Sentenza n. 399 del 1996

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SENTENZA N.399

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Dott. Renato GRANATA, Presidente

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

-     Avv. Fernanda CONTRI

-     Prof. Guido NEPPI MODONA

-     Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, lettera a), della legge 11 novembre 1975, n. 584 (Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l'igiene del lavoro), così come modificati dall'art. 33 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro), nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del 1994, promosso con ordinanza emessa il 7 febbraio 1996 dal Tribunale di Torino, nel procedimento civile vertente tra Istituto bancario San Paolo di Torino s.p.a. e Abronio Susanna ed altri, iscritta al n. 440 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di costituzione dell'Istituto bancario San Paolo di Torino s.p.a. e di Vergnano Claudio;

udito nell'udienza pubblica del 12 novembre 1996 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;

udito l'avv.to Paolo Tosi per Istituto bancario San Paolo di Torino s.p.a.

Ritenuto in fatto

1.-- Nel corso di una controversia di lavoro promossa da oltre 300 dipendenti nei confronti dell'Istituto bancario San Paolo di Torino s.p.a., finalizzato ad ottenere provvedimenti idonei a tutelare la salute dei non fumatori contro i danni del c.d. fumo "passivo", il Tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, degli artt. 1, lettera a), della legge 11 novembre 1975, n. 584 (Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l'igiene del lavoro), così come modificati dall'art. 33 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro), nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del 1994.

Nell'ampia ordinanza di rimessione il giudice a quo, dopo aver premesso una serie di osservazioni in merito all'accertata nocività del fumo passivo -- da ritenersi ormai pacificamente dimostrata sulla base dei numerosi studi scientifici sull'argomento -- rileva che la normativa vigente, nell'indicare i luoghi nei quali il fumo è vietato, irragionevolmente non ha incluso nell'elenco i luoghi di lavoro in quanto tali, bensì soltanto in relazione a talune situazioni marginali; e i numerosi progetti e disegni di legge presentati in Parlamento, finalizzati all'estensione del divieto di fumare in altri luoghi e specialmente a quelli di lavoro, non hanno avuto alcun seguito.

Tanto premesso, il Tribunale rileva che, pur potendo l'art. 2087 del codice civile considerarsi una norma "aperta", sulla quale fondare il dovere del datore di lavoro di adottare ogni misura idonea a tutelare la salute del lavoratore, non è consentito, sulla base di tale norma, un legittimo divieto di fumare disposto dal datore di lavoro di fronte a locali dell'azienda inquinati dal fumo passivo; e ciò perché il decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, nel dettare regole per la tutela dei lavoratori, ha previsto che l'obbligo di adottare misure specifiche per la protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo valga soltanto per i locali di riposo e con riguardo ad alcune lavorazioni particolarmente esposte a rischio cancerogeno.

Ne consegue che, non essendo più possibile una lettura estensiva delle norme vigenti, la tutela apprestata dal legislatore a protezione della salute dei lavoratori non fumatori deve ritenersi, allo stato, del tutto insufficiente, e perciò in contrasto con l'art. 32 della Costituzione.

Il giudice a quo mostra piena consapevolezza del fatto che questa Corte, con la sentenza n. 202 del 1991, dichiarando inammissibile una questione non molto diversa da quella attuale, ebbe a rivolgere al legislatore un monito, rimasto inascoltato, affinché apprestasse una più incisiva e completa tutela della salute dei cittadini dai danni del fumo passivo. Questa situazione, unita all'impossibilità di un'interpretazione estensiva delle norme vigenti -- accolta invece dal giudice di primo grado -- ed alla diversità della domanda giudiziale -- in questo caso non risarcitoria, ma di prevenzione dei danni --, induce il Tribunale di Torino a sottoporre nuovamente la questione all'esame della Corte, chiedendo che la normativa sopra richiamata venga dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevede il divieto di fumare nei luoghi di lavoro chiusi.

2.-- Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si è costituito l'Istituto bancario San Paolo di Torino s.p.a., chiedendo che la questione venga dichiarata infondata. In prossimità dell'udienza, la difesa dell'Istituto ha presentato una memoria, insistendo per l'accoglimento delle conclusioni già formulate.

Preliminarmente, la difesa della banca ha osservato che le norme della legge n. 584 del 1975 che regolano il divieto di fumo non sono poste a tutela dei singoli in quanto lavoratori, bensì in quanto soggetti che, per le più svariate motivazioni (studio, salute, divertimento etc.), si trovano a soggiornare per un certo periodo in luoghi chiusi; ne conseguirebbe che, mancando ogni collegamento tra le ipotesi previste dal legislatore e quella di cui si lamenta l'omissione (luoghi di lavoro chiusi), la pretesa violazione del principio di ragionevolezza sarebbe comunque insussistente.

L'Istituto osserva poi che, come già rilevato dalla Corte nella sentenza n. 202 del 1991, la pronuncia richiesta dal Tribunale rimettente è inammissibile sia perché non sussiste una soluzione costituzionalmente necessitata, sia perché una pronuncia estensiva del divieto di fumare finirebbe col creare una nuova ipotesi di reato.

