SENTENZA N.400
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 10 del decreto-legge 18 ottobre 1995, n. 432 (Interventi urgenti sul processo civile e sulla disciplina transitoria della legge 26 novembre 1990, n. 353, relativa al medesimo processo), convertito in legge 20 dicembre 1995, n. 534, promosso con ordinanze emesse:
1) il 25 novembre 1995 dal Giudice istruttore del Tribunale di Brescia nel procedimento civile vertente tra Saleri Giuseppe e Martinangeli Paola ed altri, iscritta al n. 18 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1996;
2) l'11 aprile 1996 dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Nodari Margherita e Orlando Franco Andrea ed altre, iscritta al n. 748 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 novembre 1996 il Giudice relatore Cesare Ruperto.
Ritenuto in fatto
1.1. -- Nel corso dell'udienza fissata per la precisazione delle conclusioni di un giudizio per risarcimento danni, introdotto nel 1992, il Giudice istruttore presso il Tribunale di Brescia, innanzi al quale la causa era stata rinviata (in quanto giudice designato alla trattazione delle cause pendenti al 30 aprile 1995), con ordinanza emessa il 25 novembre 1995, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 del decreto-legge 18 ottobre 1995, n. 432, nella parte in cui, modificando il comma 1 dell'art. 91 della legge 26 novembre 1990, n. 353, prevede che alla trattazione dei giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 sono destinati, fino al 31 dicembre 1996, non più della metà di tutti i magistrati incaricati della trattazione dei giudizi e degli affari civili.
Il rimettente sottolinea come il comma 2 della norma consenta al dirigente dell'ufficio di assegnare le cause iniziate successivamente al 30 aprile 1995 anche ai magistrati addetti alla trattazione dei giudizi pendenti e come tale possibilità sia stata ammessa dal C.S.M., con propria circolare, solo per gli uffici con organico complessivo inferiore ai sei magistrati incaricati degli affari civili.
Appunto in forza di tale normativa il giudizio a quo è stato assegnato al rimettente, il quale ne sospetta l'illegittimità in riferimento ai citati parametri. Sussisterebbe in primo luogo violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, poiché tutte le cause pendenti al 30 aprile 1995 vengono "concentrate" soltanto sulla metà dei giudici addetti al settore civile, mentre l'altra metà è addetta esclusivamente ai giudizi iniziati successivamente a tale data, con conseguente differenza nei tempi di decisione, assai più lunghi per le prime, mentre le seconde vengono trattate da "magistrati sgravati dal ruolo delle cause pendenti". La presenza di ruoli di diversa consistenza comporterebbe un trattamento differenziato tra cittadini (in ragione del mero dato temporale dell'introduzione del giudizio) lesivo anche dell'art. 24 della Costituzione, in quanto le cause di più lunga definizione sarebbero proprio quelle avviate in epoca più remota.
La norma impugnata risulterebbe altresì lesiva dell'art. 25 della Costituzione, poiché, in contrasto con l'art. 174 del codice di procedura civile, si verrebbe a mutare il giudice istruttore senza l'indicazione di criteri precostituiti per la scelta dei magistrati destinati a trattare le cause pendenti e quelli preposti ai giudizi sopravvenuti. Tale mancanza di regole finirebbe per incidere "sull'immagine" del giudice istruttore, mentre la pratica impossibilità di controllare l'iter logico che ha condotto alla assegnazione dei processi lascerebbe "adito alle più svariate interpretazioni, anche malevole". Osserva in proposito il rimettente che per le "vecchie" cause il Tribunale decide in composizione collegiale e che con un ruolo di diverse migliaia di cause risulterebbero impossibili per l'istruttore l'effettiva conoscenza delle stesse e l'esercizio dei poteri di direzione di cui all'art. 127 cod. proc. civ. La scelta dei giudici dovrebbe quindi avvenire nella massima trasparenza per evitare discriminazioni tra giudici dello stesso ufficio.
