3.- Si sono costituite innanzi a questa Corte la Federazione nazionale dell'Ordine dei farmacisti italiani e la Federazione nazionale degli Ordini dei medici, dei chirurghi e degli odontoiatri, deducendo preliminarmente, con difese di analogo tenore, che le parti: a) non sono state mai sottoposte a controllo ai sensi della legge n. 259 del 1958; b) sono state escluse dal campo di applicazione della legge n. 70 del 1975; c) non rientrano nel c.d. "settore pubblico allargato" di cui alla legge n. 468 del 1978. Rilevato, altresí, che la riforma di cui alla legge n. 20 del 1994 ha semplicemente comportato una estensione soggettiva della tipologia del controllo successivo anche a quelle amministrazioni pubbliche (dello Stato, delle Regioni e degli enti locali), che in passato non vi erano sottoposte, le Federazioni osservano, quanto all'ambito di applicazione della disposizione denunciata, che il comma 7 dello stesso art. 3 della legge n. 20 del 1994 fa, comunque, espressamente salve le disposizioni della legge 21 marzo 1958 n. 259: gli enti non facenti parte della "pubblica amministrazione" in senso stretto, intanto potrebbero essere sottoposti al controllo di gestione della Corte dei conti, in quanto siano (ancora oggi) concretamente individuati per il tramite del decreto presidenziale previsto dalla detta legge n. 259 del 1958.
Diversamente, ove l'art. 3, comma 4, dovesse essere interpretato nel senso fatto proprio dalla Corte dei conti, l'individuazione degli enti verrebbe a risolversi in una funzione di amministrazione attiva e non più in una funzione analoga a quella giurisdizionale, sicché non vi sarebbe più motivo di escludere la tutela innanzi al giudice amministrativo avverso i relativi atti. Ma neanche questo basterebbe ad evitare l'incostituzionalità della disposizione, di fronte alla commistione di funzioni amministrative e funzioni para-giurisdizionali in capo allo stesso organo, in contrasto con "i principi generalmente validi in tutti gli ordinamenti in cui vige la divisione dei poteri".
La difesa delle predette Federazioni chiede pertanto: a) in via principale, il rigetto della questione di legittimità costituzionale, con una pronuncia interpretativa nel senso della spettanza al Governo della potestà di determinazione degli enti pubblici (in senso lato) da sottoporre al controllo di gestione della Corte dei conti, nelle forme previste dall'art. 3, primo comma, della legge n. 259 del 1958; b) in via subordinata, l'accoglimento della questione nei termini prospettati e per i vizi denunciati dal giudice a quo; c) in via ulteriormente subordinata, nell'ipotesi in cui si ritenesse di accogliere l'opzione interpretativa fatta propria dal giudice rimettente e ciò non di meno si giudicasse l'art. 3, comma 4, immune da vizi di costituzionalità, una sentenza interpretativa di rigetto, a tal fine specificando che - limitatamente agli atti emanati dalla Corte dei conti nell'esercizio della potestà di determinazione degli enti da sottoporre a controllo - è, comunque, ammissibile il sindacato da parte del giudice amministrativo ex art. 113 della Costituzione.
4.- Si sono costituiti altresì il Consiglio nazionale degli ingegneri, il Consiglio nazionale del notariato, il Consiglio nazionale degli architetti e il Consiglio nazionale forense, deducendo, con difese di analogo tenore, l'incostituzionalità della disposizione denunciata, giacché essa pretende di far determinare dall'ente controllante gli enti sottoposti a controllo. In adesione alle argomentazioni dell'ordinanza di rimessione, si chiede, pertanto, che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione stessa, per contrasto con gli artt. 100, 103 e 113 della Costituzione.
5.- In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, manifestamente infondata.
6.- In particolare, nell'atto di intervento depositato per il giudizio di cui al r.o. n. 163 del 1997, si nega la sussistenza del contrasto fra l'art. 3, comma 4, della legge n. 20 del 1994, e l'art. 100 della Costituzione, avendo la legge stessa stabilito i casi (gestione delle amministrazioni pubbliche) in cui viene esercitato il controllo e le forme (controllo successivo) in cui si procede.
