SENTENZA N.445
ANNO 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa il 24 settembre 1996 dal Tribunale di sorveglianza di Roma sull'istanza proposta da Rizzi Daniele, iscritta al n. 1308 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di costituzione di Rizzi Daniele;
udito nella camera di consiglio del 1° ottobre 1997 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. - Il Tribunale di sorveglianza di Roma, premesso di dover decidere sulla istanza di semilibertà proposta da persona condannata ad anni ventuno di reclusione per il delitto di cui all'art. 630 cod. pen., e nei cui confronti non poteva essere ritenuto sussistente il requisito della utile collaborazione ex art. 58-ter dell'Ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354, come modificata dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203) né ricorreva il presupposto della "collaborazione inesigibile", dopo aver passato in rassegna il percorso rieducativo del condannato alla luce, anche, della giurisprudenza costituzionale che ha preso in esame il regime dei divieti stabilito dall'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), deducendone il contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione.
Rileva a tal proposito il giudice a quo che questa Corte, con la sentenza n. 306 del 1993, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della previsione contenuta nell'art. 15, comma 2, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356 e concernente la revoca delle misure alternative in caso di mancata collaborazione con la giustizia, sul presupposto che, con la concessione del beneficio, l'aspettativa del condannato a vedere riconosciuto l'esito positivo del percorso di risocializzazione già compiuto si consolida in un nuovo status, corrispondente ad uno stadio avanzato del processo di risocializzazione, che non può venire meno in assenza di motivi di demerito da parte del detenuto.
Principi, questi, sviluppati nella sentenza n. 504 del 1995, ove si assimilò alla revoca delle misure alternative la inibitoria alla concessione di permessi premio al condannato che ne avesse già fruito, osservandosi come l'interruzione dei permessi per ragioni non addebitabili al condannato si ponesse in contrasto con il principio di progressività del trattamento.
Ed è proprio alla luce di tali principi che si profilerebbe un contrasto tra la norma impugnata e l'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Dalle citate sentenze, osserva infatti il Tribunale rimettente, sembra che questa Corte non abbia soltanto inteso "cristallizzare la posizione del condannato contro interventi peggiorativi da parte del legislatore, ma abbia ritenuto di dover far salva la progressione trattamentale nei confronti di coloro che già si siano dimostrati meritevoli di risocializzazione". Da ciò due rilievi. Da un lato, se si afferma che l'esperienza dei permessi premio non può interrompersi perché funzionale alla concessione delle misure alternative, la norma che nella medesima situazione di fatto rende queste ultime inapplicabili si espone al medesimo dubbio di costituzionalità. Sotto altro profilo, si è determinata una fascia di soggetti che, ammessi a fruire dei permessi premio, maturano aspettative ulteriori di reinserimento ma, per ragioni contingenti, non possono accedere ai benefici che dovrebbero rappresentare il naturale sviluppo del processo di risocializzazione, senza che ciò si giustifichi in base alla pericolosità sociale o a collegamenti con la criminalità organizzata, già esclusi in sede di concessione dei permessi. Da ciò, quindi, anche la violazione dell'art. 3 della Costituzione, attesa l'irragionevole disparità di trattamento che si genera rispetto a quanti sono ammessi a fruire delle misure alternative sol perché concesse con provvedimento anteriore alla entrata in vigore della norma censurata.
Violato sarebbe, infine, l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto anche le norme che regolano la esecuzione della pena devono ritenersi assoggettate al divieto di retroattività, giacché le disposizioni "che istituiscono e disciplinano i benefici penitenziari, determinandone fra l'altro i requisiti di ammissibilità, si saldano con le norme sanzionatorie concorrendo con queste nella determinazione in concreto della pena da espiare".
2. - Con memoria depositata fuori termine si è costituita la parte privata, la quale ha insistito per l'accoglimento della questione sulla base delle argomentazioni svolte davanti al giudice a quo allorché ebbe a formulare l'eccezione di illegittimità costituzionale poi recepita dal Tribunale rimettente.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di sorveglianza di Roma, chiamato a pronunciarsi sulla istanza di semilibertà proposta da persona condannata nel 1986 per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione ed altro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, 3 e 25, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).
Dopo aver posto in risalto il positivo comportamento intramurario del condannato e le relative vicende esecutive, venutesi ad intrecciare alle modifiche normative e agli interventi operati da questa Corte in materia penitenziaria, il giudice a quo ha sottolineato come, nella sentenza n. 306 del 1993, pur essendosi ritenuta in sé non censurabile la scelta legislativa di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, condizionando alla collaborazione, per gli autori di determinati delitti, la concedibilità delle misure alternative alla detenzione, si è reputato che tale scelta di rigore incontrasse un limite costituzionale nel rispetto dell'iter riabilitativo, giacché l'aspettativa del condannato a vedere riconosciuto l'esito positivo del percorso di risocializzazione si consolida in un nuovo status, non vanificabile in assenza di motivi di demerito. Una linea, questa, rammenta ancora il giudice a quo, portata ad ulteriori conseguenze nella sentenza n. 504 del 1995, ove è stata assimilata alla revoca delle misure alternative la mancata concessione dei permessi premio, nell'ipotesi in cui il condannato ne avesse già fruito in precedenza.