La norma impugnata sarebbe infine lesiva dell'art. 97 della Costituzione, poiché, per garantire il successo della riforma, se ne sarebbero poste le conseguenze negative a carico dei cittadini; in proposito si fa rilevare come l'originario art. 91 della legge n. 353 del 1990 prevedeva che alla trattazione delle cause pendenti fosse destinato un numero di magistrati non inferiore alla metà né superiore ai due terzi, e come, con l'aumento della competenza per valore del pretore, la sopravvenienza di cause nuove presso il Tribunale si è drasticamente ridotta. La violazione del principio del buon andamento risiederebbe anche nella diversa ripartizione quantitativa del carico di lavoro sulle cancellerie dei magistrati.
1.2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità, ovvero per l'infondatezza della questione. Sotto il primo profilo si osserva che le doglianze avrebbero legittimato un ricorso del giudice in altre sedi più che una questione di costituzionalità (che si tradurrebbe nel lamentare discriminazioni all'interno dell'ufficio).
Nel merito l'Autorità intervenuta sottolinea anzitutto la natura transitoria della norma, del tutto giustificabile nella fase di prima attuazione di una riforma ed esclude la violazione dell'art. 24 della Costituzione, in quanto il precetto costituzionale non impone che la tutela giurisdizionale venga conseguita sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, mentre nel caso in esame nessun onere sarebbe imposto all'esercizio del diritto di difesa. Pretendere poi di sindacare l'iter logico che sottende l'assegnazione, significherebbe paralizzare quel potere del presidente del Tribunale sancito dall'art. 168-bis cod. proc. civ., che nella specie ammette anche l'adozione di un criterio diverso rispetto a quello censurato, quando il numero di magistrati disponibili non consenta di adottare il descritto meccanismo proporzionale.
Non sarebbero infine ravvisabili quell'arbitrarietà ed irragionevolezza, nelle quali si concreta la violazione dell'art. 97 della Costituzione, in quanto la scelta del dato temporale per individuare il diverso regime cui assoggettare i giudizi rappresenterebbe il criterio più obiettivo e rigoroso per garantire l'efficacia della riforma.
2. -- Il Tribunale di Milano, in sede di reclamo di ordinanza istruttoria ammissiva della prova, ha sollevato, con ordinanza emessa l'11 aprile 1996, questioni di legittimità costituzionale: a) dell'art. 9 del decreto-legge 18 ottobre 1995, n. 432, convertito in legge 20 dicembre 1995, n. 534, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui ha eliminato l'applicabilità ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della riforma, dell'intera novella sul processo civile (in precedenza sancita dall'art. 90, comma 8, della legge 353 del 1990) e comunque in quanto esclude l'applicabilità dell'art. 178 novellato del codice di procedura civile (che abolisce il controllo istruttorio del collegio) e degli artt. 180, 183 e 190-bis cod. proc. civ. concernenti la monocraticità del giudice; b) dell'art. 10 del citato decreto-legge, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, nella parte in cui fissa un rapporto tra magistrati addetti alla trattazione dei giudizi pendenti e magistrati assegnati alle cause nuove ancor meno favorevole di quello indicato in precedenza dall'art. 91, comma 4, della legge n. 353 del 1990 (anziché adottare un criterio che avvantaggi la trattazione delle cause in corso).
Il rimettente collegio prende le mosse proprio dalle norme che - per i giudizi pendenti - lasciano sussistere il reclamo istruttorio (del quale appunto egli è investito), così cancellando l'originario disegno della disciplina transitoria che voleva esteso il nuovo rito anche alle cause in corso (ex art. 90, comma 8, cit.) . Si sarebbe in tal modo creato un "doppio binario" per i giudizi -- rispettivamente pendenti e sopravvenuti al 30 aprile 1995 -- creativo di una disparità di trattamento tra le parti, non giustificata da esigenze di gradualità. Secondo il Tribunale, il perpetuarsi del vecchio rito renderebbe eccessivamente difficoltoso il raggiungimento della tutela dei diritti e sarebbe in contrasto con altre scelte legislative, come quella adottata allorché fu introdotto il rito del lavoro, in cui la disciplina transitoria prevedeva l'estensione del nuovo rito ai giudizi pendenti, sì che i princìpi contenuti nelle disposizioni abrogate dovrebbero essere reintrodotti.
