Sentenza n. 44 del 1996

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SENTENZA N.44

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Licenziamenti individuali), così come modificato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, promosso con ordinanza emessa il 4 novembre 1994 dal tribunale di Busto Arsizio, nel procedimento civile vertente tra Impresa "N.T. - Nizzoli trasporti" e America Marcello, iscritta al n. 542 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1995;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 1996 il giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un giudizio avente ad oggetto l'impugnazione della sentenza del pretore di Busto Arsizio - sezione distaccata di Gallarate - con la quale era stata dichiarata l'inefficacia del licenziamento intimato dall'impresa "N.T. - Nizzoli trasporti" nei confronti di America Marcello, e conseguentemente pronunciata condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro entro tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno quantificato in L. 9.901.500, oltre accessori, il tribunale di Busto Arsizio, con ordinanza in data 4 novembre 1994, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nella parte in cui attribuisce al datore di lavoro la facoltà di scelta fra la riassunzione del lavoratore ed il risarcimento del danno.

Rilevato che l'impresa aveva invitato il ricorrente a presentarsi al lavoro e che lo stesso non si era presentato proponendo precetto contro la datrice di lavoro per il pagamento del risarcimento del danno, osserva il giudice a quo che, mentre per i dipendenti di impresa "maggiore" compete al creditore/lavoratore la scelta fra la reintegrazione o il risarcimento del danno ex art. 18, quinto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, per le imprese "minori", la facoltà di scelta compete, ex art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, al debitore/datore di lavoro (come già ritenuto dalla Corte di Cassazione, 3/1/1986, n. 33).

Premesso che le fattispecie debbono essere qualificate come obbligazione alternativa con facoltà di scelta a favore del creditore/1avoratore nella legge 20 maggio 1970, n. 300, e obbligazione facoltativa da parte del debitore/datore di lavoro nella legge 15 luglio 1966, n. 604, il rimettente osserva che, in base a tale principio, il lavoratore di impresa "minore" che non si presenti in azienda dopo la scelta del datore di riassumerlo, perderebbe il diritto al risarcimento ex art. 1286, secondo comma, del codice civile.

Al dipendente di impresa "minore" verrebbe pertanto assicurato un diverso e più sfavorevole trattamento e non sarebbe inoltre consentito il concreto esercizio dell'azione per la tutela del diritto poiché, per un anno almeno - tempo necessario per ottenere una sentenza esecutiva di primo grado - il lavoratore non dovrebbe lavorare per impedire che, all'esito della causa, perda il diritto al risarcimento e non possa più essere reintegrato, per aver trovato altra occupazione.

2. - Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

L'Avvocatura osserva come il legislatore del 1990 abbia inteso confermare la compresenza di due normative, quella della tutela "reale" ex art. 18 della legge n. 300 del 1970 e quella della tutela "obbligatoria" ex art. 8 della legge n. 604 del 1966.

Inoltre, la considerazione della scarsa potenzialità economica dei datori di lavoro di minori dimensioni, se non è riuscita ad impedire l'estensione di una disciplina vincolistica del licenziamento, ha tuttavia provocato una fissazione a livello minimale dell'onere indennitario a carico del datore che ha proceduto al licenziamento ingiustificato.

Sottolinea ancora l'Avvocatura che da questo quadro normativo emerge chiaramente che il legislatore del 1990 ha privilegiato la prospettiva occupazionale su quella meramente (e più limitatamente) risarcitoria, per cui risulta del tutto ellittico il caso in esame, in quanto il lavoratore vorrebbe poter scegliere una forma di tutela (pagamento dell'indennità "ridotta") che è obiettivamente più sfavorevole di quella in primis apprestata dal legislatore.

Considerato in diritto

 

1. - Il tribunale di Busto Arsizio dubita della legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Licenziamenti individuali), così come modificato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nella parte in cui prevede il diritto di scelta fra la riassunzione ed il risarcimento a favore del datore di lavoro.