Posto, dunque, che la giurisprudenza di questa Corte ha inteso salvaguardare la progressione del trattamento nei confronti dei soggetti che si siano già dimostrati meritevoli di risocializzazione, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto nei confronti delle persone ammesse a fruire dei permessi premio e che hanno maturato aspettative ulteriori di reinserimento, l'esclusione dalle misure alternative determina un arresto del percorso rieducativo, non giustificato dalla pericolosità sociale o da collegamenti con la criminalità organizzata. Compromesso risulterebbe di riflesso anche il principio di uguaglianza, in quanto si determina una irragionevole disparità di trattamento rispetto a chi fruisce delle misure alternative per il sol fatto che il relativo provvedimento di concessione è stato adottato prima della entrata in vigore della norma impugnata.
Violato sarebbe, infine, l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto, saldandosi le norme che disciplinano i benefici penitenziari a quelle sanzionatorie, concorrendo nella determinazione in concreto delle pene da espiare, le stesse devono soddisfare la medesima garanzia di prevedibilità da parte dei consociati circa le conseguenze della propria condotta.
2. - La questione è fondata.
Già nella sentenza n. 306 del 1993, infatti, questa Corte non mancò di sottolineare come la scelta operata dal legislatore di inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione nei confronti dei condannati per taluni gravi reati avesse comportato una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena, considerato che la tipizzazione per titoli di reato non appare lo strumento più idoneo per realizzare appieno i principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario. Il tutto non disgiunto dalla preoccupante tendenza - resa evidente dalle evoluzioni subite dalla disposizione oggetto di impugnativa - alla configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita. Da tali premesse e dal rilievo che la revoca di una misura che ha comportato una sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà personale dovesse necessariamente conformarsi al canone della ragionevolezza ed a quelli di proporzionalità e individualizzazione della pena, cui l'esecuzione deve essere improntata, trasse quindi spunto la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 2, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui prevedeva che la revoca delle misure alternative alla detenzione fosse disposta per i condannati non collaboranti, anche quando non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi con la criminalità organizzata.
Tale linea venne successivamente ripresa e sviluppata nella sentenza n. 504 del 1995. In quella occasione, infatti, la Corte, chiamata a pronunciarsi in tema di permessi premio, non mancò di ribadire come l'esperienza dei permessi rappresentasse parte integrante del programma di trattamento, al punto da far considerare quell'istituto quale fondamentale strumento di rieducazione in quanto idoneo a consentire un iniziale reinserimento del condannato nella società, così da potersene trarre elementi utili per l'eventuale concessione di misure alternative alla detenzione. La funzione pedagogico-propulsiva assolta dal permesso premio consentiva dunque di individuare una progressione nella premialità, cui fa da contrappunto una regressione nella medesima nei casi di mancato rientro in istituto o di altri gravi comportamenti da cui risulti che il soggetto non si è dimostrato meritevole del beneficio. Si dedusse, quindi, che privare di ulteriori permessi premio il condannato per uno dei reati previsti nel primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, quando non sia stata accertata la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e sia stata viceversa accertata l'assenza di pericolosità sociale in conseguenza della regolare condotta in istituto, comprovata dalla concessione di precedenti permessi premio, è situazione del tutto analoga, proprio per il profilo di progressività del trattamento che qualifica il beneficio, alla revoca delle misure alternative alla detenzione, già ritenuta non conforme alla Costituzione dalla sentenza n. 306 del 1993.