Secondo il giudice a quo, l'istituto del reclamo al collegio rappresenterebbe un rimedio superfluo (essendovi già la facoltà di chiedere la modifica o la revoca del provvedimento ammissivo delle prove al giudice che lo ha emesso), non di rado usato a scopi meramente dilatori e che perpetua una sovrapposizione ed un continuo passaggio tra i due organi investiti dell'istruzione e della decisione, anche perché l'istruttore, per non scontentare le parti, potrebbe essere indotto a rimettere al collegio l'intera causa. La soppressione del reclamo ben potrebbe essere affermata - osserva il giudice a quo - anche nel vigente sistema di collegialità, trattandosi di un rimedio anacronistico, il cui perpetuarsi non giova allo smaltimento dell'arretrato.
Parimenti rilevante, anzi assorbente rispetto alla precedente questione, risulterebbe -- secondo il Tribunale di Milano -- il profilo d'illegittimità costituzionale concernente la mancata applicazione ai giudizi in corso dell'art. 190-bis con la conseguente vigenza della regola che vuole la collegialità per decidere le controversie (mentre pure qui era stata prevista la figura del giudice unico). Da ciò deriverebbero tempi lunghissimi per definire le controversie in corso, con inutile aggravio di costi. Anche l'art. 190-bis potrebbe essere esteso ai giudizi pendenti indipendentemente dall'applicabilità dell'intera riforma, in quanto compatibile, da un lato, con il mantenimento della precedente composizione del Tribunale per le cause già rimesse al collegio, e dall'altro lato, con la riserva di collegialità mantenuta dal nuovo rito.
Il rimettente si diffonde quindi sulle origini storiche e sugli aspetti di diritto comparato relativi all'udienza preliminare ex art. 180 (novellato) cod. proc. civ., allo scopo di evidenziare l'utilità dell'istituto ed i benefici che conseguirebbero dalla sua estensione anche ai giudizi in corso. Per quello a quo, già pervenuto in istruttoria, il Tribunale non esclude tuttavia la rilevanza del tema, sostenendo che l'applicabilità della nuova disciplina comporterebbe una sorta di "reimpostazione" dell'intera controversia.
In ordine alla denuncia dell'art. 10, il rimettente, che richiama esplicitamente l'ordinanza del Tribunale di Brescia, svolge argomenti analoghi a sostegno dell'illegittimità costituzionale del criterio dal legislatore prescelto per la distribuzione dei processi vecchi e nuovi, ulteriormente sottolineando l'irrazionalità della proporzione di metà dei magistrati, anche alla luce dell'aumento della competenza pretorile per valore; in proposito egli suggerisce l'estensione immediata del sistema che la norma stessa indica per gli anni successivi al primo biennio, ovvero un criterio che avvantaggi con un "congruo numero di magistrati" la trattazione delle cause in corso.
Considerato in diritto
1. -- Il Tribunale di Milano dubita della legittimità costituzionale dell'art. 9 del decreto-legge 18 ottobre 1995, n. 432, convertito in legge 20 dicembre 1995, n. 534, nella parte in cui -- sostituendo l'art. 90 della legge 26 novembre 1990, n. 353, già più volte modificato da altre norme -- ha escluso l'applicabilità ai giudizi in corso della nuova disciplina del processo civile ed in particolare degli artt. 178, 180, 183 e 190-bis del codice di procedura civile.
L'impossibilità di trattare la causa attraverso il meccanismo dell'udienza di prima comparizione cui fa seguito l'udienza ex art. 183 cit., nonché il permanere dell'istituto del reclamo istruttorio e della struttura collegiale dell'organo decidente concreterebbero, a parere del rimettente, altrettante violazioni del principio della parità di trattamento tra le parti, restando queste assoggettate ad un rito diverso a seconda della data in cui è stata introdotta la lite, con conseguente compressione del diritto di difesa e lesione anche dell'art. 101 Cost.