3.-- Nel giudizio davanti a questa Corte si è costituito anche Vergnano Claudio, con atto depositato fuori termine.

Considerato in diritto

1. -- Il Tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, degli artt. 1, lettera a), della legge 11 novembre 1975, n. 584 (Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l'igiene del lavoro), così come modificati dall'art. 33 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro), nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del 1994, nella parte in cui non prevedono il divieto di fumare nei luoghi di lavoro chiusi.

2. -- Occorre premettere il richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 218 del 1994, n. 202 del 1991, nn. 307 e 455 del 1990, n. 559 del 1987 e n. 184 del 1986) secondo cui la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato.

E' stato pure ripetutamente affermato che la tutela della salute riguarda la generale e comune pretesa dell'individuo a condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio questo suo bene essenziale. E tale tutela implica non solo situazioni attive di pretesa, ma comprende -- oltre che misure di prevenzione -- anche il dovere di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui. Pertanto, ove si profili una incompatibilità tra il diritto alla tutela della salute, costituzionalmente protetto, ed i liberi comportamenti che non hanno una diretta copertura costituzionale, deve ovviamente darsi prevalenza al primo.

Una questione analoga a quella presente è stata già sottoposta a scrutinio di costituzionalità; in quella occasione la Corte -- pur dando per pacifica la nocività del c.d. fumo passivo -- è pervenuta ad una pronuncia di inammissibilità (sentenza n. 202 del 1991), soprattutto per motivi di non rilevanza nel giudizio a quo. Non ha mancato, tuttavia, di affermare la legittimità (ex art. 32 della Costituzione e art. 2043 del codice civile) di una richiesta diretta al risarcimento dei danni per detta causa; e, nel contempo, ha rivolto al legislatore l'invito ad intervenire per la "necessità di apprestare una più incisiva e completa tutela della salute dei cittadini dai danni cagionati dal fumo anche c.d. passivo, trattandosi di un bene fondamentale e primario costituzionalmente garantito".

3.-- Il Tribunale propone ora la questione di legittimità non ai fini del divieto di fumo nei locali considerati nella sentenza n. 202 del 1991, ma con riguardo ai pregiudizi derivanti dal fumo passivo nei locali di lavoro chiusi, per considerazioni specificamente relative a questi luoghi. Avverte il rimettente che "non viene qui svolta domanda di risarcimento, bensì un'azione in via preventiva per l'adozione di misure atte ad evitare la verificazione di un danno". Rileva inoltre che, successivamente alla sentenza n. 202 del 1991, il legislatore, in attuazione delle direttive comunitarie, ha disciplinato (nel decreto legislativo n. 626 del 1994) la materia concernente la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, senza peraltro introdurre il divieto assoluto e generalizzato di fumare in tutti i luoghi di lavoro; divieto che dovrebbe invece discendere necessariamente dall'esigenza, prevista dalla Costituzione, della efficace protezione della salute, sul presupposto che la vigente normativa non contiene altri strumenti idonei ad evitare il pregiudizio derivante ai lavoratori dal fumo passivo nei locali chiusi.

La legge -- lamenta in proposito -- mentre esige espressamente la "protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo" in relazione ad alcuni locali (corsie di ospedali, aule scolastiche, mezzi di trasporto pubblico), per quelli "adibiti a pubblica riunione", nonché in una serie di "locali di divertimento" (e la direttiva 14 dicembre 1995 della Presidenza del Consiglio estende questi divieti a tutti i locali aperti al pubblico appartenenti alla pubblica amministrazione, alle aziende pubbliche ed ai privati esercenti pubblici servizi), non prevede analoghi divieti per i luoghi di lavoro, dove una molteplicità di dipendenti sono tenuti a permanere per lungo tempo.

Parimenti irragionevole dovrebbe ritenersi che tali divieti siano previsti nell'ambito delle aziende solo per i locali di riposo o -- come accettato anche dall'Istituto bancario -- per quelli di comune frequentazione (bar, mense etc.) da parte di lavoratori e non invece per quelli dove le stesse persone devono trattenersi obbligatoriamente per prestare in piena efficienza le loro energie lavorative.

4.-- L'ordinanza di rimessione, come si è detto, muove da due presupposti: che, avendo la legge direttamente previsto il divieto di fumare in determinati luoghi, tale divieto non possa essere disposto dal datore di lavoro in altri luoghi o circostanze; e che il vigente sistema normativo non offre comunque altri strumenti idonei a tutelare la salute dei lavoratori così come voluto dalla Costituzione.

Senonché, tali presupposti sono erronei, dal momento che, pur non essendo ravvisabile nel diritto positivo un divieto assoluto e generalizzato di fumare in ogni luogo di lavoro chiuso, è anche vero che nell'ordinamento già esistono disposizioni intese a proteggere la salute dei lavoratori da tutto ciò che è atto a danneggiarla, ivi compreso il fumo passivo.