Affermato che il rimettente tende in sostanza a sindacare il merito legislativo, si osserva che dall'art. 100 della Costituzione non può farsi discendere, contrariamente a quanto presuppone il giudice a quo, la necessità di procedure esterne che non coinvolgano la Corte dei conti nella individuazione degli enti, non senza rilevare che, a fronte di un controllo stabilito dalla legge n. 20 del 1994 su tutte le amministrazioni pubbliche, sarebbe stata inutile ogni elencazione degli enti.
Né sarebbero pertinenti i riferimenti agli art. 103 e 113 della Costituzione, considerato, da un lato, che la mancata indicazione nominativa degli enti soggetti al controllo è materia estranea alla giurisdizione, e, dall'altro, che l'attività di controllo svolta dalla Corte dei conti non si estrinseca in atti amministrativi.
7.- Nell'intervenire anche negli altri giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri si è richiamato alle difese ed alle conclusioni di rigetto formulate nel giudizio di cui al r.o. n. 163 del 1997.
8.- Con memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, l'Avvocatura generale dello Stato ha insistito nella richiesta di rigetto, rilevando che le ordinanze intendono, in sostanza, sindacare la discrezionalità del legislatore che ha voluto sottoporre a controllo tutti gli enti pubblici, onde garantire la regolarità e la legittimità dell'azione amministrativa. Si osserva in proposito che, del resto, non si è mai ritenuto che la Corte dei conti "abbia esorbitato dai limiti costituzionali" quando ha reputato soggetti a controllo gli atti dell'ANAS ovvero non soggetti a controllo gli atti autorizzativi relativi ai contratti di lavoro decentrati; analogamente non è mai stata prospettata una questione di costituzionalità quando il giudice penale, nei reati contro la pubblica amministrazione, ha individuato direttamente i soggetti contemplati dalla norma incriminatrice ovvero quando il giudice amministrativo ha fatto rientrare gli ordini professionali nell'ambito degli enti pubblici soggetti alla giurisdizione sul pubblico impiego.
9.- Nell'imminenza dell'udienza, le Federazioni nazionali dell'Ordine dei farmacisti e degli Ordini dei medici, dei chirurghi e degli odontoiatri hanno depositato memorie illustrative di analogo contenuto, con le quali negano che le censure di illegittimità siano volte a sindacare il merito legislativo sì da risultare inammissibili. Sulla premessa della riconosciuta immunità della Corte dei conti dal sindacato giurisdizionale, la questione di costituzionalità tende, invece, a stabilire se sia legittima la deroga, da parte del legislatore ordinario, a due principi cardine del nostro ordinamento giuridico: quello della separazione tra le funzioni amministrativa e giurisdizionale e quello dell'impugnabilità in sede giurisdizionale di tutti gli atti di amministrazione attiva.
Nel merito, la difesa delle citate Federazioni, escluso che dalla natura pubblica di un ente si possa far derivare la sua necessaria appartenenza alla pubblica amministrazione, osserva che diventa sempre più difficile individuare con esattezza la latitudine del concetto di pubblica amministrazione; al riguardo, in anni recenti, il legislatore ha proceduto con metodo prettamente casistico, elaborando definizioni la cui portata, conformemente al fine, non può assumere un significato generale. Non potendosi, perciò, aderire alla tesi secondo la quale l'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 29 del 1993, conterrebbe una definizione generale e onnicomprensiva di "pubblica amministrazione", l'unico criterio, per evitare interpretazioni arbitrarie, sarebbe quello di restringere il più possibile l'ambito di una siffatta nozione, limitandolo allo Stato, alle Regioni ed agli enti locali (ed ai loro enti strumentali).
Comunque, anche a voler revocare in dubbio (per mera ipotesi) quanto detto - ad avviso delle Federazioni - gli enti da sottoporre a controllo di gestione sarebbero esclusivamente quelli la cui attività è suscettibile di incidere sul bilancio dello Stato, tra i quali vanno, quindi, annoverati quelli a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria.
