Ordinanza n. 46 del 1996

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ORDINANZA N.46

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promossi con ordinanze emesse:

1) il 17 novembre 1994 dal Pretore di Torino nel procedimento penale a carico di Quaglia Silvana, iscritta al n. 132 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 1995:

2) l'8 febbraio 1995 dal Tribunale di Pesaro nel procedimento penale a carico di Farsetti Luca, iscritta al n. 166 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 gennaio 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

RITENUTO che nel corso del processo penale a carico di persona imputata del delitto di falsa testimonianza commesso antecedentemente alla sostituzione dell'art. 372 del codice penale ad opera dell'art. 11 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, il Pretore di Torino ha, con ordinanza del 17 novembre 1994, sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 60, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, "nella parte in cui non consente di applicare le sanzioni sostitutive previste dalla medesima legge al reato di cui all'art. 372 c.p. così come previsto nella sua originaria formulazione relativamente alla pena edittale";

che il giudice a quo, richiamate le sentenze n. 249 del 1993 e n. 254 del 1994, osserva che, avendo l'art. 11, comma 1, del decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, introdotto il delitto di false informazioni al pubblico ministero, punito con la reclusione da uno a cinque anni, senza che, in relazione a tale reato, venga predisposta alcuna prescrizione ostativa quanto all'applicabilità delle sanzioni sostitutive, l'operatività delle dette sanzioni in ordine al reato di falsa testimonianza previsto dall'art. 372 del codice penale nel testo originario si rivelerebbe assolutamente irrazionale, venendo in considerazione precetti che tutelano uno stesso bene giuridico (il corretto funzionamento, cioè, dell'attività giudiziaria);

ritenuto, altresì, che nel corso del processo penale a carico di persona imputata di reato concernente le armi punito con pena detentiva non alternativa, il Tribunale di Pesaro ha, con ordinanza dell'8 febbraio 1995, sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689, "nella sua interezza", ravvisando un'intrinseca irrazionalità nelle singole previsioni di divieto di applicazione delle sanzioni sostitutive che - a seguito delle novazioni normative succedutesi nel tempo - hanno finito per coinvolgere solo i "reati più lievi"; un'irrazionalità divenuta ancor più grave in conseguenza dell'elevazione dei livelli di pena sostituibili, in forza del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito dalla legge 12 agosto 1993, n. 296, e del regime della diminuzione di pena in caso di "patteggiamento";

e che, dunque, risulterebbero violati, non soltanto l'art. 3, ma anche l'art. 27 della Costituzione, "nella parte in cui sancisce il principio di proporzione fra quantità della pena e gravità dell'offesa";

che, più in particolare, l'esclusione di determinate categorie di reati distinte per materia preclude in modo indiscriminato e generalizzato di applicare le sanzioni sostitutive, senza che assuma alcun rilievo l'offensività della figura criminosa; un risultato particolarmente evidente proprio nella materia dei reati concernenti le armi da sparo, ove il legislatore ha mancato anche di considerare le circostanze che qualificano favorevolmente la condotta (v., ad esempio, l'art. 5 della legge 2 ottobre 1967, n. 895);

che, mentre nel primo giudizio non si è costituita la parte privata né ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, nel secondo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata;

che, secondo l'Avvocatura, l'inammissibilità deriverebbe dall'avere il rimettente coinvolto l'art. 60 della legge n. 689 del 1981 nella sua interezza, pur riferendosi il processo a quo ad uno specifico reato concernente le armi da sparo; l'infondatezza della questione sarebbe, invece, ricavabile dalle statuizioni della sentenza n. 249 del 1993, in quanto la ratio decidendi della parziale dichiarazione d'illegittimità della norma allora impugnata derivava dall'irrompere di un sistema normativo che impediva l'applicazione delle sanzioni sostitutive ad un reato meno grave, mentre la consentiva relativamente ad un reato più grave; in più precisando come la coerenza interna del sistema avrebbe potuto essere ripristinata anche mediante un intervento del legislatore che collocasse il reato più grave fra quelli esclusi dal regime delle sanzioni sostitutive;

che, inoltre, l'intervenuta abrogazione dell'art. 54 della legge n. 689 del 1981 ad opera dell'art. 5, comma 1-bis, del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito dalla legge 12 agosto 1993, n. 296, ha scardinato una delle originarie condizioni per accedere ai "benefici", cioè l'appartenere il reato alla competenza pretorile: mutata poi la competenza del pretore in sede di riforma del codice di procedura penale, "il sistema non è divenuto irrazionale in se stesso, ma solo in relazione ad alcune particolari ipotesi", in quanto, abrogato l'art. 54, molti altri reati rientrano ora nei limiti di operatività del beneficio;

che il fatto che le esclusioni oggettive di cui all'art. 60 della legge n. 689 del 1981 siano rimaste immutate ha creato una inadeguatezza sia per eccesso sia per difetto: sotto il primo profilo sono ammessi, infatti, al regime delle sanzioni sostitutive anche reati più gravi di quelli che restano compresi nell'elencazione delle esclusioni; sotto il secondo profilo, il beneficio è stato progressivamente esteso a più gravi reati, senza alcun intervento determinante nuove esclusioni;

che, comunque, ad un "aggiornamento critico" della disciplina delle esclusioni oggettive - indubbiamente necessario - non potrebbe pervenirsi attraverso l'intervento della Corte, perché la restaurazione di un equilibrio sistematico nella materia non può essere che la risultante di un'attività legislativa, "anche in vista di individuare ed applicare una chiara "politica legislativa", scegliendo tra una linea più permissiva, che propone l'abolizione" di ogni esclusione oggettiva ed una linea più rigorosa, in vista di un aggiornamento di tali esclusioni.