E' proprio il principio della progressività trattamentale a rappresentare, dunque, il fulcro attorno al quale si è dipanata la giurisprudenza di questa Corte, doverosamente attenta a rimarcare l'esigenza che ciascun istituto si modelli e viva nel concreto come strumento dinamicamente volto ad assecondare la funzione rieducativa, non soltanto nei profili che ne caratterizzano l'essenza, ma anche per i riflessi che dal singolo istituto scaturiscono sul più generale quadro delle varie opportunità trattamentali che l'ordinamento fornisce. Ogni misura si caratterizza, infatti, per essere parte di un percorso nel quale i diversi interventi si sviluppano secondo un ordito unitario e finalisticamente orientato, al fondo del quale sta il necessario plasmarsi in funzione dello specifico comportamento serbato dal condannato. Qualsiasi regresso giustifica, pertanto, un riadeguamento del percorso rieducativo, così come, all'inverso, il maturarsi di positive esperienze non potrà non generare un ulteriore passaggio nella "scala" degli istituti di risocializzazione. Ebbene, di tale biunivoca correlazione che deve necessariamente stabilirsi tra la progressione del trattamento rieducativo e la risposta che lo stesso ottiene sul piano comportamentale, il caso di specie rappresenta emblematico esempio. Come emerge, infatti, dalla stessa ordinanza di rimessione, il comportamento intramurario del condannato è stato caratterizzato, nel corso dei molti anni di detenzione, da correttezza e adesione alle regole istituzionali, e il gruppo di osservazione ha rilevato convinta partecipazione al trattamento e volontà di superare il passato deviante. Alla luce di tali positivi risultati, il condannato è stato ammesso ai permessi premio sin dal 1988 e, nell'aprile 1992, era stato approvato il programma di trattamento che prevedeva il lavoro all'esterno, rimasto poi ineseguito per effetto della entrata in vigore della disciplina limitativa della concessione dei benefici penitenziari, introdotta dal decreto-legge n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992. Superato l'ostacolo normativo per i permessi premio, a seguito della richiamata sentenza n. 504 del 1995, viene ora in discorso la richiesta di concessione della semilibertà, per la quale continua ad operare la preclusione dettata dalla norma oggetto di impugnativa, avuto riguardo al titolo di reato (art. 630 cod. pen.) in relazione al quale è stata a suo tempo pronunciata la condanna in corso di esecuzione. Il positivo evolversi del trattamento ha dunque subito, nel caso di specie, una brusca interruzione, senza che ad essa abbia in alcun modo corrisposto un comportamento colpevole del condannato, mostratosi, anzi, meritevole di proseguire quel cammino rieducativo che proprio gli istituti previsti dall'ordinamento penitenziario - e fra essi, in particolare, la semilibertà - sono chiamati ad assecondare.
La ratio decidendi posta a fondamento delle richiamate pronunce di incostituzionalità, viene, quindi, nuovamente in discorso. Soltanto postulando, infatti, la piena coerenza della scelta normativa di espungere dal panorama delle opportunità rieducative istituti di fondamentale risalto, quale certamente è la semilibertà, anche nei confronti dei soggetti che - come nella specie - già si trovavano da tempo in fase di espiazione all'atto della entrata in vigore della nuova e più rigorosa disciplina, potrebbe ritenersi non compromesso il principio di uguaglianza e, al tempo stesso, non frustrata la funzione rieducativa della pena. Ma è proprio quella coerenza a risultare gravemente incrinata nelle ipotesi in cui il condannato avesse già maturato a quell'epoca positive esperienze, al punto da essere iscritto in un programma di trattamento fortemente caratterizzato da adesioni comportamentali, in sé sintomatiche di un percorso rieducativo difficilmente regredibile. D'altra parte, a proposito della norma impugnata, questa Corte ha in più occasioni avuto modo di osservare come, pur rimanendo "sullo sfondo, quale generale presupposto per la concessione dei benefici, la verificata assenza di collegamenti con la criminalità organizzata", la normativa introdotta dal decreto-legge n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992, "ha obliterato fino a dissolverli i parametri probatori alla cui stregua condurre un siffatto accertamento, per assegnare invece un risalto esclusivo ad una condotta - quella collaborativa - che si assume come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l'intervenuta rescissione di quei collegamenti". Donde la conseguenza che, incentrandosi sulla condotta il presupposto per il conseguimento dei benefici, la compatibilità con la funzione rieducativa della pena rimane esclusa tutte le volte in cui la collaborazione non "risulti oggettivamente esigibile" (v. la sentenza n. 68 del 1995 e la sentenza n. 504 del 1995).
Se, dunque, la collaborazione impossibile consente di rimuovere l'ostacolo alla verifica dei presupposti per l'accesso ai benefici penitenziari e se, ancora, è proprio la condotta collaborativa ad essere riguardata come elemento dimostrativo della assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, agli identici risultati non può non pervenirsi ove sia stata la stessa condotta penitenziaria a consentire di accertare il raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire. In presenza di una tale situazione, la innovazione legislativa che vieta la concessione di misure alternative alla detenzione finisce quindi per atteggiarsi alla stregua di un meccanismo a connotazioni sostanzialmente ablative, riproducendo così quei caratteri di "revoca" non fondata sulla condotta colpevole del condannato che questa Corte ha già censurato.
La norma impugnata deve quindi essere dichiarata costituzionalmente illegittima in parte qua per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, restando assorbiti gli ulteriori profili dedotti dal giudice rimettente.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che il beneficio della semilibertà possa essere concesso nei confronti dei condannati che, prima della data di entrata in vigore dell'art. 15, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
Presidente: Renato GRANATA
Relatore: Giuliano VASSALLI
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.