Peraltro, ove si consideri che l'attività degli enti da ultimo menzionati anche in precedenza, sotto l'impero della legge n. 259 del 1958, era sottoposta al sindacato della Corte dei conti, nelle forme del controllo di gestione, è evidente che la legge di riforma n. 20 del 1994 ha operato una semplice estensione soggettiva di tale tipologia di controllo assoggettandovi anche altre amministrazioni pubbliche (quelle dello Stato, delle Regioni e degli enti locali). Ne consegue che quando l'art. 3, comma 7, della legge n. 20 del 1994 fa salve, relativamente agli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, le disposizioni della legge n. 259 del 1958, ciò significa che la potestà di determinazione dei destinatari del controllo, diversi da Stato, Regioni ed enti locali, spetta pur sempre al Governo nelle forme previste dall'art. 3 della legge in parola.
Nel negare, poi, la validità dell'argomento che l'Avvocatura ritiene di poter trarre dal paragone con l'attività interpretativa svolta dal giudice penale, si osserva che, a ritenere che l'art. 3, comma 4, abbia attribuito la potestà di individuazione degli enti alla Corte dei conti, quest'ultima andrebbe considerata "pubblica amministrazione" dal punto di vista sia oggettivo che soggettivo, con un inammissibile stravolgimento dal suo ruolo imparziale e neutrale, quale delineato dagli artt. 100, secondo comma, e 103, secondo comma, della Costituzione.
Alla luce delle esposte considerazioni le predette Federazioni nazionali insistono nelle conclusioni assunte negli atti di costituzione.
10.- Con una ulteriore congiunta memoria, i Consigli nazionali già costituiti in giudizio, premessi brevi cenni sulle caratteristiche degli ordini e collegi professionali come figure organizzatorie di professionisti dotate di ampia autonomia di gestione e finanziaria, insistono per l'accoglimento della questione.
Nell'osservare che l'organo di controllo ha ignorato il procedimento previsto dall'art. 3 della legge n. 259 del 1958, ai fini della sottoposizione al controllo stesso degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, la memoria nega che gli ordini e i collegi professionali possano essere ricompresi tra le amministrazioni pubbliche di cui al comma 4 dell'art. 3 della legge n. 20 del 1994.
Evidenziato, inoltre, che manca anche un altro presupposto del controllo della Corte dei conti, in quanto i Consigli nazionali non ricevono nessuna contribuzione dallo Stato, si osserva conclusivamente che l'art. 3 della legge n. 20 del 1994, non individuando gli enti o meglio le amministrazioni pubbliche da controllare, dà luogo ad un perverso meccanismo, attraverso il quale il soggetto controllore sceglie insindacabilmente i soggetti controllati. Di qui il denunciato contrasto con gli artt. 100, 103 e 113 della Costituzione, giacché, stante la non sindacabilità delle determinazioni adottate in sede di controllo dalla Corte dei conti, soltanto il legislatore potrebbe individuare, secondo i principi costituzionali, i soggetti da sottoporre ai riscontri della medesima Corte dei conti, la quale dovrebbe limitarsi a controllare tali soggetti secondo schemi e modalità già predeterminati dallo stesso legislatore.
Considerato in diritto
1.- Con le ordinanze in epigrafe le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 4, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), il quale dispone che la Corte dei conti svolge il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, verificando la legittimità e la regolarità delle gestioni ed accertando, anche in base all'esito di altri controlli, la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge.
Il rimettente, premesso che l'art. 100 della Costituzione, nel prevedere il controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, non preclude l'introduzione di forme di controllo diverse ed ulteriori, purché caratterizzate da un sicuro ancoraggio a interessi costituzionalmente tutelati e che in tale possibilità rientra la riforma introdotta dalla legge n. 20 del 1994, censura il fatto che non sia stato esteso al più ampio ambito di riscontro definito dal menzionato art. 3, comma 4, il meccanismo di individuazione degli enti già previsto dalla legge n. 259 del 1958, affidato all'Autorità di governo ed espresso nella forma del decreto presidenziale.
Dubita, perciò, della legittimità della disposizione denunciata, contrastante, a suo avviso, con il predetto art. 100, in riferimento anche agli artt. 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui affida alla Corte dei conti, attraverso l'esercizio di un potere "per giunta non sorretto da criteri predeterminati", l'individuazione - non automatica e caratterizzata dalla ricerca di parametri di riferimento e, al tempo stesso, come sottolineano particolarmente talune delle ordinanze, di criteri valutativi - degli enti assoggettabili a riscontro, pur nella riconosciuta immunità dell'organo di controllo dal sindacato giurisdizionale.