CONSIDERATO che i giudici a quibus sollevano questioni analoghe, donde la riunione dei relativi giudizi;

che la prima questione è manifestamente infondata, per essere assunte come termini di raffronto fattispecie non omogenee sul piano sanzionatorio: cioè, da un lato, la falsa testimonianza quale disciplinata antecedentemente alle innovazioni che hanno coinvolto l'art. 372 del codice penale, in forza dell'art. 11, comma 2, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, da cui è scaturito un aumento della misura della pena edittale, originariamente prevista nella reclusione da sei mesi a tre anni (nel vigente sistema è, invece, comminata la pena della reclusione da due a sei anni), dall'altro lato, l'art. 371-bis introdotto dall'art. 11, comma 1, dello stesso decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, che prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni per il reato di false informazioni al pubblico ministero; con la conseguenza che, per essere soltanto questi ultimi i possibili termini di raffronto, la norma adesso denunciata non appare irrazionale e contrastante con il principio di eguaglianza mancando fino al termine della vigenza del precetto dell'originario art. 372 del codice penale il tertium comparationis indicato dal giudice a quo; il tutto senza che venga vulnerato il principio di ragionevolezza con riferimento alla esclusione della falsa testimonianza, sia nel testo previgente sia nel testo "riformato", dal regime delle sanzioni sostitutive;

che, dunque, non informato a criteri di assoluto rigore interpretativo appare il richiamo alle sentenze n. 249 del 1993 e n. 254 del 1994, entrambe riferite a fattispecie coesistenti nell'ordinamento e rispetto alle quali le esclusioni oggettive dal beneficio delle sanzioni sostitutive delle ipotesi di reato contemplate dalle norme sottoposte al vaglio di legittimità venivano a risultare arbitrarie, prevedendo l'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nell'un caso l'impossibilità di applicare le sanzioni sostitutive al reato di lesioni colpose previsto dall'art. 590, secondo e terzo comma, del codice penale, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro, che abbiano determinato le conseguenze previste dal primo comma, numero 2, e dal secondo comma dell'art. 583 del codice penale, sanzioni che restavano, invece, applicabili all'omicidio colposo previsto dall'art. 589 del codice penale, commesso con violazione delle stesse norme (sentenza n. 249 del 1993); e nell'altro caso la insostituibilità delle pene per i reati previsti dagli artt. 21 e 22 della legge 10 maggio 1976, n. 319 (Norme per la tutela delle acque dall'inquinamento), per la discrasia scaturente dall'assenza di analoghe norme di sbarramento nella stessa specifica materia, così da farne derivare "la sopravvenuta irragionevolezza del permanere di un regime preclusivo rispetto a fattispecie di reato conformate in modo tale da provocare una disciplina ingiustificatamente più severa nonostante l'identità dell'interesse protetto ed i giudizi di valore ancor più negativi espressi sotto il profilo sanzionatorio delle successive previsioni" (sentenza n. 254 del 1994);

considerato altresì che la seconda questione, con la quale viene denunciato "nella sua interezza" l'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689, risulta sprovvista del necessario requisito della rilevanza, essendo il giudice a quo chiamato ad applicare solo la norma che sancisce il divieto di operatività delle sanzioni sostitutive per i reati in materia di armi da sparo;

che, comunque, l'esclusione oggettiva sancita dall'art. 60, terzo comma, della legge n. 689 del 1981, relativamente ai reati "in materia di armi da sparo, munizioni ed esplosivi quando per i detti reati la pena detentiva non è alternativa a quella pecuniaria", si inserisce in un contesto normativo nell'ambito del quale le prescrizioni sopravvenute non hanno inciso nella specifica materia all'esame del giudice a quo, e ciò in forza del tipo di esclusione derivante dall'art. 60, terzo comma, della legge n. 689 del 1981, esclusione strutturata in termini generali e riferibile a tutti i casi in cui la pena detentiva non sia alternativa a quella pecuniaria;

che, peraltro, come già è stato puntualizzato nella rammentata sentenza n. 254 del 1994, questa Corte non può fare a meno di stigmatizzare come il permanere del regime delle esclusioni oggettive quale delineato dall'art. 60 della legge n. 689 del 1981 può rivelarsi fonte di incongruenze e disparità di trattamento non sempre giustificate; anche considerando che il "decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito dalla legge 12 agosto 1993, n. 296, mentre, per un verso, ha ampliato l'ambito di operatività delle sanzioni sostitutive, estendendo l'entità della pena concretamente irrogata, per un altro verso, ha soppresso - coerentemente al decisum della ricordata sentenza n. 249 del 1993 - ogni legame con le regole relative alla competenza; con una diretta incidenza di tali disposizioni sul regime dell'applicazione della pena su richiesta delle parti di cui agli artt. 444 e seguenti del codice di procedura penale, una volta affermata la cumulabilità delle due richieste, i cui conseguenti effetti deflattivi possono risultare consistentemente rafforzati".

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 60, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Torino con ordinanza del 17 novembre 1994;

2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 60 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Pesaro con ordinanza dell'8 febbraio 1995.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 febbraio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 23 febbraio 1996.