Secondo il medesimo Tribunale, gli artt. 3 e 24 della Costituzione nonché il principio di buon andamento della pubblica amministrazione sarebbero poi vulnerati dall'art. 10 del citato decreto-legge, che ha sostituito l'art. 91 della legge n. 353 del 1990, nella parte in cui esso stabilisce che, fino al 31 dicembre 1996, alla trattazione dei giudizi pendenti in data 30 aprile 1995, sono destinati non più della metà dei magistrati incaricati della trattazione dei giudizi e degli affari civili. Anche in tale ipotesi alle cause pendenti sarebbe riservato un trattamento deteriore, tale da ostacolarne lo smaltimento.
Analoga censura, con riferimento agli stessi parametri, relativamente all'art. 10 del solo decreto-legge, è infine sollevata dal Tribunale di Brescia, che evoca altresì l'art. 25 della Costituzione per lesione del principio del giudice naturale, dal rimettente ritenuta insita nel provvedimento con cui un processo civile viene sottratto ad un giudice istruttore ed assegnato ad un altro in esecuzione della denunciata norma.
2. -- I giudizi, attesa la parziale identità del tema, devono essere riuniti e trattati insieme.
3. -- Le questioni non sono fondate.
3.1.1. -- L'originario testo dell'art. 90, comma 8, della legge 26 novembre 1990, n. 353, disponeva l'applicabilità ai giudizi pendenti delle disposizioni dettate dalla legge medesima. Tale opzione aveva comportato una serie di conseguenziali scelte, in particolare con riguardo alla prosecuzione dei giudizi stessi ed al loro adeguamento al sistema delle decadenze.
Con ulteriori interventi modificativi venivano eliminati l'onere di comparizione delle parti per evitare la cancellazione della causa dal ruolo (onere sostituito dalla semplice istanza) ed il termine perentorio originariamente previsto per gli adempimenti necessari alla conversione del rito. Ma neppure tali innovazioni valevano a sottrarre i profili di diritto transitorio alle travagliate vicende legislative che hanno caratterizzato la lunga gestazione della riforma del processo civile. Con l'art. 1 del decreto-legge 21 aprile 1995, n. 121 (poi decaduto per mancata conversione nei termini), è stato infatti adottato l'opposto criterio, che vuole pressoché integralmente soggetti al previgente regime i giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995.
3.1.2. -- Il netto mutamento di indirizzo -- nuovamente disposto con la norma ora denunciata -- si inserisce appunto nel contesto delle molteplici modifiche subite dall'originario impianto della riforma, pressata via via da sempre nuove esigenze di adattamento alla realtà strutturale degli uffici, anche in ragione del necessario coordinamento con la sopravvenuta istituzione del giudice di pace. Come reso esplicito dai lavori preparatori della legge di conversione n. 534 del 1995, esso appare ispirato - nello sforzo altresì di venire incontro alle istanze provenienti soprattutto dal Foro - dall'intento di agevolare il più possibile la fase di avvio del nuovo processo. L'applicabilità di quest'ultimo ai soli giudizi introdotti dopo il 30 aprile 1995 si pone dunque in coerenza con tale scelta di fondo, e oltretutto comporta soluzioni processuali assai più lineari di quelle individuate in precedenza.
Si deve pertanto ritenere non travalicato il limite della ragionevolezza, che il legislatore incontra nel regolare la successione delle leggi processuali nel tempo. In proposito è da ribadire che il regime transitorio è volto ad assicurare il passaggio da una disciplina ad un'altra secondo tempi e scale di priorità che rientrano nel senso politico della discrezionalità legislativa, sì che ben può essere mantenuta in vita solo una parte ovvero la totalità delle norme abrogate in riferimento a situazioni pendenti, e variamente stabilita la sorte dei processi in corso (cfr. sentenze n. 101 del 1993, n. 136 del 1991 e ordinanza n. 419 del 1990).