Se alcune norme prescrivono legislativamente il divieto assoluto di fumare in speciali ipotesi, ciò non esclude che da altre disposizioni discenda la legittimità di analogo divieto con riguardo a diversi luoghi e secondo particolari circostanze concrete; è inesatto ritenere, comunque, che altri rimedi voluti dal vigente sistema normativo siano inidonei alla tutela della salute dei lavoratori anche rispetto ai rischi del fumo passivo.

Ed invero, non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori; numerose altre disposizioni, tra cui la disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 626 del 1994, assumono in proposito una valenza decisiva.

L'art. 2087 del codice civile stabilisce che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. La Cassazione (sentenza n. 5048 del 1988) ha ritenuto che tale disposizione "come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica" e pertanto "vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di adeguamento di essa al caso concreto".

Analogamente gli artt. 1, 4 e 31 del decreto legislativo del 19 settembre 1994, n. 626, dispongono che il datore di lavoro, "in relazione alla natura dell'attività dell'azienda ovvero dell'unità produttiva", debba valutare, anche "nella sistemazione dei luoghi di lavoro", i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, "adottare le misure necessarie", e "aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza", riaffermando l'obbligo di "adeguare i luoghi di lavoro alle prescrizioni di sicurezza e di salute".

Con più specifico riferimento alla "salubrità dell'aria" nei locali di lavoro chiusi, l'art. 9 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, modificato dall'art. 16 del decreto legislativo 19 marzo 1996, n. 242, stabilisce la necessità che i lavoratori "dispongano di aria salubre in quantità sufficiente, anche ottenuta con impianti di aerazione"; impianti che peraltro devono essere sempre mantenuti in efficienza e "devono funzionare in modo che i lavoratori non siano esposti a correnti d'aria fastidiose". E all'ultimo comma di detto art. 9 si soggiunge "che qualsiasi sedimento che potrebbe comportare un pericolo per la salute dei lavoratori dovuto all'inquinamento dell'aria respirata deve essere eliminato rapidamente".

A questi precisi e dettagliati doveri del datore di lavoro fa riscontro il diritto dei lavoratori (art. 9 della legge 20 maggio 1970, n. 300) di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica. Coerentemente il d.lgs. n. 626 del 1994 prevede (art. 18) anche la figura del rappresentante dei lavoratori che ha tra l'altro il compito (art. 19, lett. h) di promuovere l'elaborazione e l'attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori. Costoro hanno, inoltre, la possibilità di chiamare il datore di lavoro dinanzi al giudice per l'accertamento di eventuali responsabilità nel predisporre gli adeguati strumenti di tutela.

5.-- Nel sottolineare l'ampiezza dei doveri e delle responsabilità (cui corrispondono i relativi poteri organizzativi) che le norme richiamate attribuiscono ai datori di lavoro, la Corte osserva che, in adempimento di queste disposizioni, di natura non solo programmatica ma precettiva, costoro devono attivarsi per verificare che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata.

Non è dato ovviamente precisare in questa sede le varie misure possibili e le modalità di detti interventi (dislocazioni, orari, impianti, fino ad eventuali divieti), dal momento che ciò discende, oltre che dal rispetto delle prescrizioni legislative, dalle diligenti valutazioni del datore di lavoro in corrispondenza alle diverse circostanze in cui viene prestata l'attività lavorativa, nonché dal controllo dei lavoratori, degli ispettori e del giudice del lavoro.

Alla Corte compete rilevare, invece, che il dovere di vigilare e di provvedere adeguatamente, cui fa riscontro il diritto dei lavoratori (art. 9 dello Statuto, e art. 19 del d.lgs. n. 626 del 1994), è già desumibile dalle norme positive, lette come attuazione dei principi costituzionali di tutela della salute. Ed in tale quadro il datore di lavoro troverà le misure organizzative sufficienti a conseguire il fine della protezione dal fumo passivo in modo conforme al principio costituzionale dell'art. 32. Il rispetto di questo principio nella presente questione va inteso nel senso che la tutela preventiva dei non fumatori nei luoghi di lavoro può ritenersi soddisfatta quando, mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio.

6.-- Una volta accertato che la normativa in vigore prevede strumenti idonei ad una adeguata protezione della salute dei lavoratori anche dal pericolo del fumo passivo, resta assorbito l'esame della richiesta di un intervento finalizzato all'estensione del divieto assoluto e generalizzato di fumare in tutti i luoghi di lavoro chiusi; intervento che il giudice rimettente aveva ritenuto come l'unico mezzo efficace per la protezione della salute secondo l'art. 32 della Costituzione.

Se al legislatore -- per l'invito già a lui rivolto -- resta il compito di riconsiderare l'intera materia per migliorare la disciplina in tema di tutela della salute dei cittadini, ed in particolare la prevenzione dai danni cagionati dal fumo passivo, deve tuttavia concludersi che, riguardo ai luoghi di lavoro, la corretta interpretazione del sistema vigente non consente di ritenere sussistente la violazione delle norme costituzionali invocate dal giudice a quo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, lettera a), della legge 11 novembre 1975, n. 584 (Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l'igiene del lavoro), così come modificati dall'art. 33 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro), nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del 1994, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 1996

Renato GRANATA, Presidente

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

Depositata in cancelleria il 20 dicembre 1996.