2.- I giudizi, avendo ad oggetto identica questione, vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
La questione che essi propongono, da esaminare, secondo le regole del giudizio di costituzionalità, nei termini che è dato desumere dalle ordinanze, senza rilievo per ulteriori profili prospettati negli atti e nelle memorie delle parti, non è fondata.
Prima di affrontarne il merito, conviene richiamare, sia pure per sommi capi e per quanto ha rilievo ai fini del presente giudizio, il processo riformatore realizzato dalla legge 14 gennaio 1994, n. 20, nell'intento di adeguare le forme di controllo sulle amministrazioni pubbliche alle esigenze derivanti dalla moltiplicazione dei centri di spesa, connessa, tra l'altro, allo sviluppo del decentramento e all'istituzione delle Regioni. La legge, intervenendo sulla configurazione tradizionale delle competenze della Corte dei conti - precipuamente caratterizzate dal riscontro di legittimità sugli atti delle amministrazioni dello Stato e, successivamente, estese al controllo sulla gestione degli enti di cui alla legge n. 259 del 1958 - ne ha modificato ambito e contenuto, con il triplice effetto di assoggettare ad esse tutte le amministrazioni pubbliche, di ridurre, nel contempo, l'area del controllo preventivo di legittimità e di conferire primario rilievo al controllo sulla gestione, avente per oggetto non già i singoli atti, ma l'attività amministrativa considerata nel suo concreto e complessivo svolgimento.
Questa Corte, pronunciandosi sul quadro di riferimento costituzionale in cui si colloca la riforma (v. sentenza n. 29 del 1995), ha già avuto occasione di chiarire che le nuove competenze di cui alla norma denunciata non costituiscono attuazione dell'art. 100 della Costituzione, ma sono espressione di una scelta del legislatore ordinario, al quale, come rilevato anche in altre occasioni, non può reputarsi preclusa l'introduzione di forme di controllo diverse ed ulteriori rispetto a quelle puntualmente previste negli artt. 100, secondo comma, 125, primo comma, e 130, purché per esse "sia rintracciabile in Costituzione un adeguato fondamento normativo o un sicuro ancoraggio a interessi costituzionalmente tutelati". Sulla base di una siffatta premessa, il controllo previsto dalla disposizione contestata - avente ad oggetto la valutazione dell'attività amministrativa non solo in rapporto a parametri di legalità, ma in riferimento ai risultati effettivamente conseguiti rispetto agli obiettivi programmati, tenuto conto delle procedure e dei mezzi utilizzati per il loro raggiungimento - è stato ricondotto allo stesso disegno costituzionale della pubblica amministrazione, delineato in base ai principi del buon andamento degli uffici (art. 97, primo comma, della Costituzione), della responsabilità dei funzionari (art. 28 della Costituzione), dell'equilibrio di bilancio (art. 81 della Costituzione) e del coordinamento della finanza delle Regioni con quella dello Stato, delle Province e dei Comuni (art. 119 della Costituzione).
Per quel che interessa il presente giudizio, occorre, peraltro, evidenziare come i testè riferiti principi si riverberino in due tratti caratterizzanti la riforma: anzitutto, il criterio da essa accolto di una applicazione tendenzialmente uniforme a tutte le pubbliche amministrazioni delle nuove regole, proprio in ragione del fine ultimo dell'introduzione in forma generalizzata del controllo sulla gestione, che è quello di favorire una maggiore funzionalità, attraverso la valutazione complessiva della economicità/efficienza dell'azione amministrativa e dell'efficacia dei servizi erogati; in secondo luogo, la scelta dell'imputazione soggettiva del controllo in questione alla Corte dei conti, in considerazione del ruolo che detto istituto è venuto assumendo nel tempo, come organo posto al servizio dello Stato-comunità, quale garante imparziale dell'equilibrio economico-finanziario del settore pubblico.