A parere del giudice a quo sussisterebbe contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto il lavoratore di impresa "minore" godrebbe di un trattamento più sfavorevole rispetto al lavoratore di impresa "maggiore", nonché con l'art. 24 della Costituzione non essendo in concreto concessa tutela al lavoratore di impresa "minore".

2. - La questione non è fondata dovendosi interpretare la norma impugnata nei sensi che saranno di seguito precisati.

Questa Corte ha più volte (sentenze nn. 398 del 1994, 189 e 102 del 1975, 55 del 1974) indicato i motivi razionali che giustificano la diversificazione del regime dei licenziamenti individuali in ragione delle dimensioni dell'impresa, evidenziando che essi vanno ricercati nelle esigenze di funzionalità delle unità produttive, soprattutto ai fini occupazionali, nonché nel diverso grado di fiduciarietà e di tensione psicologica riscontrabile nei rapporti diretti fra dipendente e piccolo imprenditore rispetto alla situazione nella grande impresa.

Nel confermare questa giurisprudenza, va ribadito che, nella sola ipotesi di imprese minori, la legge ragionevolmente riconosce al datore di lavoro la scelta in ordine alla possibilità di riassumere il lavoratore illegittimamente licenziato, ovvero di risarcirgli il danno conseguente all'accertata illegittimità del licenziamento.

3. - La ragionevolezza della differente disciplina tra impresa minore e maggiore non risolve tuttavia il problema relativo alle ulteriori conseguenze scaturenti dalla predetta scelta operata dal datore di lavoro e precisamente quello della esatta interpretazione dell'espressione normativa che impone all'imprenditore l'obbligo, in mancanza della riassunzione, di risarcire il danno; ciò costituisce la sostanza della sollevata questione di costituzionalità.

In proposito, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale della norma interpretata in modo conforme agli artt. 1286 e ss. del codice civile, e cioè nel senso che, operata la scelta fra due prestazioni, ciò determina l'irrevocabilità della stessa, e il debitore resta liberato dalla seconda prestazione.

L'interpretazione da cui muove l'ordinanza di rimessione è aderente ad un orientamento della Corte di cassazione, tuttavia contrastato da un maggior numero di pronunce della stessa, secondo cui il risarcimento previsto dalla norma impugnata costituisce una delle conseguenze della illegittimità del licenziamento: ed invero, si è affermato che, in mancanza (per qualsiasi motivo) della reintegrazione (tutela reale e primaria), è dovuta la seconda delle tutele, e cioè quella obbligatoria, consistente nella monetizzazione del danno derivante dall'illegittimo licenziamento, ogni qual volta non si ripristini il rapporto.

4. - Questo diverso orientamento giurisprudenziale è condiviso dalla quasi totalità della dottrina e risulta anche da una risalente pronuncia di questa Corte (sentenza n. 194 del 1970), la quale ebbe ad affermare testualmente: "Né, ad orientare diversamente il giudizio della Corte, valgono i rilievi contenuti nelle ordinanze circa la ingiustizia cui condurrebbe la norma che, si sostiene, escluderebbe l'obbligo del pagamento dell'indennità, nel caso che il ripristino del rapporto di lavoro non possa aver luogo per causa non imputabile al datore di lavoro".

"La Corte esclude che tali inconvenienti possano verificarsi ove si ritenga - come deve ritenersi perché la norma conservi la riconosciuta conformità ai principi costituzionali - che il pagamento della indennità, qualora il rapporto non si ripristini, sia sempre dovuto e lo sia per il solo fatto del mancato ripristino di esso, senza che a nulla rilevi quale sia il soggetto e quale la ragione per cui ciò abbia a verificarsi".

5. - Con tale pronuncia, quindi, questa Corte ha già fatto propria quella interpretazione della norma che la rende conforme ai principi costituzionali. E, nella presente occasione, non risultano validi motivi per discostarsi dalla richiamata pronuncia.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Licenziamenti individuali), così come modificato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal tribunale di Busto Arsizio con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 febbraio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

Depositata in cancelleria il 23 febbraio 1996.