3.1.3. -- D'altronde, la struttura collegiale dell'organo decidente e il reclamo delle ordinanze istruttorie che ad esso si correla, appartengono ontologicamente alla disciplina previgente. Per cui la manipolazione che il giudice a quo richiede a questa Corte, nel senso della soppressione del citato mezzo di impugnazione come conseguenza della monocraticità del giudice (della quale pure si richiede la estensione ai processi in corso) verrebbe ad operare altrettanti "innesti" della nuova disciplina sul vecchio sistema, che si è invece voluto mantenere pressoché unitario, nel non irrazionale esercizio della detta discrezionalità.
A maggior ragione ciò può ripetersi in ordine alla mancata previsione, per i giudizi pendenti, delle due nuove udienze ex artt. 180 e 183 cod. proc. civ., la cui distinzione è infatti da considerarsi funzionale alla nuova disciplina delle eccezioni processuali e di merito proponibili dal convenuto (cfr. sentenza n. 84 del 1996), in armonia con il modello procedurale adottato dal legislatore nel disegnare la riforma; modello che appare del tutto estraneo, anzi in gran parte antitetico, al rito precedente.
3.2. -- Anche la seconda censura, proposta dal Tribunale di Brescia soltanto con riguardo all'art. 10 del decreto-legge n. 432 del 1995, ma ovviamente estensibile alla legge di conversione (che peraltro è stata direttamente impugnata in parte qua dalla ordinanza del Tribunale di Milano), è priva di consistenza. La decisione di destinare alla trattazione dei giudizi pendenti non più della metà dei magistrati addetti agli affari civili rappresenta, infatti, nient'altro che il corollario, in termini organizzativi, dell'anzidetta opzione vòlta a favorire nella fase iniziale il nuovo processo.
Il previsto criterio di riparto delle controversie, in presenza di strutture giudiziarie notoriamente inadeguate sia al vecchio che al nuovo sistema, costituisce l'esito d'un evidente bilanciamento tra detta esigenza e quella, posta sullo stesso piano, di smaltire in tempi ragionevoli l'enorme carico di processi arretrati; così da impedire che questi ultimi venissero a condizionare la riforma del rito civile al punto da sacrificarne sin dall'inizio il fondamentale principio di immediatezza. E non è da trascurare che nella ponderazione del legislatore è stato tenuto presente anche il potere di nominare e utilizzare più vicepretori onorari, che, proprio "per sopperire alle finalità dell'esaurimento delle controversie civili pendenti", lo stesso novellato art. 90, nel comma 5, attribuisce al presidente del Tribunale pur in assenza delle condizioni previste dal r.d. 30 gennaio 1941, n. 12.
Da sottolineare è inoltre che il vincolo in esame -- peraltro concernente solo gli uffici giudiziari la cui consistenza organica permetta la prevista divisione proporzionale delle assegnazioni -- è limitato nel tempo, venendo a cessare il 31 dicembre 1996 per essere sostituito dal più elastico criterio di cui alla seconda parte dell'art. 91, comma 1. Sicché si è di fronte a un àmbito temporale di vigenza assai modesto, chiaramente indispensabile per raccogliere i dati necessari ai Consigli giudiziari onde poter rendere il previsto parere al Consiglio superiore della magistratura, cui spetterà nel futuro di stabilire la nuova proporzione per ciascun distretto di Corte d'appello. E codesto carattere provvisorio non può non concorrere con le ragioni sopra esposte, a far escludere che la denunciata disciplina transitoria per i giudizi in corso concreti violazione degli evocati parametri.
Per quanto poi riguarda in particolare l'art. 25 della Costituzione, è appena il caso di rilevare come il criterio di ripartizione dei processi viene dall'impugnata norma enunciato in via generale e predeterminata, non già in vista di singole controversie; sicché non configurabile si palesa la prospettata violazione del principio del giudice naturale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 10 del decreto-legge 18 ottobre 1995, n. 432 (Interventi urgenti sul processo civile e sulla disciplina transitoria della legge 26 novembre 1990, n. 353, relativa al medesimo processo), convertito in legge 20 dicembre 1995, n. 534, sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 97 e 101, secondo comma, della Costituzione, dai Tribunali di Milano e Brescia con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 1996..
Renato GRANATA, Presidente
Cesare RUPERTO, Redattore
Depositata in cancelleria il 20 dicembre 1996.