3.- Ciò posto, non hanno ragion d'essere i dubbi che il giudice rimettente solleva sulla base di un duplice assunto che la Corte non ritiene di poter condividere. E cioè, da un canto, che l'individuazione degli enti assoggettabili a controllo avvenga sulla base di un'attività "non automatica e caratterizzata dalla ricerca di parametri di riferimento e di criteri valutativi" e, quindi, in definitiva attraverso una procedura non conforme all'art. 100 della Costituzione: quest'ultimo, in riferimento anche a quanto disposto dagli artt. 103 e 113, vorrebbe, invece, esclusa la Corte dei conti da tale individuazione, giusta il diverso modello sviluppato, coerentemente con i postulati costituzionali, dalla legge n. 259 del 1958. Dall'altro, che la procedura apprestata dalla disposizione censurata venga attratta nella sfera di insindacabilità che caratterizza gli atti di controllo della Corte dei conti, con conseguente vanificazione di ogni garanzia giurisdizionale nei confronti degli enti assoggettati al controllo stesso.
Sul primo punto, si può obiettare che la disposizione denunciata non prefigura, in realtà, nessuna specifica procedura, limitandosi ad enunciare un criterio generale che, facendo leva sulla nozione di pubblica amministrazione, è di per sé sufficiente a definire l'ambito delle competenze affidate alla Corte, alla stregua del potere proprio di ciascun organo dotato di garanzie procedimentali di accertare le situazioni che, in base alla legge, costituiscono il presupposto per l'esercizio delle sue funzioni.
D'altro canto è fondatamente da escludere che le modalità stabilite dalla legge n. 259 del 1958, per l'individuazione degli enti ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria, costituiscano un modello di riferimento costituzionalmente obbligato anche per il controllo previsto dalla disposizione dell'art. 3, comma 4, della legge n. 20 del 1994, come sembra adombrare lo stesso rimettente, sebbene allo stesso non sfugga, come si evince dall'ordinanza, che l'istituto qui in esame, lungi dal ricollegarsi all'art.100 della Costituzione, si pone, in effetti, come espressione della discrezionalità di cui gode il legislatore ordinario. A sostegno del denunciato vizio dell'art. 3, comma 4, della legge n. 20 del 1994, non pare, dunque, possibile argomentare dal controllo contemplato dalla legge n. 259 del 1958 che, pur introducendo fondamentali innovazioni, è venuta a ricalcare, quanto alle modalità di individuazione degli enti e alla imputazione della funzione, le linee ispiratrici di un ordinamento (legge 19 gennaio 1939, n. 129; regio decreto 8 aprile 1939, n. 720 e regio decreto 30 marzo 1942, n. 442) in base al quale, già prima della Costituzione, la Corte dei conti concorreva alla funzione di controllo su enti individuati da un provvedimento del Ministro delle finanze (art. 1 del menzionato regio decreto n. 720 del 1939), previo accertamento delle condizioni stabilite dalla legge.
La legge n. 259 del 1958 - in attuazione dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione, secondo il quale la Corte dei conti "partecipa nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge al controllo sulla gestione finanziaria" dei c.d. enti sovvenzionati dallo Stato - prevede, come presupposto per l'assoggettamento a controllo, l'esistenza della c.d. contribuzione statale ordinaria (intendendosi per tale, l'assegnazione di contributi corrisposti con carattere di periodicità ovvero la fruizione, con carattere di continuità, da parte degli enti, di imposte, tasse e contributi, ai sensi di quanto contemplato dall'art. 2, ovvero, ancora, l'apporto al patrimonio in capitale da parte dello Stato, giusta l'art. 12) e, al tempo stesso, l'assenza di ipotesi configurate come ostative (art. 3, secondo comma), quali quelle di enti di "interesse esclusivamente locale" ovvero di enti destinatari di contribuzioni di "particolare tenuità", "in relazione alla natura dell'ente ed alla sua consistenza patrimoniale e finanziaria".
La varietà e molteplicità di situazioni considerate giustifica, perciò, la previsione, da parte del primo comma del medesimo art. 3 della legge n. 259 del 1958, di una specifica procedura di ricognizione e valutazione che si conclude con un apposito decreto, mentre analoga necessità non si riscontra per l'individuazione degli enti soggetti al controllo previsto dalla disposizione denunciata, risultando quest'ultimo subordinato al solo presupposto della riconducibilità dei medesimi enti alla nozione generale di pubblica amministrazione.
4.- Né la delineata ricostruzione del sistema legislativo può essere messa in dubbio dal fatto che la norma censurata affida alla Corte dei conti il compito di definire "annualmente i programmi ed i criteri di riferimento del controllo", secondo la locuzione del menzionato comma 4 dell'art. 3 della legge n. 20 del 1994.
Come è dato desumere anche dalla già citata sentenza di questa Corte n. 29 del 1995, la definizione periodica di criteri di riferimento non riguarda la sfera di competenza affidata alla Corte dei conti dalla disposizione denunciata, né la determinazione in astratto degli enti in essa rientranti, alla luce della nozione fornita dalla legge stessa, ma concerne, in correlazione con il contenuto delle nuove funzioni, i parametri di giudizio che la stessa Corte dei conti è tenuta ad osservare. E ciò avendo riguardo ai modelli operativi nascenti dalla comune esperienza e razionalizzati nelle conoscenze tecnico-scientifiche delle discipline economiche, aziendalistiche e statistiche, nonché della contabilità pubblica, in vista dell'accertamento della rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, come pure della valutazione comparativa dei costi, modi e tempi dello svolgimento dell'attività stessa. In questo contesto, il compito di determinare annualmente detti criteri si pone come auto-limite inteso a razionalizzare ex ante l'opera di controllo sulla gestione.
Del pari diretta a razionalizzare l'attività di controllo è la parallela previsione che impone di definire annualmente i "programmi" di attività; previsione, quest'ultima, che si giustifica perché il controllo sulla gestione non può indirizzare le verifiche alla generalità delle pubbliche amministrazioni, ma deve necessariamente svolgersi a "campione", attraverso un esame orientato di volta in volta alle materie, ai settori e alle gestioni ritenuti cruciali. Il vincolo che in tal guisa si impone alla Corte dei conti di predisporre annualmente i programmi impedisce, quindi, che essa, nell'operare le scelte dei propri oggetti, possa individuarli di volta in volta a propria assoluta discrezione, concorrendo ad assicurare, perciò, ulteriormente, anche a garanzia dell'ente in concreto controllato, la razionalità e la trasparenza dell'operato dell'organo di controllo.
5.- Non maggior fondamento ha la seconda delle premesse dalle quali muove il rimettente nel ritenere che l'individuazione degli enti, rientrando, per effetto della contestata disposizione, nella competenza della Corte dei conti, venga attratta nella sfera di insindacabilità che ne assiste le determinazioni, sì da non consentire agli enti stessi alcun rimedio giurisdizionale contro l'illegittimo assoggettamento a controllo.
Dal richiamo fatto dall'ordinanza stessa a quella giurisprudenza che ha ritenuto gli atti della Corte dei conti non impugnabili in via giurisdizionale, non può farsi discendere il corollario dell'insindacabilità anche della verifica delle condizioni e dei presupposti di esistenza del potere esercitato. A parte l'ipotesi del conflitto di attribuzione, ove, beninteso, sussistano gli estremi per l'esperimento dello stesso, va considerato, a tacer d'altro, che là dove non vengano in rilievo le ragioni, connesse alla natura del controllo quale funzione imparziale, che in passato la giurisprudenza ha ritenuto idonee a giustificare la sottrazione degli atti al sindacato giurisdizionale, non possono non riespandersi principi che la Corte ha ripetutamente annoverato fra quelli fondamentali dell'ordinamento costituzionale (v. sentenze n. 18 del 1982 e n. 100 del 1987). Ne discende che le determinazioni della Corte dei conti, in ordine all'individuazione degli enti da assoggettare a controllo, non escludono, per gli enti stessi, la garanzia della tutela innanzi al giudice (art. 24 della Costituzione), restando, perciò, in discussione non già l'an, ma solo il quomodo di detta tutela e, quindi, un problema di interpretazione della normativa vigente, la cui soluzione, ovviamente, esula dall'oggetto del presente giudizio.
Anche sotto questo profilo la questione è da ritenere, dunque, infondata, non essendo dato scorgere nella disposizione denunciata alcun vulnus del diritto di agire in giudizio, da reputarsi comunque garantito.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 4, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), sollevata dalla Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, con le ordinanze indicate in epigrafe, per contrasto con l'art. 100 della Costituzione, in riferimento anche agli artt. 103 e 113 della Costituzione stessa.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
Presidente: Renato GRANATA
Relatore: Massimo VARI
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.